Un’opinione sull’Atlante della letteratura italiana
Dante e Sherlock Holmes
Il 3 dicembre 1315 la popolazione di Padova ebbe il privilegio di osservare uno spettacolo unico. Albertino Mussato, il primo poeta “laureato” dell’Europa occidentale dall’antichità, venne portato in trionfo per le strade della città a seguito di una lettura pubblica dell’Ecerinis. Più o meno negli stessi anni un poeta esule e che non fu mai incoronato, nella speranza di condividere l’onore supremo, invocava Apollo e tutte le Muse: «O buono Appollo, a l’ultimo lavoro | fammi del tuo valor sì fatto vaso, | come dimandi a dar l’amato alloro» (Par. I, 13-15). È probabile che nell’incipit del Paradiso Dante avesse in mente proprio Mussato e la sua cerimonia, guardando con speranza al suo status di poeta laureato e celebrato. Eppure in una gerarchia attuale di valori, il paragone tra i due autori è talmente sbilanciato da risultare imbarazzante.
La storiografia letteraria — in continuo ribasso nella borsa azionaria degli studi letterari — ha da sempre perseguito due obiettivi principali: abituare alla distanza ed educare alla selezione. Disciplina che consente di mantenere attiva la memoria storica di una comunità, la storiografia ha dovuto sempre mettersi in discussione, accettando l’impossibilità di riunire «lettura dei testi e considerazione dei contesti, contenuto di verità delle opere e loro totale assorbimento nei condizionamenti storici» (R. Luperini, Breviario di critica, Guida, Napoli, 2002, p. 98).
Esattamente come Sherlock Holmes, che conservava nella propria memoria soltanto dati ed esperienze che potessero risultargli utili nelle investigazioni, chi scrive un saggio di storiografia letteraria è chiamato a “dimenticare” qualcosa, portando alla luce qualcos’altro. La storiografia italiana, nell’eleggere Dante a maggiore poeta del medioevo, ha irrimediabilmente “dimenticato” Mussato: un processo lungo, complesso, ma ancora oggi reversibile.
L’Atlante
L’Atlante della letteratura italiana, inaugurato da un primo volume pubblicato nel 2010 e curato da Sergio Luzzatto e Daniele Pedullà, obbliga ad una valutazione seria e problematica di cosa resta della storiografia letteraria all’inizio degli anni Zero. Presentato con una vasta campagna pubblicitaria, l’Atlante si apre vantando obiettivi importanti e assoluta originalità. L’opera, monumentale ed innegabilmente affascinante, ha uno statuto contraddittorio: può assumere il valore di un prezioso diamante incastonato in una storia ormai fatta di stanche ripetizioni, oppure, all’opposto, di un ordigno pericoloso e da maneggiare con cura.
Quasi come speleologi in un territorio sconosciuto, Luzzatto e Pedullà aprono l’Atlante rievocando con entusiasmo le circostanze della nascita del progetto. Riflettendo sulla crisi dello storicismo hegeliano, gli studiosi notano giustamente che alla decadenza della nozione di progresso e di Storia non è seguita una medesima crisi delle storie letterarie nel nostro paese. Le antologie italiane non hanno mai messo in discussione un paradigma evidentemente superato e continuano a presentare la storia della letteratura «come se nulla fosse mutato» (Aa. Vv., Atlante della letteratura italiana. Dalle origini al Rinascimento, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, Einaudi, Torino, 2010, p. XV). Alla linea forte della storiografia italiana, che ha trovato in De Sanctis/Croce/Gramsci i suoi numi tutelari, Luzzatto e Pedullà oppongono un presente benjaminiano in cui la storia umana è «ridotta a ininterrotto susseguirsi di rovine, singoli frammenti che non raggiungeranno mai, nella totalità hegeliana, alcuna forma di sintesi» (p. XVI). Troppo acconti per commettere passi falsi, i curatori riconoscono l’imprescindibilità di un’impostazione storica per studiare la letteratura e rifuggono programmaticamente dagli errori che semiotica e strutturalismo avevano già perpetrato negli anni Settanta. L’Atlante ritrova nella disciplina della geografia una nuova linfa, che negli ultimi anni «sta dimostrando una imprevedibile forza di attrazione» (ibidem). A questa disciplina andrebbe aggiunta almeno la statistica su cui si basano i numerosi “saggi grafici”, alternati ai più classici saggi narrativi, che compongono i primi due volumi. Nell’originalità di questa nuova storiografia a base geografica, il nome di Dionisotti è naturalmente ricordato con il rispetto che merita un ispiratore: la sua Geografia e storia della letteratura italiana è il primo vagheggiamento di un atlante della letteratura che i curatori hanno ora reso concreto.
Un’opera senza precedenti?
La multidisciplinarità e la centralità riservata alla geografia sono i punti più originali dell’operazione di Luzzatto e Pedullà e potranno quindi rappresentare un ideale punto di partenza anche per le nostre considerazioni. Sarà utile ricordare che già nel 2002 un altro ambizioso progetto editoriale einaudiano aveva in parte adottato prospettive simili. Il terzo volume del Romanzo, a cura di Franco Moretti, si intitolava significativamente Storia e geografia e già si strutturava attorno a luoghi considerati significativi per seguire l’evoluzione del genere. Il progetto di Moretti, per quanto interessante, non aveva comunque la sistematicità dell’Atlante, ma si inseriva in una linea oggi molto in voga nelle antologie di letterature comparate nordamericane. Più significativo potrebbe essere il parallelo con The Longman Anthology of World Literature, elaborata da David Damrosch a partire dal 2002 e che si fonda sulla medesima struttura storico-geografica. È ovvio che proporre una mappatura di tutti i testi che hanno fondato lo studio della letteratura su prospettive simili a quelle di Luzzatto e Pedullà diventa rapidamente un esercizio sterile e di scarsa utilità. Può essere importante, invece, mettere qui in discussione l’insistita originalità dell’operazione dell’Atlante, visto che l’Italia — patria d’elezione dello storicismo hegeliano — ha già assistito ad un impiego della geografia per lo studio di altre discipline umanistiche. È indubbio che la divisione del lavoro intellettuale costituisca uno dei più grossi limiti con cui la critica contemporanea si trova a convivere, eppure sembra piuttosto singolare che un Atlante così aperto alla multidisciplinarità e strutturato su centri di influenza (Padova, Avignone, Firenze, Venezia, ecc.) non spenda alcun riferimento alle antologie di storia dell’arte che da secoli occupano i polverosi scaffali delle nostre biblioteche. Basta aprire anche rapidamente La pittura in Italia per riscontrare una identica organizzazione. Dalla disputa Berenson/Longhi si può risalire fino alle intuizioni di Vasari: leggere e studiare la storia dell’arte prediligendo un’impostazione topografica è stata una pratica assai comune. Se si consulta il saggio che apre il volume Il Duecento e il Trecento della Pittura in Italia (1986), scritto da Carlo Pirovano, si troveranno argomentazioni contro il vetusto indirizzo storiografico che ha da sempre prediletto solo i «grandi protagonisti […], che sono considerati rappresentare la linea vincente», che «fanno attorno a loro terra bruciata e impediscono di leggere la situazione nei suoi vari aspetti e nelle sue più riposte pieghe» (Aa. Vv., La pittura in Italia. Il Duecento e il Trecento, a cura di E. Castelnuovo, Electa, Milano, 1986, p. III). È affascinante mettere in parallelo questo passo con quanto scrivono Luzzatto e Pedullà nella loro Introduzione:
In genere, la storia di una civiltà letteraria viene raccontata secondo format consolidati. Attraverso una sequenza di medaglioni di uomini illustri. O inquadrando i diversi autori secondo i movimenti culturali ai quali hanno preso parte (il succedersi delle poetiche dominanti) […]. Ma un Atlante che nasce – nel segno della geografia – dal confronto fra le sensibilità degli storici e quelle degli italianisti, non può che muovere da premesse differenti. Perché una volta restituita alla ricchezza, ma anche alla complessità dell’intreccio fra i suoi tempi e i suoi spazi, una letteratura non può ridursi al canone dei suoi grandi autori, né alla successione delle loro opere maggiori o minori, né alla vicenda dei generi o al successo delle mode. A priori, l’Atlante rinuncia dunque a un’ordinata, troppo ordinata galleria di maestri e di capolavori (pp. XVII-XVIII).
Raccontare il canone
Evitare di ridurre il canone ad un elenco dei grandi autori, rifiutare le sterili cristallizzazioni che hanno allontanato dalla letteratura generazioni di lettori, guardare in modo nuovo ad un patrimonio culturale consolidato sono obiettivi razionali e perfettamente condivisibili. Eppure è necessario ricordare che il primo, minimo, obiettivo di cui si occupa la critica letteraria è quello di delimitare un campo e costruire un corpus, che è l’insieme di opere su cui esercitare il proprio giudizio. E questo conduce alla preoccupazione primaria di chi scrive: valutare l’insieme delle opere proposte dall’Atlante e su cui lo studioso dovrebbe esercitare il proprio giudizio. Se guardassimo al progetto con l’occhio interessato (e divertito) dell’esperto italianista, non potremmo non godere nel leggere la miniera di informazioni, curiosità e particolari su cui è fondato. Ma se la stessa opera fosse valutata nella prospettiva di un pubblico appassionato ma non specialista, le conseguenze potrebbero essere disastrose. L’operazione di Luzzatto e Pedullà non nega di certo la storia, ma spoglia il critico letterario della sua qualità decisiva: la scelta. In questa prospettiva, l’Atlante della letteratura italiana diventa lo specchio di una cultura postmoderna e wikipediana:: l’opera si configura come contenitore di informazioni che non propone scelte, non valuta autori e produce un canone così espanso da essere grottesco. Dante e Mussato si muovono nello stesso universo e con lo stesso passaporto: la dialettica che li ha opposti nel tempo si disgrega nel turbine di dati e statistiche che li coinvolge. Allo stesso modo Ariosto e Tasso sono inglobati in un orizzonte che fonde e appiana Aretino, Ingegneri, Pace, Machiavelli, Galileo, Bruno, Marino. La divertente descrizione dell’aggressione di Ettore Fucci a spese di uno spaventatissimo Torquato Tasso si sovrappone alla Gerusalemme liberata; le statistiche sulla censura della Controriforma adombrano le alterne fortune di opere come il De monarchia o Il principe nell’età di Trento. Il dato statistico, la curiosità erudita, la ricerca filologica, l’aneddoto divertente e divertito schiacciano qualsiasi tentativo di sistemazione e gerarchizzazione. Viene automaticamente in mente quella Storia della letteratura di De Sanctis, uno degli imputati più citati nel processo al vetusto storicismo italico imbastito da Luzzatto e Pedullà. Frutto di un progetto politico-culturale risorgimentale che oggi può considerarsi concluso (e evidentemente rinnegato dalle attuali scelte elettorali di una buona fetta dell’elettorato italiano), l’opera di De Sanctis può essere ancora un esempio di metodo da non liquidare con un gesto infastidito. La Storia è una narrazione organica, esprime un’ipotesi di interpretazione di un mondo che era complesso, ma ancora interpretabile e valutabile. Le scelte di De Sanctis possono oggi sembrarci inattuali, politicizzate e non convincenti, eppure esprimono quella necessità di valorizzazione che l’Atlante di Luzzatto e Pedullà sembra mancare totalmente. L’effetto finale che l’Atlante della letteratura italiana produce mi sembra paragonabile allo spaesamento che Rinaldo, Orlando e Angelica potevano provare nella selva del Furioso: quel meraviglioso intrico di vegetazione era parte vitale dell’entrelacement, ma dimostrava tutta la sua pericolosità nell’essere minacciosamente e desolatamente infinito.
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NOTA
Una versione estesa di questo intervento sarà pubblicata sul numero 65 di “Allegoria”
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Editore
G.B. Palumbo Editore
Dove andremo a incominciare?
Da quello che ho letto e sentito (recensioni, commenti, presentazioni più o meno ufficiali degli autori) dovrebbe essere un libro molto stimolante (specie per chi ha letto con convincimento l'[i]Atlante del romanzo europeo[/i] di Franco Moretti ancora tredici anni fa). Si tratta, comunque, di un’opera per chi già conosce la (storia della) letteratura italiana. Ergo: ubi primum? Da che cosa si deve partire? Sembra che, in ambito italiano, qualsiasi forma di introduzione a qualsiasi letteratura (non necessariamente quella nazionale) consista in un racconto storico. (E poi: Pedullà si chiama Gabriele, mi pare…)
Una prospettiva tecno-fenomenica
Anche a me la lettura (rapida e cursoria) dell’opera ha suscitato molte perplessità. Innanzitutto circa la presunta “originalita’” del progetto. Una proposta del genere infatti, In Italia, sarebbe stata originale, forse, 15-20 anni fa. Quando ancora soffiava il vento del neocapitalismo e sui nostri studi la brezza leggera del postmodernismo.
Adesso, a voler definire l’opera, mi pare invece molto appropriato l’aggettivo che compare nell’ultima di copertina: “inedita”. Il neretto dice che l’Atlante offre “una dimensione completamente inedita della nostra storia letteraria”. Ed è vero. La logica è vecchia, ma la sintassi discorsiva è nuova. Il postmodernismo critico italiano si è declinato soprattutto nei modi della neoermeneutica. Si sono perscrutati gli infiniti anfratti dei testi, ne sono stati decostruiti i significati, sono state affastellate letture possibili su letture possibili. La verità è stata dichiarata estinta. Ma in fondo si sono continuati a scrivere saggi critici.
Qui invece compaiono grafici, numeri, istogrammi, torte, tabelle e cartine. Pedullà e Luzzatto (con un certo compiacimento eclettico da cartellone di scuola media) prendono a prestito gli strumenti delle scienze dure, rivendicano il peso degli aspetti quantitativi della letteratura italiana e intraprendono un lavoro apparentemente oggettivante, apparentemente filologico, per collocare “nel posto preciso del tempo e dello spazio tutto quanto contava nel paesaggio sociale e mentale” dei nostri scrittori. Il loro rappresentare “il fatto letterario” – con strumenti di analisi che sono per eccellenza descrittivi ma non interpretativi – equivale però a mettere in epochè tutto quello che la tradizione e la nostra comunità ha scelto e mediato, discusso e tramandato nel corso del tempo. Direi che per questa via si mette in atto una radicale neutralizzazione del cortocircuito passato-presente (con buona pace di Benjamin, del balzo della tigre e della stessa utilità della prospettiva diacronica!). Nell’atlante, insomma, “restituendo” ogni epoca alla sua epoca, e ogni autore al suo originario reticolo di relazioni si torna ad una sorta di anno zero della letteratura italiana e quindi, indirettamente, della comunità che ad essa ha intrecciato il suo destino; il che, oltre ad essere un paradosso per una storia letteraria, rappresenta anche una tendenza critica pericolosa: negli ambienti asettici dei laboratori nessun germe può fermentare.
L’aspetto “inedito” più rilevante del postmodernismo dell’atlante non è però nel suo “filologismo cartografico”, ma nel forte peso assegnato ad una geografia letteraria “policentrica”. Qui, a ragione, Baldi concentra la sua analisi. E la sua analisi mi ha fatto pensare ai presupposti impliciti di questo rinnovato interesse per la geografia in storiografia letteraria. Secondo Bauman la territorialità forte, stabile, è intimamente legata alle ossessioni spaziali della modernità solida: nella modernità gli Stati-Nazione “contenevano” i popoli ed i confini e i fini delle storie letterarie erano coincidenti con quelli della loro nazione. La forte direttrice della storiografia desanctisiana è giunta sino a noi, lo sappiamo, perché fortemente ancorata ad un’identità geografica, politica e culturale, quella italiana. Nell’atlante questa direttrice è frantumata e se ne tabula addirittura (col pretesto del “filologismo cartografico” di cui sopra) la densità storica. Non è un caso. Se lo stato nazione muore, muore anche la sua solidità centripeta; se l’industria italiana muore, se ne devono “delocalizzare” le produzioni, se la critica letteraria muore, muoiono anche i frutti del suo lavoro di mediazione e di scelta. Ma tutto quello che non muore lotta per vivere, fermenta e cambia, anche se l’Atlante non lo disegna, né lo può mappare.
Inalberandomi nella lettura a p. 388, ho pensato che al filosofico sguardo della nottola di minerva di hegeliana memoria (allegramente congedato nell’introduzione insieme a quello occhialuto di Croce e di Gramsci in circa 5 righe) si sia voluto sostituire l’occhio tecno-fenomenico di google earth per cui il dettaglio e l’insieme, la street view o la panoramica del mondo intero sono solo un gioco di scala. Uno slittamento del cursore. Ecco. Tutto pesa allo stesso modo quando non pesa più. Emanuela Annaloro
Risposte 2
Ringrazio molto le persone intervenute fino a qui. Non posso che sottoscrivere le parole di Annaloro, che completano, rifinendole, alcune posizioni espresse rapidamente in questo intervento, soprattutto condivido le sue posizioni sul rapporto con le scienze e sul ruolo dell’interprete.
Sono d’accordo con Andrea Malaguti e infatti l’opera è estremamente stimolante (punto esaltato dalle recensioni di Settis, Ferroni o Cortellessa) e ha un pregio su cui è necessario riflettere: l’insistenza su fatti e dati che, purtroppo, molte e troppe storie della letteratura italiana non hanno tenuto in considerazione fino a questo momento.
Purtroppo, dopo aver ascoltato interventi e presentazioni dell’opera da parte di autori e curatori, il dato che considero più preoccupante è proprio legato al pubblico per cui questo atlante è pensato: un lettore esperto, o comunque già esposto alla letteratura italiana, non potrà che trovare giovamento; diverso il discorso se questo atlante si trasforma nello strumento con cui presentare per la prima volta la nostra letteratura. Credo che questo discorso non sia stato valutato, o almeno non abbastanza: è rischioso licenziare una simile opera (con la principale casa editrice italiana) per poi definirla “un esperimento”, visto poi che il tenore dell’introduzione dei due principali curatori è molto diverso e descrive l’atlante come un’operazione unica e quasi capace di aprire nuovi paradigmi.
Sottoscrivo pienamente l’esigenza di cui parla Malaguti di ripensare alla nostra letteratura non solo in chiave storica (e comunque, come ormai sembra chiaro, al di fuori di certe logiche unicamente nazionali), l’atlante, nella sua apertura multidisciplinare, ha la sua principale forza.
Chiedo scusa per aver malamente rinominato Gabriele Pedullà e grazie per la notifica.