Lo scandalo del principe
In occasione della premiazione delle Olimpiadi di italiano si è tenuta a Firenze l’11 e il 12 aprile una celebrazione di Galilei, affidata alla professoressa Alteri Biagi, e del centenario del Principe di Machiavelli. Ecco qui il mio intervento, dedicato al Principe. Aggiungo solo che sarebbe bello e giusto se le Olimpiadi di italiano non riguardassero solo la lingua, come accade ora, ma anche la letteratura italiana. C’è oggi una tendenza a ridurre lo spazio della letteratura a vantaggio dello studio della lingua e della grammatica, che, fra l’altro, si prestano a una valutazione più tecnica, più oggettiva e neutrale. Ma ne va di mezzo proprio la complessità di cui molto si è parlato nella tavola rotonda che ha chiuso la serata e che peggio si presta, almeno nel caso della interpretazione letteraria, a misurazioni quantitative. Ma questo è argomento di cui molto si parlerà su questo blog nei prossimi giorni.
I tre scandali del Principe
Lo scandalo del Principe è anzitutto di natura morale, in quanto Machiavelli vi sostiene la tesi chi la morale del principe deve dipendere solo dal benessere e dalla salvaguardia dello stato che deve governare e non dai principi di una etica personale, religiosa o laica che sia. La morale del principe viene fatta coincidere con la sorte dello stato, e perciò è sempre verificabile in termini pratici dal successo o dal fallimento della sua azione politica. Questa impostazione rappresenta un radicale capovolgimento rispetto alle teorie da secoli dominanti nella trattatistica politica. In Machiavelli, beninteso, non c’è cinismo né indifferenza rispetto ai valori. Il male esiste, e viene chiamato per nome. L’etica nuova consiste piuttosto nel chiarire apertamente, senza ipocrisie, i prezzi attraverso i quali è possibile modificare la realtà ed edificare uno stato nuovo.
Ma Il Principe contiene un secondo scandalo, questa volta di natura filosofica. Il punto di partenza della riflessione teorica di Machiavelli non è costituito da motivazioni ideali, ma dall’analisi concreta delle situazioni concrete, cioè, come dice nel Principe (cap. XV), dalla «verità effettuale della cosa». Ciò comporta una potente demistificazione sia del comportamento umano, che invece si finge promosso da ideali disinteressati, sia della precedente trattatistica che, invece di procedere dalla «verità effettuale della cosa», muoveva dalla «immaginazione di essa».
Un terzo scandalo è più precisamente di natura letteraria. Apparentemente Machiavelli segue tutte le convenzioni del genere letterario della trattatistica politica. Ma anche in questo caso le segue solo per rovesciarle. Come tutti gli altri trattatisti, Machiavelli illustra le qualità che deve avere il principe e muove dalla descrizione dei diversi tipi di principato. Ma da un lato le qualità del principe non sono quelle morali indicate dalla trattatistica tradizionale, dall’altro, e soprattutto, viene capovolto l’intero modo dell’argomentazione, la quale, infatti, non deriva più da un precedente sistema organico di un pensiero largamente condiviso. La fonte dell’autorità non è più quella della fede religiosa, come nei trattati di Dante o di san Tommaso, e neppure quella delle virtù laiche degli specula principis quattrocenteschi di Patrizi, Platina o Pontano, bensì è assunta direttamente dalla scrittura del trattatista. Il lettore deve prestarle fede sulla base esclusivamente della forza di convincimento e di persuasione che essa esprime. L’autorità ora va conquistata sul campo: non dipende più da verità consolidate del passato, ma da una verità nuova e individuale di cui l’autore si assume tutta la responsabilità. La legittimità dell’opera insomma è fondata solo dalla forza della scrittura (di qui il rilievo decisivo dello stile), dalla esperienza politica dei chi scrive (dalla sua «esperienza delle cose moderne») e dalla sua personale conoscenza della Bibbia e soprattutto dei classici greci e latini, i quali forniscono «lezioni» delle cose «antique», e cioè una serie di esempi del passato tuttora praticabili sulla base del principio umanistico della imitazione. Se si aggiunge che la energia suasoria della scrittura è volta non a sostenere disinteressatamente una tesi, ma a suscitare l’azione, e dunque ha un fine immediatamente pragmatico, si può meglio capire la novità dell’operazione machiavelliana. Dal tronco della trattatistica, sta nascendo un nuovo genere letterario, la saggistica moderna.
Il realismo
In occasione di questo quinto centenario del Principe, mi soffermerò soprattutto sulla correlazione fra lo scandalo filosofico e quello letterario. La conoscenza della «verità effettuale della cosa» da parte dell’autore è fondata sulla esperienza diretta verificata nella pratica concreta (con riferimento alle vicende della carriera politica del segretario fiorentino) o sulla lettura dei testi del passato. Questo rilievo concesso alla esperienza, questo rovesciamento di prospettive implicito nell’intento di muovere dalla «verità effettuale della cosa» e non dalla «immaginazione di essa», sono indubbiamente alla base del realismo filosofico di Machiavelli.
Si tratta di un realismo scientifico che anticipa il metodo empirico e induttivo teorizzato e applicato un secolo dopo da Galileo? De Sanctis, com’è noto, non aveva dubbi: parlava di «fondamento scientifico» garantito dall’«esperienza» e dalla «osservazione», e annunciava: «Muore la scolastica, e nasce la scienza». Su questo punto però il dibattito è aperto: ha ormai un valore storico lo scontro fra le posizioni di chi (un nome solo fra tutti: Chabod) afferma che la tendenza machiavelliana a giungere a regole generali deriverebbe dal metodo induttivo della osservazione concreta e scientifica dei fenomeni particolari e quelle di chi (per esempio, Martelli) sostiene invece che Machiavelli muoverebbe da leggi immutabili di cui troverebbe successivamente conferma nella realtà secondo un metodo deduttivo influenzato dal platonismo ficiniano allora molto diffuso a Firenze.
A me sembra almeno unilaterale considerare Machiavelli un teorico della politica come scienza, come arte separata e autonoma, così come Croce e Max Weber anni fa lo hanno immaginato. Machiavelli non è uno scienziato puro, un descrittore neutrale dei meccanismi della politica, volto a elaborare una concezione aideologica, tecnica, funzionale dell’arte di governare. Come ebbe a dire Gramsci, Machiavelli è piuttosto uomo di parte, e come tale teorizza e si batte. L’aspetto modernamente scientifico del suo pensiero è quello che lo ha fatto considerare, come Marx e Freud, un «maestro del sospetto»: sta nelle efficacia dissacrante del costante riferimento alla realtà materiale, alla varietà e mutabilità dei casi offerti dalla storia e dalla fortuna e alla verità di una antropologia studiata senza infingimenti ideali sulla base, a me pare, di una visione del mondo ispirata all’averroismo e all’aristotelismo naturalistico ed eterodosso. Probabilmente si fa sentire anche la lezione realistica di Boccaccio soprattutto nella possibilità di stabilire un collegamento razionale fra l’analisi della realtà in atto e l’effetto che può scaturirne e dunque nell’arte di prevenire e determinare il futuro. Ma, accanto all’indubbio realismo, sono presenti nel Principe una serie di convinzioni, una ideologia, una visione del mondo, un intento pratico, una passione politica.
La tensione utopica
Realismo e utopia si fronteggiano e si uniscono in Machiavelli come in un altro grande pensatore di qualche secolo dopo, Karl Marx. Spesso anzi i grandi realisti sono anche grandi utopisti. So bene che alcuni studiosi di Machiavelli (Sasso, per esempio) non vogliono sentire parlare di utopia per Machiavelli perché la collegano a una visione illusoria della realtà che egli in effetti non ebbe. Ma qui si parla di utopia in senso politico, come tensione prospettica al futuro e più precisamente alla trasformazione del nostro paese in uno stato unitario moderno sull’esempio delle altre grandi nazioni europee.
Questa aspirazione utopica era così forte da creare una serie di tensioni e contraddizioni all’interno stesso dell’opera. Per esempio: se la tragedia della crisi italiana è così grave, se la difficoltà della situazione dovuta alla inettitudine dei principi, alla mancanza di armi proprie, alla forza delle nazioni straniere è come Machiavelli la rappresenta senza farsi alcuna illusione, come può questa stessa situazione essere invece presentata nell’ultimo capitolo come la più adatta all’azione di un principe audace e innovatore? Risulta problematico lo stesso passaggio da una dimensione umana pessimisticamente rappresentata in chiave naturalistica, e dunque sempre eguale a se stessa e astorica, a un impegno invece storico capace di mutare la realtà ispirandosi agli antichi valori della repubblica romana e delle italiche virtù. Si può aggiungere che alcuni studiosi (Gilbert in testa) hanno osservato che Machiavelli utilizza arbitrariamente i dati dell’esperienza pur di sostenere in modo più convincente la propria tesi: così l’immagine del Valentino come modello quasi perfetto sarebbe diversa nel Principe da quella che dello stesso personaggio egli ci fornisce in altri suoi scritti elaborati quando l’esperienza dei fatti era più recente, più diretta e attendibile. E tuttavia queste tensioni e contraddizioni riguardano piuttosto il supposto scienziato della politica che il saggista volto a persuadere facendo leva anche sulle sfera emotiva del lettore.
La forza dello stile
Per questo è soprattutto alla forza dello stile che si affida il messaggio del Principe. Anche lo stile si oppone alle convenzioni, già nelle intenzioni dell’autore che sin dalle prime righe chiarisce che la sua prosa rifuggirà dalle «causole ample», dalle «parole ampullose e magnifiche», che allora erano di uso consueto, così come da qualsiasi «lenocinio o ornamento estrinseco» (e qui non manca, probabilmente, un riferimento polemico alle teorie e alla pratica linguistica di Bembo). Piuttosto Machiavelli si affida a tre tipi di energia espressiva: quella popolaresca del parlato fiorentino che tanto più spicca in quanto alternata a parole colte e ai termini tecnici del linguaggio diplomatico, spesso latineggianti, quella della sintassi dell’argomentazione stringente e quella di metafore, similitudini e immagini desunte dal mondo naturale e biologico (animali e piante), quasi che, è stato detto, Machiavelli voglia dissolvere l’idealizzazione implicita nel concetto di humanitas per tornare a dare spazio alle ragioni materiali e alla bestia che è in noi. L’unione di alto e di basso, di linguaggio elevato e di linguaggio popolaresco, non è solo una risorsa della forma espressiva, ma è anche e prima di tutto una questione di visione del mondo. Se nel capitolo finale Machiavelli può premere entrambi i pedali, aulico e popolaresco, parlando da un lato di «pietà», di «lacrime», di «ostinata fede» e affermando dall’altro che «A ognuno puzza questo barbaro dominio», è perché nella visione del mondo machiavelliana il mondo della ragione e della intelligenza più raffinata è strettamente collegato al mondo dei sensi e della materialità corporale. Analogamente il ricorso ai procedimenti razionali della argomentazione e della logica asimmetrica può in lui conciliarsi con l’appello alle emozioni e con i procedimenti della logica che Matte Blanco definirebbe invece simmetrica.
Lo stile è rapido, essenziale. E’ stato scritto giustamente che la scrittura del Principe contiene «il massimo potere informativo, argomentativo, evocativo nella minima superficie verbale» (Inglese). La brevitas, il metodo della concentrazione e della riduzione, conferisce un fortissimo rilievo a una argomentazione che punta prevalentemente sulla persuasione razionale, anche se non disdegna il ricorso ai sentimenti e alle passioni. Il procedimento dilemmatico e per antitesi violente, attraverso avversative e disgiuntive, ha un evidente effetto pratico perché costringe il lettore a scegliere, e quindi a uscire dalla neutralità, a schierarsi, a prendere parte. E’ infatti soprattutto nello stile che si avverte l’istanza etica che percorre Il Principe. Lo stile è attraversato da una tensione e da una torsione drammatica. Si sente che l’opera è scritta nell’incombere di una tragedia, quella della crisi italiana, che esigerebbe risposte rapide e risolute; e che l’autore vuole scuotere il lettore, sottoporlo a uno shock argomentativo ed emotivo che lo costringa ad assumersi una responsabilità, a uscire dall’inerzia. Nella stessa tensione della lingua e dello stile vive insomma quella dimensione utopica e morale che può essere colta anche sul piano tematico e contenutististico.
Attualità di un saggio moderno
Lo stile del Principe è quello di un genere nuovo, il saggio moderno. Machiavelli è il primo dei moderni saggisti. Con Guicciardini apre una strada che sarà presto ripresa in Francia negli Essais di Montaigne e poi dagli illuministi. Il trattato, divenendo saggio, trova la propria legittimazione solo in se stesso, e cioè nella propria scrittura, e non in un ordine preesistente di verità. E tende irresistibilmente alla militanza. Chi scrive milita: si schiera all’interno di un conflitto o di una contraddizione, e si compromette in prima persona.
A lungo la fortuna italiana di Machiavelli si è legata al contenuto immediato di tale militanza, vale a dire a un sogno identitario e nazionale. Machiavelli ha trovato un posto privilegiato all’interno di una narrazione mitica, quella di una storia della letteratura vista come resoconto dell’identità nazionale. Non per nulla il «sia gloria al Machiavelli» della storia letteraria desanctisiana coincide con le campane a festa per la breccia di porta Pia e per la raggiunta unità della nazione italiana. L’ultimo capitolo del Principe con l’appello a liberare l’Italia dai barbari, come la Canzone all’Italia di Petrarca e infiniti altri testi di Dante, di Alfieri, di Foscolo, di Manzoni, del giovane Leopardi, di Carducci, di d’Annunzio sono stati letti in questa chiave. Oggi, nell’epoca della globalizzazione, tale narrazione fondata sul nesso fra identità nazionale, letteratura e storia patria ha perduto la propria ragione d’essere. E tuttavia Machiavelli può mantenere una sua attualità forse non tanto per alcuni suoi contenuti immediatamente politici, quanto per l’energia con cui si batte contro la rassegnazione e l’inerzia e per i procedimenti di pensiero da lui impiegati che possono assumere anch’essi una valenza politica. Oggi si sta affermando l’esigenza di un’etica non più nazionale, ma planetaria, e di una nuova narrazione a essa ispirata. Lo stesso giovane De Sanctis prevedeva che sarebbe venuto il momento in cui al criterio del valore nazionale sarebbe seguito un criterio di valore identificato invece nell’umanità in quanto tale, senza più frontiere. Questo momento è arrivato, e in esso Machiavelli può trovare posto per il suo appello alla militanza e per la sua fiducia in due universali che riguardano il genere umano nel suo complesso e nella sua possibile unità: l’universale della logica asimmetrica e di quella simmetrica, l’universale mentale e logico-razionale, che unisce tutti gli uomini nella capacità di ragionamento e di argomentazione, e l’universale corporale e sensorio che li unisce nella capacità di provare sensazioni ed emozioni. Machiavelli si rivolge a un universale umano, e intanto lo promuove. Il mito del Centauro potrebbe aspirare a una sua nuova attualità per una umanità per certi versi oggi troppo civilizzata e dimentica della propria natura animale e per altri versi troppo ferina e dimentica dei principi di tolleranza su cui si fonda la civiltà. Di fronte alla gravità della crisi Machiavelli afferma la necessità di un’assunzione di responsabilità e di un impegno pratico volto a modificare la realtà e insieme suggerisce un nuovo rapporto, tutto da costruire, fra mente e corpo. Propone una conoscenza per la prassi e un tipo di umanità.
Oggi, dinanzi alla crisi che stiamo attraversando in questi anni (crisi non solo economica, ma di civiltà), tanto diversa da quella sperimentata da Machiavelli ma non meno grave, la sua lezione sembra acquistare una prospettiva che il De Sanctis della Storia della letteratura italiana non poteva prevedere ma che forse risulta, per il nostro futuro, non meno decisiva.
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