Curare la geostoria con l’odeporica contemporanea: Giorgio Bettinelli a scuola
Edumostri
A volte capita di ritrovarsi a sorridere difronte a certe espressioni che, in modo irriverente, hanno il potere di fare emergere un non detto covato da tempo.
È quanto accaduto al sottoscritto, un giorno qualunque in aula docenti, in un anno in cui avevo una cattedra in un Liceo artistico. Tra il più e il meno delle chiacchiere di un’ora di buco, a un certo punto un collega piuttosto infervorato pronunciò con enfasi l’espressione edumostro, a indicare quell’anomalia didattica che lui reputava essere l’insegnamento della Geostoria nel primo biennio dei licei. Il mio collega aggiunse anche l’affermazione perentoria di «disciplina rabberciata» a suggello di una critica assoluta verso una materia che in quell’anno era di recente introduzione: la contrazione della Storia e della Geografia nel biennio dei licei a un’unica voce curricolare, con restrizione delle ore dedicate a queste materie (due ore di Storia e una di Geografia) avvenne infatti con la riforma Gelmini.
Mi divertì molto quell’espressione, edumostro, sicuramente per l’enfasi con cui fu pronunciata, continuammo a parlare per un po’ e infine ringraziai il mio collega. Lo feci non tanto per quello che ci dicemmo, di cui ricordo davvero poco, quanto per quell’epiteto per me al limite del catartico, edumostro, che finalmente mi metteva senza filtri difronte alla difficoltà che stavo provando anche io da qualche mese nell’affrontare l’insegnamento della Geostoria. Cominciai, proprio a partire da quel momento, a considerare con attenzione come esistesse un problema di coerenza per quella disciplina. Mi tranquillizzai sul fatto che quel senso di inefficacia che avevo provato nei primi tempi di insegnamento di questa, non dipendesse solo da me, ma anche da una questione più strutturale. Il problema insomma non era solo il mio e chiunque anche oggi sfogliasse un qualsiasi manuale di Geostoria potrebbe capire con cosa avessi a che fare: già l’indice gli racconterebbe la giustapposizione della storiografia di un mondo stato, accanto alla geografia di un mondo che c’è e viceversa. Se poi dall’indice passasse a immaginare la prassi didattica di un anno intero, ora per ora, a cercare di far coesistere riscaldamento globale e PIL con guerre persiane e sacco di Roma, comprenderebbe senza troppa fatica l’innaturalezza di una disciplina così «rabberciata» come ebbe a sentenziare il mio collega, e quindi tutta la mia a quel punto legittimata difficoltà.
A farmi sentire ancora colpevole rimaneva un dato di fatto sconveniente, da non poter tacere a una minima onestà intellettuale. La soluzione non detta e abusata da me fino a quel punto per gestire la didattica della Geostoria era infatti risultata essere quella di relegare la Geografia a ruolo di sorellastra appannaggio della Storia. Detto in modo ancora più spiccio, molta Storia e un minimo sindacale di Geografia, tanto per essere a posto con una di certo discutibile deontologia professionale, un tanto da potere scrivere qualche riga alla fine dell’anno sul programma svolto. Da questo punto di vista non potevo certo assolvermi e non mi era sufficiente pensare con ragionevole certezza che in fondo la maggioranza dei miei colleghi si comportasse in modo molto simile.
Fu così l’inizio di una riflessione sul come provare a uscire indenne dalla battaglia contro l’edumostro, che mi proponevo non certo di sbaragliare con successo, ma se non altro di addomesticare. In realtà si sarebbe rivelata questa l’ennesima occasione in cui verificai come anche la didattica di una materia per me difficile come la Geostoria, al netto della necessità di fare i conti in modo serio e dovuto con il programma ministeriale, potesse suscitare soluzioni di rinforzo interdisciplinari persuasive e non solo convenzionali per motivare gli alunni.
Detto più ancora semplicemente, anche quella volta corsi a chiedere aiuto alla letteratura.
Odeporica
Dal punto di vista didattico, dopo non poco riflettere, mi venne l’idea di utilizzare lo spazio che ogni anno riservo al laboratorio di lettura di Italiano del biennio, per un testo contemporaneo di letteratura di viaggio ascrivibile al genere dell’odeporica.
Non avrei così rubato spazio a nessuno dei due curricoli, trattandosi quello del laboratorio di lettura di una attività di potenziamento comunque previsto all’interno della disciplina di Italiano, con la libertà di poterlo organizzare come meglio credessi, a partire dalla scelta dei libri proposti. La ratio della scelta fu quella di rinforzare attraverso le ore di Italiano anche la disciplina della Geografia, la gamba debole del mio programma di Geostoria, riservando l’ora settimanale a essa riservata al programma canonico, ma utilizzando il potenziamento di Italiano per cercare di fare leva sull’idea di volere vedere il mondo ancor prima che descriverlo.
In sintesi si trattò di tentare la strada del suscitare l’interesse degli studenti attraverso l’unica esperienza capace di consegnarci il mondo: quello del viaggio. Va detto che nel corso del curricolo scolastico di qualsiasi ordine di scuola, gli studenti si trovano spesso a fare i conti con diversi viaggi, ma si tratta per lo più di viaggi immaginari e mai reali: il viaggio di Ulisse, il viaggio di Dante, ma anche quelli di Ariosto o di Renzo Tramaglino. Nel caso specifico di quella classe, all’inizio del quinquennio, mi sembrava opportuno dovere farli viaggiare, anche se con il mezzo della pagina scritta, con il fine dichiarato di fondare l’importanza di conoscere il mondo attraverso l’esperienza.
Per quanto riguarda il testo utilizzato, il primo istinto fu quello di andare a cercare qualcosa nei due splendidi Meridiani Mondadori sugli scrittori di viaggio curati da Luca Clerici. Alla fine, la peculiarità della scuola mi spinse verso un autore meno accademico ma a mio giudizio più adatto e accattivante per gli studenti che avevo difronte. Il Virgilio scelto fu così Giorgio Bettinelli, musicista, viaggiatore e scrittore misconosciuto ai più ma idolatrato dallo zoccolo duro dei suoi lettori, in genere viaggiatori o aspiranti tali, a fronte di quattro volumi continuamente ristampati da Feltrinelli, nei quali Giorgio Bettinelli descrive i suoi incredibili viaggi a bordo di una Vespa PX bianca, che lo portarono dal 1992 al 2006 a coprire tutto il globo terrestre.
Il libro scelto fu il secondo, Brum Brum. 254.000 chilometri in Vespa, dove Giorgio Bettinelli racconta tre dei suoi cinque viaggi più importanti: il secondo, quello dall’Alaska alla Terra del fuoco (dal 1994 al 1995 lungo un percorso di 36.000 chilometri), il terzo, quello da Melbourne a Città del Capo, (52.000 km percorsi in un anno esatto, fra il settembre 1995 e il settembre 1996) e infine il vero e proprio giro del mondo da lui ribattezzato World Wide Odyssey (dall’ottobre del 1997 al maggio del 2001 con partenza dalla Terra del Fuoco e arrivo in Tasmania, con in mezzo anche un rapimento subito in Congo).
Naturalmente si trattava di un autore che conoscevo bene e che avevo amato molto da lettore. Inoltre Giorgio Bettinelli rispondeva pienamente ai criteri che mi ero dato ogni volta che avessi avuto la libertà di potere scegliere degli autori-compagni per affrontare le mie classi: che fossero affidabili e che mi dessero garanzie di poter contare su di loro in credibilità letteraria e bellezza di parola. Insomma: ero convinto di poter riporre la mia fiducia su Giorgio Bettinelli e sulla sua Vespa PX bianca nella mia piccola battaglia per domare la Geostoria.
Pozo de Dona Victoria
Ma vediamo concretamente come tutto questo funzionò in classe, raccontando una delle esperienze di lavoro.
La penna di Bettinelli è felice e godibile, di formazione umanistica, lo testimoniano il valore di alcuni racconti che intervalla ai resoconti a cui sarebbe interessante dedicare attenzione critica. I momenti più felici del suo narrare emergono a mio parere soprattutto nei luoghi visitati più remoti, dove il fascino del viaggio avventuroso e scavezzacollo di chi gira il mondo su un minuscolo mezzo, alla media di sessanta chilometri orari, diventa più evidente. I ragazzi ogni settimana avevano la consegna di leggere una parte del libro da me assegnata, che io avevo cura di far coincidere per quanto possibile con un argomento di Geografia. Avendo Bettinelli girato praticamente tutto il mondo e strutturando i suoi diari come capitoli a sé stanti non fu difficile volta per volta trovare il brano giusto. Nel caso che andrò a sintetizzare si trattò di affrontare il macrotema geografico del continente centro-americano. L’episodio odeporico di cui avevo bisogno era già pronto, trattandosi di uno di quelli che a suo tempo avevo più apprezzato da lettore.
Durante il viaggio dall’Alaska alla Terra del fuoco, a un certo punto Bettinelli si deve inoltrare in una striscia desertica al confine tra USA e Mexico, da Mexicali a Sonoyta. Si tratta di percorrere duecentosettantasei chilometri nel nulla del deserto, con la minaccia concreta di essere assalito dai bandoleros, banditi che controllano una zona ad alta densità di narcotraffico ed emigrazione clandestina. Al di là della bellezza e della suggestione del racconto (a un certo punto Bettinelli si imbatte in un moncherino di piede umano abbandonato sulla striscia infuocata dell’asfalto) fu molto bello anche grazie all’ausilio della Lim, di Google maps e di Street View, vedere in classe con gli alunni un posto assolutamente anonimo ma per questo unico.
Arrivato a metà percorso, Bettinelli descrive un remotissimo punto di ristoro incontrato durante il tragitto: Pozo de Dona Victoria. Invito il lettore a rintracciare il luogo a sua volta attraverso Google Maps con queste coordinate e poi a visualizzarlo con Street View: 32.230249, -114.032846. Anche dal proprio Pc si potrà contemplare il nulla di un chiosco abbandonato nel deserto con a pochi metri di distanza una piccola cappellina. Un nulla nel deserto, ma di grandissima suggestione per il lettore attraverso le parole di Giorgio Bettinelli:
Arrivo al rancho di Pozo de Dona Victoria, le cui porte di legno sono sprangate da travi e catene; rallento fino quasi a fermarmi, ma non scorgo tracce di vita: i resti arrugginiti del motore di un camion, un poncho sfilacciato appeso a un chiodo, tre segmenti di una canna fumaria tra la sabbia, e nient’altro. Comincio ad avvertire un’ agitazione fastidiosa; le parole dei militari mi martellano in testa, suggestionandomi mio malgrado; un paio di volte mi trovo persino a immaginare qualcuno nascosto dietro gli arbusti o le rocce, che sta aspettando proprio me, e cerco di zittire questo pensiero mettendomi a fischiettare un motivetto qualsiasi, concentrandomi sui numeri del contachilometri che sfilano con una lentezza esasperante, o sul modo di evitare le buche, procedendo a zigzag come sul percorso di una gincana. Mi fermo per accendere una sigaretta, smonto dalla Vespa e fisso a lungo l’orizzonte sabbioso, poi mi guardo dietro le spalle; gli occhi mi si riempiono di fluttuanti macchie nerastre, di piccoli punti impazziti nel chiarore abbacinante del giorno.
Ma perché scegliere un proprio non luogo come viatico privilegiato per suscitare interesse alla conoscenza e quindi alla descrizione del mondo? Rimandando alla bella introduzione di Luca Clerici al Meridiano sugli scrittori di viaggio, forse per lo stesso motivo per cui nel XVIII secolo iniziarono le grandi narrazioni odeporiche: l’irrompere della riflessione estetica e quindi della suggestione del bello che porta prima ad amare e poi a raccontare luoghi sconosciuti. Semplificando: si conosce il mondo perché lo si percepisce bello o comunque interessante. E a mio giudizio un chiosco abbandonato con a pochi metri di distanza una piccola cappellina, in una strada del deserto messicano poteva essere, nel caso della mia classe, il miglior viatico estetico, il miglior contenitore d’immaginario suggestivo per mettere in moto l’interesse di studenti totalmente impermeabile a biomi, climi e biosfere.
L’analisi preliminare del capitolo messicano durò in classe il tempo di due lezioni. Alcuni ragazzi proposero un approfondimento sul tema del narcotraffico in Messico che io rinforzai successivamente attraverso passi scelti dal libro di Roberto Saviano Zero Zero Zero. Anche la componente storico-culturale, che spesso troviamo giustapposta nel manuale di Geostoria a quella più specificamente geografica, fu dunque affrontata con la molla dell’interesse. Da un chiosco abbandonato con a pochi metri di distanza una piccola cappellina, risalimmo alla geofisica del Messico, alle sue città e alle sue aree disabitate, alla sua economia, passando per la sua nazionale di calcio. La verifica scritta finale fu classica ma con un ricordo degno di nota. A una domanda aperta su quale fosse stato l’aspetto di maggiore interesse, uno degli studenti rispose: «un po’ tutti, ma io ci vorrei andare in vacanza in Messico, ma quello abbandonato».
A esperienza conclusa mi trovai a constatare come il laboratorio di lettura su Giorgio Bettinelli fosse stato di notevole rinforzo anche per la Geografia. Eppure si era pur sempre trattato di un laboratorio di lettura e quindi primariamente fatto per il suo scopo principe, quello di stimolare e favorire la passione per la lettura, con esito finale per altro molto positivo anche da questo punto di vista: più di un ragazzo lesse anche altri libri di Bettinelli.
Saggiato il terreno e visto che era solido, decisi di seguire questa direttiva per il resto dell’anno. Il modus operandi fu più o meno omogeneo per tutto il corso: partire da non luoghi, o meglio luoghi dimenticati e non presenti nei manuali, con l’idea di creare suggestione, curiosità, interesse ai fini di una descrizione più strutturata e compiuta. Qualche volta i non luoghi lasciarono il passo ai grandi luoghi della Geografia, come nel caso della lettura sul Taj Mahal o sui marosi della Terra del fuoco, ma la molla fu sempre la stessa, suscitare bellezza per stimolare conoscenza. A quel punto fu piuttosto facile affrontare il classico programma previsto dal libro testo, arrivando a ogni nuova unità didattica con il credito di un minimo di interesse suscitato durante il laboratorio di lettura.
Insomma vedendo il mondo attraverso le piccole ruote della Vespa PX bianca e le parole di Giorgio Bettinelli, in quella classe nacque anche un po’ di voglia, ovviamente non in tutti, di conoscere e di descrivere il mondo: il senso profondo della Geografia se ci pensiamo bene.
Terminai quell’anno con la convinzione e l’esperienza fatta di come le risorse a disposizione di un insegnante possano davvero essere infinite, nella misura in cui si mantenga la perseveranza di andarsele a cercare. E poi, inutile negarlo, nel segreto della fine quell’anno scolastico, dissi per l’ennesima volta il mio personale grazie alla letteratura.
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