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diretto da Romano Luperini

Oliva, la scuola italiana e Rieducational Channel

In un suo articolo del 10 luglio 2015, a ridosso dell’approvazione alla camera della cosiddetta ‘Buona scuola’ di Renzi, Attilio Oliva, presidente della Fondazione TreeLLLe,  sul Sole24Ore prende le difese dell’esecutivo e bolla come ‘conservatrici’ le resistenze dei milioni di cittadini che in questi ultimi mesi hanno manifestato e protestato contro il provvedimento e che, di fatto, sono rimaste inascoltate: Secondo Oliva il modello di scuola che genitori, alunni e docenti hanno difeso è indifendibile e cerca di dimostrarlo per punti. Ognuno dei punti è introdotto da una martellante ripetizione anaforica dell’espressione ‘Lo sapevate?’, che pretende di essere rivelatoria e didascalica, ma che in realtà – alla memoria del teleutente medio – non può che ricordare un famoso sketch di qualche anno fa di Vulvia, alias Corrado Guzzanti, che imitava parodicamente il tono dei voiceover documentaristici («Lo sapevate? Sapevatelo! Su RIEDUCATIONAL CHANNEL!»). Al di là del tono fastidioso e bacchettante, le argomentazioni addotte da Oliva meritano, comunque, punto per punto, una risposta.

1. Oliva ricorda che la nostra scuola è quella che in Europa ha più insegnanti rispetto al numero degli studenti (1:11 contro 1:15 della media europea) e che l’età media dei docenti è di oltre 55 anni (a fronte dei circa 40 della media europea). I due dati vengono citati come parte di un medesimo argomento, ma andrebbero in realtà scorporati. Partiamo dall’ultimo: è probabilmente vero che l’età media dei docenti italiani è alta. Questo, però, non è un demerito dei docenti: la scuola italiana è zeppa di insegnanti anziani che vorrebbero volentieri andare in pensione, ma non possono (perché l’età pensionabile è progressivamente aumentata negli anni) e di giovani che invece vorrebbero insegnare e si trovano impastoiati nei TFA, nel precariato e nelle mille contraddittorie regole di ingaggio create nell’ultimo ventennio dai governi di centro-destra che si sono succeduti alla guida del paese (governo Renzi compreso). Attribuire alla scuola italiana la responsabilità dell’elevata età media è un modo di indicare la luna e guardare il dito o, ancora peggio, di scaricare sulla scuola e sui suoi attori responsabilità che sono invece di tutta una classe politica (e, soprattutto, di un modello economico imperante che ha avvelenato i patti e i meccanismi di alternanza generazionali). Quanto al rapporto docente-discenti, dovremmo invece essere lieti del fatto che in Italia sia più basso che in altri paesi. Il rapporto ideale dovrebbe essere di un docente ogni dieci alunni e non certo di un docente ogni cinquanta! Virare verso le medie degli altri paesi occidentali significa andare sempre di più verso le classi pollaio. Evidentemente, però, ad Oliva non interessa tanto l’efficacia dell’insegnamento o la ‘sostenibilità’ dell’eco-sistema classe, quanto l’economicità del rapporto. È chiaro infatti che quanti più insegnanti ci sono, tanti più stipendi devono essere pagati. È una questione, si direbbe in inglese, di accountability (rendicontazione). Ma possiamo parlare della scuola e della trasmissione dei saperi e delle competenze soltanto in termini di rendicontazione?

2. Oliva lamenta il fatto che il reclutamento degli insegnanti “avviene per lo più grazie a sanatorie, senza alcuna attenzione né alla selezione di giovani laureati motivati né ad una valutazione dei precari sulla base della loro prova sul campo”. Ancora una volta, l’argomento mostra degli elementi di verità, ma viene presentato in maniera tendenziosa. Innanzitutto, bisognerebbe ricordare che la maniera migliore di reclutare un docente dovrebbe essere quella del concorso pubblico (il concorso del 2000 era durissimo, e le prove, soprattutto quelle scritte, sono state davvero selettive). Una volta reclutato, un docente viene assunto in prova e, alla fine dell’anno di prova, il suo operato viene valutato da una commissione di docenti della scuola in cui ha prestato servizio. Questa era e dovrebbe essere ancora la norma. Una norma che – sia detto per inciso – ha garantito e tuttora garantirebbe una professionalità e un’efficienza elevatissime. Il fatto è però che, dal 2000 fino al 2012, anno di indizione del concorso Profumo, non ci sono stati concorsi degni di questo nome. La politica italiana ha di fatto aumentato il numero delle ore di lavoro e diminuito il numero degli insegnanti, ha pasticciato inventandosi, anno dopo anno, percorsi di abilitazione e di reclutamento sempre più nuovi, inusitati e farraginosi, ha creato la selva di un precariato multiforme e, da ultimo, con il ministro Profumo, ha bandito parodie di concorsi in cui i posti di lavoro effettivi erano, alla fine dei conti, infinitamente minori rispetto a quelli messi al bando (per quanto io ricordi, pochissimi hanno raccontato di questo scandalo degli‘eso-dati’ della scuola italiana!). Il punto è che se si impedisce ai docenti anziani di andare in pensione, se si riducono le ore settimanali di lezione, se si tagliano posti di lavoro, è chiaro che salta anche il sistema del ricambio generazionale, e che non può esserci più alcuna selezione a mezzo di concorso. Semplicemente perché non ci sono posti da bandire. E se non c’è selezione, ci sono solo i passaggi di ruolo che tappano le falle dei pochissimi che finalmente giungono all’agognato ritiro. Chiamare questi passaggi di ruolo ‘sanatorie’ è, tecnicamente, una metafora, ma in pratica è anche – è doveroso dirlo – una vera gaglioffaggine. Come Oliva sa bene, la sanatoria è un istituto del diritto amministrativo italiano che rende legale un atto illegittimo in quanto privo dei requisiti essenziali previsti dall’ordinamento. Si sanano le case abusive, e non i posti di lavoro legittimi. Chiamare sanatorie i passaggi di ruolo significa implicitamente considerare ‘abusivi’ gli insegnanti che nella scuola lavorano a pieno titolo e con merito (un merito che non si dovrebbe misurare con i criteri economicistici e aritmetici o con le triple A di Standards & Poor, ma che forse ha a che fare con quella ‘qualità’, impalpabile sfuggente per sua natura, di cui parlava Robert Pirsig in Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta).

3. Oliva ricorda che «la nostra è la scuola d’Europa con più abbandoni (circa il 20%) e dove le assenze degli studenti sono oltre il doppio rispetto alla media». Il problema messo in rilievo è complesso, la risposta che viene data, invece, mi sembra semplicistica e, ancora una volta, denigratoria e lesiva della dignità degli insegnanti: «sarà forse perché le attività» che si svolgono a scuola «non riescono a coinvolgerli e interessarli?». È chiaro che ogni volta che un alunno abbandona gli studi (o semplicemente chiede un nullaosta per trasferirsi in un’altra classe o in un altro istituto), l’insegnante dovrebbe interrogarsi sul suo operato. Ma siamo sicuri che puntare il dito soltanto sulle responsabilità della scuola aiuti a risolvere il problema? Gli abbandoni, spesso, non hanno a che fare soltanto con l’insuccesso educativo o con l’inefficacia dei metodi di insegnamento. Lo sanno bene, del resto, tutti quegli insegnanti che operano in zone disagiate e degradate del nostro Paese (lo Zen, il Cep e lo Sperone a Palermo, Scampia in Campania). In molti casi, gli abbandoni non sono dovuti all’inefficacia degli interventi didattici, ma alla desolazione sociale, alla disintegrazione e all’assenza dello Stato in territori che sono lasciati in balia di quella stessa criminalità organizzata che spesso – nei momenti chiave della vita politica del nostro paese – ha operato come serbatoio e bacino di voti. Non mi è chiaro quali siano i piani del governo Renzi per fronteggiare il disastro e il degrado sociale del nostro territorio. Mi è un po’ più chiaro, invece, come abbia operato per il caso De Luca in Campania. Qualcuno direbbe che questi discorsi non hanno nulla a che fare con la scuola. Ma ne siamo proprio sicuri?

4. Oliva lamenta il fatto che «il 95% degli studenti frequenta scuole statali mentre quelle paritarie chiudono l’una dopo l’altra, perché le famiglie non riescono a sostenerne i costi». E aggiunge «si è manifestato contro una immaginaria “privatizzazione”, contro un attacco alla scuola pubblica, mentre ci si avvia di fatto al monopolio statale, con tutti i difetti di ogni monopolio». Ancora una volta mi pare che vengano confusi i piani e che, sulla base di un uso un po’ peloso delle metafore aziendalistiche, si proietti sulla scuola un modello violentemente  e inopportunamente economicistico. Come Oliva sa bene, il termine monopolio indica (cito da Wikipedia) «una forma di mercato, dove un unico venditore offre un prodotto o un servizio per il quale non esistono sostituti stretti (monopolio naturale) oppure opera in ambito protetto (monopolio legale, protetto da barriere giuridiche) .Consiste insomma nell’accentramento dell’offerta o della  domanda del mercato di un dato bene o servizio nelle mani di un solo venditore o di un solo compratore». Il fatto è però che la scuola non è (o meglio, non è ancora) ‘un mercato’. E se in una situazione di mercato la concorrenza fra aziende che offrono prodotti può rivelarsi positiva per i consumatori, nel mondo della scuola la competizione fra le agenzie educative porterà solo al disastro e a un aumento dello squilibrio sociale. Nel campo dell’istruzione, non vedo alcun rischio in quello che Oliva chiama ‘il monopolio di stato’ e che io invece chiamerei semplicemente ‘scuola della costituzione’. Bisognerebbe invece ricordare che chi difende le scuole private difende, nella maggior parte dei casi, dei diplomifici in cui torme di insegnanti sono costrette spesso a lavorare quasi gratis (o addirittura pagando da sé i propri contributi) per non rimanere indietro in quella vergognosa corsa a punti che è diventato il precariato. Ci sarebbero, su questo punto, moltissimi ragionamenti da fare, ma per amore di brevità, mi limito a rimandare Oliva e il mio lettore ad un ripasso della Costituzione italiana.

5. Con il punto cinque arriviamo addirittura alla paranoia: «lo sapevate che una famiglia interessata a trovare una buona scuola non dispone ad oggi di nessuna informazione ufficiale e deve affidarsi al “passaparola”? E che questo avviene perché la scuola statale è in realtà un luogo “privatissimo”». La scuola pubblica italiana, addirittura, sarebbe una sorta di Spectre, in cui non circolano informazioni e in cui c’è quasi bisogno di agenti del controspionaggio per sapere qualcosa sui piani dell’offerta formativa e sulle programmazioni didattiche (che sono invece pubblici!). Il fatto è però che i genitori e gli alunni, più che ai piani delle offerte formative e alle programmazioni didattiche, guardano anche e soprattutto alle competenze relazionali degli insegnanti, alla loro ‘umanità’, ovvero a tutta una serie di atteggiamenti, modi di porsi e di essere che nessun esito di prova INVALSI, nessun piano dell’offerta formativa e nessuna programmazione disciplinare ufficiale riuscirebbe a tradurre in numeri o in lettere. E le informazioni sul ‘versante umano’ della docenza le cercano, in privato e con il passaparola, sia i genitori che mandano gli alunni nelle scuole pubbliche sia quelli che li mandano nelle scuole private. Oliva, sempre al punto 5, lamenta poi che «della qualità degli insegnanti non si riesce a sapere quasi nulla» (e forse se lo domanda perché non ha mai letto un libro come Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, che spiega benissimo perché la ‘qualità’ sia qualcosa di così intrinsecamente sfuggente e relativo); quindi, in un capolavoro di disinformazione, arriva a sottolineare che gli insegnanti «ruotano “a domanda”fra una scuola e l’altra per circa il 20%», chiedendosi dove sia «l’attenzione per l’auspicabile “continuità didattica”». Data l’estrema sinteticità del periodare, risulta un po’ difficile divinare quale sia, per Oliva, il problema. Mi sembra comunque di capire che ciò che lo preoccupa è che gli insegnanti possano addirittura presentare domande di trasferimento da un istituto all’altro! Se così fosse – ma tutto ciò contrasterebbe con l’idea stessa di una scuola-azienda, essendo la mobilità uno degli ingredienti della competitività – Oliva auspica un ‘insegnante-servo-della-gleba’, legato a vita al suo istituto. Sia detto per inciso, se così fosse, anche molti insegnanti forse ci metterebbero la firma! Quello che non si dice è però che il numero spaventoso di esuberi determinati dai tagli del Ministro Gelmini ha portato moltissimi insegnanti (anche di ruolo) a girovagare di anno in anno da una scuola all’altra, alla faccia della continuità! Quello che poi non si racconta – ma qui in fondo la continuità rischia di diventare il minore dei mali – è lo scenario che si profila in una scuola dominata da presidi-padroni, in cui gli spazi di democrazia saranno sempre più ristretti, se non inesistenti.

6. Non poteva non mancare l’attacco di rito alle materie umanistiche: «lo sapevate che i nostri curricoli hanno un carattere enciclopedico (facile all’oblio) e una forte prevalenza delle materie cosiddette umanistiche rispetto a quelle scientifiche e tecniche? Che sono così rigidi da non permettere alcuna opzionalità per gli studenti? Che perfino il latino, che è opzionale in tutti i paesi del mondo, in Italia (e in Grecia) è invece materia obbligatoria per circa il 40% degli studenti delle secondarie?». Sul carattere enciclopedico dei nostri curricoli si potrebbe in fondo essere d’accordo. E in fondo potrebbe forse essere vitale e necessario sollevare un dibattito (serio, e non ‘all’amatriciana aziendalistica’) sul paradigma storicistico (e scarsamente cooperativo e inter-attivo) cui sono uniformati i nostri insegnamenti. Per il resto, mi sembra normale che il latino sia una materia opzionale in paesi come il Camerun, la Cina, il Qatar. Ma non riesco davvero a capire perché debba diventare opzionale proprio nel nostro paese, in cui la lingua latina fa parte del nostro heritage culturale. A meno che non si pensi che il latino e il greco (e che so io? il Partenone, il Colosseo, Pompei) siano i veri responsabili del debito pubblico, come sembra voler suggerire maliziosamente l’accostamento fra l’Italia e la Grecia che Oliva fa. Trovo poi discutibile la stessa distinzione fra materie umanistiche e materie scientifiche, che è figlia del crocianesimo gentiliano e che è stata foriera di disastri (non solo scolastici). Sul punto sei, comunque, ci sarebbe ovviamente molto da dire. Per il momento mi preme di rimandare soltanto alla lettura di Not for profit di Martha Nussbaum, che sottolinea la centralità degli studi umanistici per la salvaguardia della cultura democratica del mondo occidentale. Al di là di quello che dice la Nussbaum, comunque, ho il sospetto che nessuna scienza è davvero utile se non è anche‘umanistica’, e che, per converso, un umanesimo concepito soltanto come formalismo ed estetica fa forse tanti danni quanti ne può fare l’economicismo. Ma questi punti – lo ammetto – potrebbero essere sviluppati meglio. E forse un articolo come quello di Oliva non è il migliore punto di innesco per intraprendere un simile dibattito.

7. Al punto settimo, Oliva lamenta che la didattica della scuola italiana è «prevalentemente“trasmissiva” e che buona parte del tempo scuola è impegnato da lezioni ed interrogazioni, senza un coinvolgimento più motivante e interattivo degli studenti?». Su questo, confesso di concordare. Non concordo però sulla soluzione proposta da Oliva, che va nella direzione dei test. Scegliere la via dei test significa abolire completamente, dalla scuola pubblica, le competenze espressive, la capacità di prendere la parola e di esprimere il proprio pensiero, il proprio punto di vista ed eventualmente il proprio dissenso. Significa, in altri termini, smettere di essere cittadini attivi. A tale proposito, mi permetto di rimandare ad un esperimento didattico (per l’insegnamento del latino!) da me proposto ad una mia classe quinta, che prevedeva, al contrario, l’aumento delle attività di scrittura e delle competenze analitiche ed espressive, su un versante potentemente inter-attivo e cooperativo. 

8. Il punto 8 non ammette sconti: «lo sapevate che nelle varie indagini Pisa dell’Ocse, che riguardano circa sessanta paesi, le competenze degli studenti quindicenni italiani sono sempre risultate sensibilmente al di sotto della media?». Non c’era bisogno che Oliva ce lo ricordasse, lo sapevamo. Mi permetto però di controbattere con una predizione e con una scommessa per il futuro:«scommettiamo che, una volta che la ‘Buona scuola’ entrerà a regime i risultati della scuola italiana peggioreranno ulteriormente?»

9. Con il punto 9, infine, l’articolo si chiude con una riflessione di natura marcatamente economica: «lo sapevate che tutte queste anomalie e ritardi non dipendono dalla lamentata carenza di risorse finanziarie, visto che la percentuale del Pil destinata alla nostra scuola è del 3%, cioè in media europea, e soprattutto che il nostro “ costo per studente” è addirittura più alto? Il problema sta tutto nella loro cattiva allocazione: troppe risorse al personale addetto (con stipendi più bassi, ma per un numero di addetti troppo alto) e troppo poche per la qualità del servizio (edilizia, premialità agli insegnanti e presidi meritevoli, assenza di un sistema di valutazione esterno delle scuole, pochissima ricerca)». Ometto il mio commento sulla logica premiale e sul sistema di valutazione proposto dalla ‘Buona scuola’. In fondo già molto, in merito, è stato scritto. Quanto al resto, non saprei da dove Oliva abbia tratto i suoi dati (anche perché non cita la sua fonte). Le cifre più aggiornate di cui dispongo io sono quelle pubblicate il 26 febbraio del 2015 su OrizzonteScuola. Ovviamente, sarei felice di essere smentito e di sapere che nel frattempo qualcosa è cambiato. Ma temo che non sarà così, anche perché mi consta che la spesa pubblica per la scuola diminuirà ancora, in Italia, nei prossimi quindici anni. Lo dice un articolo del Corriere della Sera del 10 aprile 2015:  «Lo sapevate?», direbbe il comico, «SAPEVATELO! SU RIEDUCATIONAL CHANNEL!».

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