
«Mia madre puzza». Su “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini
Benché da molti sia considerata una bella donna, mia madre puzza.
Tra noi se ne parla senza allusioni.
«Pare ‘e trasì dint’a grotta d’o cane» dice mio padre uscendo dalla camera da letto alla fine del loro riposo pomeridiano.
Si riferisce a un passaggio sotterraneo nella solfatara di Pozzuoli, dove i miasmi di anidride carbonica ristagnano al di sotto del metro di altezza lasciando indenne l’essere umano ma soffocando il cane che s’avventuri incauto per quel budello.
Forse è la vasta cicatrice slabbrata, che come un cratere di carne devasta il suo ventre operato poco dopo la mia nascita, a giustificarne il marciume che le fermenta dentro ed esala il fetore inconfondibile che rende vana l’ultima risorsa di chi scorreggia: addossare la colpa a un altro.
Lei del resto neppure ci prova, e a ogni sfiato, che l’allerta familiare immediatamente rimarca con risate e schiamazzi, fa sempre seguire una smorfia di rivendicazione soddisfatta il cui significato è: di questa putredine io mi sono liberata, adesso respiratevela voi.
Ma nessuno di noi sente imbarazzo, nessuno prova vergogna. Il corpo umano puzza…
Antonio Franchini, Il fuoco che ti porti dentro, Marsilio 2024, p.7
(Finalista Premio Campiello 2024)
L’animale che si porta dentro
Son tutte belle le mamme del mondo. Per l’Italia canora, non c’è alcun dubbio; e anche alcuni poeti non amano scherzarci su: Mater dulcissima, invoca Quasimodo («E la voce delicata freme davanti a quel minaccioso paesaggio nordico di nebbie e neve e gelo che incombono sul giovane emigrante e preoccupano la sua mamma apprensiva…», p.190); Statua davanti all’Eterno, la chiama Ungaretti («e oserà guardare il figlio solo quando lo saprà perdonato delle sue colpe», p.218).
E sebbene Leopardi, sebbene Gadda, Brancati, Pasolini, sebbene molti altri, molte altre – fra scrittrici e scrittori – ci abbiano provato, a mettere in luce il lato oscuro della forza materna, tuttavia nell’immaginario collettivo italiano la mamma resiste bella e pronta al sacrificio. Franchini – autore, personaggio e voce narrante di questa nuovissima e lucida (ri)cognizione del dolore, nonché Venditore di libri le cui Memorie non hanno bisogno sui social di cuori e pollici-in-su – non solo, al netto della bellezza, infrange fin dalla primissima pagina del suo racconto quella patina resistente di soavità, ma mette in crisi pure la schiera dei narratori delle cattive madri. Perché la sua è una madre né buona né cattiva; «Forse, il bene e il male per lei non esistono»:
Bene e male sono forze che calano sull’uomo dall’alto, non provengono da lui. Sono come il potere, cui l’individuo è soggetto. L’individuo è servo, e come un servo può solo cercare di imbrogliare il padrone, anzi deve farlo. Può essere negligente, riottoso, infido, anzi deve esserlo, e in questa inaffidabilità c’è la sua ribellione, il suo orgoglio di individuo, la sua fierezza di animale non addomesticabile fino in fondo.
Franchini racconta questa fierezza di animale non addomesticabile e crea una figura indimenticabile, di una forza straordinaria, prometeica. Solo che Prometeo il fuoco lo porta agli uomini dentro una ferula: Angela, il fuoco, lo porta dentro di sé.
La (ri)cognizione del dolore
«Da sempre io mi vergogno di mia madre» (p.79), perché Angela è una madre impossibile. Brusca. Arida. Materiale e visionaria. Sensuale e respingente. Sguaiata e classista. Ignorante e laureata.
Sono andato via di casa a diciannove anni per non vederla più, ho vissuto lontano per decenni per mantenere, a distanza, un rapporto formalmente decoroso, poi il destino, che ha spesso il talento di predisporre le cose nel modo peggiore, ci ha riunito. (…) La detesto da sempre. (…) Mi ha dato un’educazione a rovescio: i valori ai quali si ispira o li esprime in una forma riprovevole o sono disvalori veri e propri. (…) È infatti la sua concezione della vita che mi ha sempre fatto schifo; ma qualche sera fa, non so perché, forse la sentivo silenziosa da troppo tempo, mi sono issato alle inferriate della sua finestra e le ho guardato dentro casa.
Era stesa di traverso sul letto – ormai è ridotta a un nido di ossa e quando giace rannicchiata occupa poco spazio -, assopita o quasi, mentre il televisore andava, buttata là come un oggetto che, lasciato cadere, ha trovato una sistemazione sbilenca ma non può che rimanere dove sta, e non si è accorta che la fissavo.
Per una volta, scoprendola nella sua postura di cosa abbandonata, mi sono reso conto che è mia madre e che sta morendo e che tutto ciò contro cui ho lottato per tutta la vita si dissolverà con lei, nel vuoto, in un niente. (pp.9-10)
Il racconto diventa allora una sorta di redde rationem. «Fattélla cu chi è meglio ‘e te e facci le spese» (p.11). È questo l’insegnamento di Angela, ispirato a una «specie di darwinismo sociale» e prontamente smentito nel suo (quasi) contrario («Chiù ricchi so’, chiù so’ fetienti»)? È questo l’unico lascito di una donna, che «non ha mai avuto una sola amica» e «non ha mai sentito in alcun modo questa mancanza» (p.10), che «odia sia per differenza sia per affinità, e per affinità, come è in genere naturale che accada, odia ancora più intensamente» (p.20)? Il narratore ripercorre i sentieri accidentati della propria educazione (anche sentimentale), ma lo fa a cominciare da quella impartita alla propria stessa madre.
Negli anni della guerra, la famiglia di mio nonno si trasferisce a Napoli dalle montagne del Sannio. Marito, moglie e due figlie piccole vanno a vivere nei pressi della fabbrica [un’industria tessile, ndR], lui con mansioni tra il ragioniere e l’uomo di fiducia, lei a tenere la casa come domestica e aiuto cuoca. Mio nonno è tubercolotico e muore nel ‘43, lasciando le tre donne a cercare di sopravvivere in tempi difficili. (p.11)
Il padrone della fabbrica ha il vizio del gioco e colleziona immagini pornografiche e parecchie amanti: tra i compiti principali della madre di Angela «c’è quello di accompagnarle alla stazione quando il signor Nobile si è stancato di loro» (p.12): «Angela cresce ora nel sospetto ora nella certezza che gli uomini facciano schifo, una scoperta che nella vita le sarà d’aiuto» (p.13). Più in generale:
Le donne come mia nonna e mia madre, che venivano dalle campagne, da paesi dimenticati e da una miseria ostentata come un certificato di garanzia (…) hanno disprezzato l’amore prima di qualunque altro sentimento, la gentilezza più di qualunque altra virtù, le altre donne assai più di qualsiasi maschio. (pp.12-13)
Queste donne «Sono unite contro due mondi. Uno che spiantonandosi fugge dalla distruzione e l’altro che accalcandosi insegue il benessere» (p.21); e, mentre racconta delle donne, il narratore racconta quei due mondi. Nel primo, Angela «è andata a scuola facendo il classico in anni in cui non è facile che una ragazza orfana di padre e di condizione umile vada al liceo» (p.25); nel secondo ci sono «donne che si muovono dalla provincia per arrivare in città, sposarsi, fare figli, mutare la propria condizione andando a vivere in un condominio decoroso in un quartiere di semicentro, cioè esattamente le donne come lei» (p.22). Nel primo Angela studia Lettere all’università e sostiene l’esame di «Filologia e romanzo» «tenendo ‘a panza annanze» (p.90), cioè già incinta; nel secondo esplode la smania della villeggiatura, con «misture altamente infiammabili» «tra vecchi villeggianti» e «gli altri proprietari i quali, pur di guadagnare qualcosa, affittano a famiglie maleducate e rumorose» (p.35). In mezzo, sospeso come sull’orlo di un abisso, il mondo da cui proviene Eugenio, il padre:
Sembra un perfetto figlio del suo tempo [era nato nel 1912, ndR], per i silenzi (…), per la distanza siderale dalla quale proviene e nella quale vive sospeso: il mondo dei maschi adulti, una bolla di responsabilità indecifrabili, di solitudine e segreti.
Ma lui non è come appare, è un uomo gentile, è tollerante, permissivo, è ironico (…).
So che è un sopravvissuto, so che ha combattuto in Russia ed è uno dei pochi a essere tornato, so che la sua famiglia è uscita distrutta dalla guerra, ma lo so come può saperlo un ragazzo nato molto dopo.
Significa che non lo so. (p.62)
Lui e la sorella (la zia immancabilmente odiata da Angela), gli unici sopravvissuti di una famiglia altoborghese «con curiosità e gusto per l’arte»,
vivono un privilegio privo di eccessi e ostentazione, senza il clamore cafone che il benessere assumerà dopo, quando diventa manifestazione tangibile del sopruso. Per il momento quella dolce vita partenopea è ancora la consolazione per una catastrofe le cui vittime si risarciscono del dolore come possono. Non sono più giovani ma neanche anziani al punto da rinunciare a tutto quello che la guerra gli ha tolto.
Eugenio incontra Angela nel momento in cui questa vita di abitudini gradevoli e placide comincia ad annoiarlo. (p.66)
Di questa guerra dei mondi, il narratore non si reinventa vittima né eroe, martire o disertore. Nel tratteggiare una sorta di potrait of the artist as a young man, si racconta piuttosto come il prodotto di una incontrollata deflagrazione di forze uguali e opposte:
Forse appartengo all’ultima generazione che ha ricevuto in consegna il sacrificio degli avi. (…) Che il fratello di mio padre sia un eroe di guerra lo so da quando sono bambino (…) perché continuamente rileggo, senza che nessuno mi abbia forzato a farlo, la motivazione della sua medaglia al valore, che è un campionario di ogni retorica, ma io non me ne posso ancora accorgere. (…) immagino l’attacco, la bella morte, sogno di sacrificarmi per tutti. (…) Non bastano lo studio, il clima politico e le canzoni pacifiste. (…) Così sotto un’apparenza di sensatezza, di equilibrio, di moderazione, mi affascina tutto quanto è gratuito, estremo, nobile (…). Mi attrae il codice d’onore elaborato per disprezzare l’utilitarismo dell’umanità simile ad Angela, quel desiderio di beni, di stabilità, di permanenza, quella mancanza di ogni slancio ideale, quel materialismo angusto, incrollabile. La sola idea di morte che accarezzo è quella in battaglia e tutto questo è ancora più assurdo perché mi considero razionale e descrivo lei come la pazza. (pp.94-96)
E dopo aver tentato più volte – novello Leopardi – di andarsene da casa, finalmente si trasferisce davvero “al Nord”; in quel Nord verso cui Angela ha sempre nutrito – pur senza conoscerlo – una sorta di atavica diffidenza e dove paradossalmente finisce (come s’è visto) per andare a vivere a e a morire. E lì quella vergogna verso la madre si fa più intensa e consapevole, perché il binomio Napoli-Milano diventa quasi l’emblema di ogni polarità, e in particolare di quella polarità tormentata che tiene agli antipodi madre e figlio (e – se avessimo il coraggio dell’onestà – diremmo ogni madre e ogni figlio): entità diverse ma impastate della stessa materia. Significative le pagine su Zappatore, la canzone scritta da Libero Bovio sul finire degli anni Venti e poi divenuta la sceneggiata di Mario Merola; sono – peraltro – pagine esemplari per l’impiego sapiente e sottile di una raffinata strumentazione critica, che purtroppo, solo per ragioni di spazio, qui non si riportano per intero:
Questo tema della vergogna dei giovani meridionali per i genitori cafoni è al centro della più famosa sceneggiata napoletana: Zappatore. (…) In realtà l’ingratitudine filiale è solo il tema apparente di Zappatore, perché ciò che la canzone ostenta è soprattutto la fierezza del contadino, la sua superiorità morale sul signore, una supremazia ribadita dalla posa guappesca (…), dall’imposizione di sé e del suo mezzo (…). E noi più giovani, che abbiamo sempre chiaramente visto come dietro l’apparente umiltà di zappatore ci fosse, neanche tanto camuffato, l’eterno modello della guapparia, forse anche noi, esattamente come lui, abbiamo vissuto con fierezza il senso di inferiorità che ci poteva affliggere. Questo senso di inferiorità dello zappatore, che si rovescia nel suo contrario, è lo stesso di Angela, è lo stesso di tutto il Sud. (pp.80-84)
Una recita finita male?
Tracciato dunque il perimetro di quel campo di forze entro il quale condurre la ricognizione del dolore (la puzza è dolore, la vergogna è dolore, «la detesto» è dolore, «mi fa schifo» è dolore, così come è doloroso «non essere capace di dimostrare l’amore» e dirsi e dire tutte queste cose insieme), al centro il narratore pone lei, Angela, quasi un detonatore vivente. «Friccicarella», scoppiettante, perennemente in movimento (al contrario della sorella, bellissima e tubercolotica, non a caso definita «pesante», p.55), è lei a far esplodere i contrasti che gli anestetici del dopoguerra, l’insensata euforia da Napoli milionaria! e poi il perbenismo, il conformismo del boom puntano a sedare, nascondere, zittire. Indulgente verso se stessa, severa verso il mondo al punto che il figlio sospetta in lei un trauma orrendo e inconfessato (p.59), la madre assume davvero le fattezze di un Prometeo scatenato contro le ipocrisie e le menzogne, smascherandole, dicendo il brutto che gli altri non vedono, non vogliono vedere o semplicemente non vogliono dire. Invece Angela lo dice, con una libertà che è solo del fool e in una lingua tutta sua, che non può rubricarsi semplicemente come dialetto, perché è il corrispettivo di quei mondi in conflitto, una sorta di codice anarchico che racconta di una rabbia antica – rabbia di popolo affamato – e di una irruente vitalità, capace, con la stessa velocità, di creare e distruggere. Non è un codice incomprensibile, anzi: è seducente, tanto che ai “milanesi” va quasi a genio. Ma apre recessi nei quali è difficile addentrarsi senza farsi male, senza temere la scoperta di verità dolorose, «verità brutali contro ogni sentimentalismo e ogni versione edulcorata della vita» (p.191). A sgombrare gli accessi il narratore interviene quindi con la lucidità di un anatomopatologo, la sottigliezza di un filologo, il vocabolario rigoglioso e la sintassi rigorosa di un architetto rinascimentale. Il suo codice si stratifica su quell’altro, penetrandone lo spessore. E in questo incontro-scontro di codici è l’essenza di quella che – concludendo il suo racconto – il narratore definisce «recita»:
Sì, perché cominciò come una recita, di questo sono sicuro. O era anche una recita.
Per lungo tempo Angela ha finto, ha interpretato una parte.
Ha finto come normalmente fingono gli esseri umani, non inventando di sana pianta una se stessa completamente diversa, ma esagerando i tratti di quella che era per assomigliare di più a quella che voleva essere. (…) Lei voleva essere anticonformista, ha sempre perseguito la sua idea di diversità, di scarto dalla norma, la deriva di uno spirito ribelle. Non le piaceva il modello di madre e figlio che mettono in scena l’amore scontato che vedevamo nelle pubblicità degli anni Sessanta. L’attraeva l’idea di una madre e di un figlio che si amano mandandosi affanculo. Rispondeva meglio alla sua anarchia istintiva, al suo spirito contrario.
Per alcuni anni, quando io ero un adulto e lei non ancora una vecchia, i nostri litigi furono vere e proprie messe in scena, un vero teatro rituale (…). È stata questo la nostra vita insieme, una commedia tirata troppo per le lunghe, una recita finita male? (pp.190-191)
Scrivendo la sua storia ho reso onore al suo desiderio di recitare una parte anticonformista e scorretta.
Ad Angela non è mai importato minimamente cosa si potesse scrivere di lei. Per lei la cosa che contava era che lo facesse il figlio e che il figlio fosse considerato uno scrittore. Basta.
Che il figlio fosse considerato scrittore scrivendo di lei era sufficiente per inorgoglirla. E se lo avesse fatto dicendone male, questo non la toccava per nulla.
Ho capito che questa era la sua forma d’amore. Una forma sbagliata, ma temo che tutti gli amori siano in qualche modo sbagliati.(…)
Una cosa però è certa: Angela ha messo, nel voler essere personaggio, la stessa determinazione che altri mettono nel voler essere autori. (pp.215-216)
E qui Angela, che – pur odiosissima – ha già conquistato le simpatie di lettrici e lettori, assume la statura di un’eroina bislacca ma generosa: una madre che sceglie di essere personaggio affinché il figlio sia autore; di farsi fattura affinché il figlio si faccia fattore.
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