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Nota di lettura. Emanuele Zinato su “L’uso della vita”/2

 

Per capire il senso profondo del romanzo di Romano Luperini, L’uso della vita. 1968, occorre scomporne l’ordine sintagmatico  e  procedere nell’interpretazione ricavando nel testo alcune costanti  strutturali: il titolo, le due citazioni in esergo di Fortini e di Valery.   Il titolo è una ripresa di una famosa  frase di Fortini, che spicca in esergo, riferita al comunismo e a ciò che del comunismo può essere alluso o prefigurato  dalla poesia che, nella sua  formalizzazione estetica, include tanto lo splendore quanto l’orrore, o (con Saba), sia le rose che l’abisso.

I  due nuclei profondi del testo possono dunque essere considerati i seguenti. Il primo:

“L’uso formale della vita, l’uso formale della vita, si ripeteva Marcello seduto sul vagone del ritorno, adeguando il ritmo della formula a quello del treno e nello stesso tempo cercando di afferrarne sino in fondo il significato” ( p. 123)

Questo breve passaggio è altamente significativo, non solo perché è qui ripreso il titolo del romanzo ma anche perché i possibili sensi enigmatici della frase fortiniana sono tradotti nella figura concreta  di  un moto, in un ritmo, esattamente come nella conclusione  incentrata sul contrasto  dialettico fra  pesantezza e leggerezza e sul diverso moto del passero e della piuma (tratto dalla seconda frase programmaticamente posta in esergo, di Valery). E’ esattamente questa ricerca di un moto corporeo e intellettivo, formalmente equilibrato e unitario, ciò che può tradurre nell’attimo vitale individuale una compiuta realizzazione di perfezione sociale. E’ questa, a ben guardare,  l’utopia concreta  del ‘68, che diventa in pochi mesi cenere e dolore, già alla fine di quell’anno, con l’aborto di Ilaria e il ferimento invalidante di Soriano, le due figure nettamente più gioiose, più leggere e dalle vite più compiutamente formalizzate di tutta la vicenda, sia pure nella loro effimera caducità.  Su scala nazionale, questo destino di violenza, sterilità e morte verrà poi confermato dalla bomba di Piazza Fontana, assente dal testo.

Il secondo nucleo riguarda il dipinto di Kirchner evocato per due volte da Marcello. La ragazza assorta con il gatto accanto è forse la sola opera dell’artista espressionista a non subire i colpi dell’esasperazione  deformante e della vittoria del “brutto”. L’occhio così come il corpo sinuoso, fasciato dal vestito e dalle calze a strisce, cromaticamente simili alle maglie delle compagne degli anni sessanta e settanta, evocano un punto di equilibrio irripetibile, un qui e ora, una sosta puntiforme nel precipitare del tempo. Un attimo fragile e pieno, smentito da Ilaria prima che dai fatti. “Quella ragazza è assorta, guarda fisso davanti a sé, è triste, non mi somiglia”. (p. 103). Del resto, la ragazza del dipinto si chiama come il protagonista “marcella”, implicando un’identificazione e un trascendimento, un’uscita da sé, dalla propria identità sessuale.  L’uso formale della vita è dunque  insieme affermato e negato: fissato in una sola tela dolce ed estatica da un pittore vòlto  al grottesco, alla rappresentazione sistematica della scissione e dello squilibrio.

L’uso della vita dunque è l’evocazione, sotto le spoglie del romanzo storico, di un attimo lirico, fragile  e pieno nel tempo più vuoto e insensato. A questo allude il cortocircuito che il libro popone, fra Fortini e Valery: fra Fortini di Verifica dei poteri che insegnava come bisognasse farsi candidi come volpi e astuti come colombe, e Valery che invita a farsi leggeri come uccelli e non come piume. Dentro e oltre il ‘68, ogni “sogno di una cosa” nell’epoca del trionfo del capitale ha avuto e avrà questi tratti, come ben aveva capito Pasolini che, fin dai tempi di “Officina”, ibridava Gramsci e Rimbaud.

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