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diretto da Romano Luperini

Seguita la vita come prima. Per Patrizia Cavalli (1947-2022)

È una formula ormai risaputa, ma non per questo meno vera, che il “pubblico della poesia” sia composto da almeno cinquant’anni quasi esclusivamente dai poeti stessi, dai critici letterari, e da qualche sparuto amatore. Certo, da qualche anno, sugli scaffali delle librerie, tra Petrarca ed Emily Dickinson, Vittorio Sereni e Thomas Stearns Eliot, sono comparsi “poeti pop”, che sembrano addirittura “vendere”. Lo iato tra i due gruppi, mescolabili su quegli scaffali solo per ragioni merceologiche, non potrebbe essere più ampio. La poesia è aristocratica. La poesia pop è democratica, ma non è effettivamente poesia.

Patrizia Cavalli è morta lo scorso 21 giugno, a 75 anni, dopo una lunga malattia. Credo che sia una dei pochi poeti, cui sia riuscito di colmare quello iato: aveva estimatori tra critici severi (tra gli altri Alfonso Berardinelli e Gianluigi Simonetti), eppure era letta fuori dalla seletta cerchia del “pubblico della poesia”. Ho amici e conoscenti che me l’hanno testimoniato, negli anni e ovviamente nei giorni dopo la sua morte. Diversi di loro non sono lettori abituali di poesia. Ho anche portato i suoi testi in classe, con successo. Come si spiega questo piccolo miracolo?

Patrizia Cavalli non ha scritto molto: sette raccolte nell’arco di 46 anni, dal 1974 di Le mie poesie non cambieranno il mondo (uscito sotto gli auspici di Elsa Morante) al 2020 di Vita meravigliosa. Gli ingredienti della sua poesia sono rimasti grosso modo gli stessi, ma la quantità di nuove scoperte che si possono fare al voltare d’ogni pagina resta stupefacente, fino all’explicit dell’ultima raccolta. Quella di Cavalli è una poesia di facile accesso; non richiede precognizioni storico-critiche particolari. L’apparenza (ma è appunto un’apparenza) con la quale questi testi ci si offrono è quella di un immediato diarismo, di una puntuale registrazione quotidiana di sensazioni e pensieri, condotta su un registro linguistico medio e con il ricorso a traslati metaforici dall’escursione contenuta, che hanno lo scopo di aumentare la fisica percettibilità delle immagini e di captare minimi accidenti, sottili variazioni degli stati d’animo:

Mi recito nel primo dormiveglia le scadenze, / la vita come un metro coi centimetri, / vedo persino il suo colore giallo, / la misuro in lunghezza, avanzo nello spazio, / mi resta solo un palmo e allora m’alzo, / vado di corsa verso il caffellatte (da L’io singolare proprio mio, 1992).

Leggendo Patrizia Cavalli ci riconosciamo. Riconosciamo l’inconcludenza, l’estemporaneità, la discontinuità, delle nostre vite tardomoderne, così irriducibilmente private e singolari, da cui è difficile trarre un sistema di idee coerenti o almeno qualche generalizzazione teoretica o storica. Impossibile dare qui un’idea della varietà di minuti fenomeni interiori ed esteriori che popolano questa poesia: lo sguardo dei gatti, l’inesausta autoanamnesi psico-corporea, gli odori e la puzza delle piazze romane, gli effetti dei molti innamoramenti, lo svettare di Orvieto sul paesaggio circostante, il disagio della presenza altrui, la mutevolezza della luce di ora in ora e di stagione in stagione, mammone tettone e lesbiche troppo magre, la riflessione sul tempo, i divani e i letti, la veglia e il sonno, le ironie sfacciate e le arrendevolezze infantili.

Quanto si realizza in termini di coscienza del nostro esistere è sfumato, reversibile, contraddittorio, certo anche irrilevante e assai poco memorabile, se non per noi stessi:

Il lusso dei nostri giorni / dei nostri giorni di tutti / essere stanchi come se niente fosse / fare quei gesti uguali amatissimi, / e era ieri e era l’altro ieri, / sciupando tra i [sic] sbadigli le serate (da Vita meravigliosa, 2020).

Chi scrive poesie non ha accesso al / vero, il suo pensiero ha un andamento / incerto, è sottoposto al vento / di scirocco (da L’io singolare…), è un essere che bazzica l’al di qua, a metà strada tra grazia e disgrazia e il suo sguardo non spazia / oltre i tetti di ogni mattino, / oltre lo stupido celestino (da Il cielo, 1981).

Ho detto “diarismo” e “quotidianità”, ma devo correggermi. Patrizia Cavalli fa molto di più: mescola speculazione intellettuale e folgorazione lirica, epigrammi lievi o salaci e uggiose autoanalisi, festeggia la vita e consola la morte, o magari il contrario / così finché viviamo (da Vita meravigliosa). Pensa come un filosofo morale classico, ma senza potersi (poterci) prendere sul serio fino in fondo:

Per questa ostinazione torva / alla felicità, noi perduti / qui a fare le smorfie, le mossette, / a fingere la perdita / di quel che non è stato mai, / che certo mai sarà (da L’io singolare…).

Riaggiusta sempre il tiro, in un gioco di sponda smorzato tra toni: la breve impennata aulica si stempera nel dettaglio concreto, l’acquisto di una più approfondita cognizione di sé è relativizzato dalla sua parzialità e precarietà, la seriosità è teatrale quanto basta per mettersi tra virgolette da sola:

Incedevo solitaria nel perdono, / lenta distesa docile, maggio del sorriso, / calma maestosa irradiavo oblio. // E tu mi dai notizie frettolose / per riportarmi al vizio dei ricordi / m’allunghi sottomano la bustina (da Sempre aperto teatro, 1999).

A questo riguardo si può vedere la sezione «Sempre voler capire» in Pigre divinità e pigra sorte (2006). Una riflessione squisitamente metafisica sull’essenza del bene, che è assenza, e del male, che è eccesso di presenza (forse perché il male è esuberanza / di spirito che anela a straripare / e uscendo poi dal margine rivela / eccesso di materia, dismisura / che si rovescia in varietà di forme, / dissonanza che esalta quel che c’è / non quel che manca. […] Il bene essendo / invece assenza di sostanza, recede / da ogni forma e non si svela: quando lo cerco / diventa il suo fantasma: credo di averlo / e subito mi manca), si rapprende poi in sententiae sapienziali (Duro intelligere e morbido sentire, / il peggio che ci possa capitare; Guardare la bellezza e mai farla propria), ma si sganghera infine, per evitare di imporre un corruccio troppo intellettuale alla vita, che si distrae ed è già andata altrove:

Sono diventata molto saggia / dico saggezze una dietro l’altra / facilmente molto facilmente / le dico e le dimentico / posso dimenticarle / perché ne ho sempre un’altra. / D’altronde io / non son mica il tipo che risparmia!

Patrizia Cavalli è una grande sensista al pari di Lucrezio e di Leopardi. Corpo e anima sono trattati come un’unica sostanza, che consente «investigazioni sulla fisica della materia e dell’immateriale» (Berardinelli). L’esigenza stessa della poesia e dell’espressione nasce da un’insufficienza che è del tutto corporea, biologica: è il bisogno di riempire di figure quel sintomo umorale / che resterebbe altrimenti vuoto e perso (da Datura, 2013). Un’unica grande suscettibilità meteoropatica unisce le risposte, grate o annoiate, tanto ai propri sbalzi d’umore quanto ai mutamenti climatici:

Quando si è colti all’improvviso da salute / lo sguardo non inciampa, non resta appiccicato, / ma lievemente s’incanta sulle cose ferme / e sul fermento e le immagini sono risucchiate / e scivolano dentro / come nel gatto che socchiudendo gli occhi mi saluta (da Il cielo, 1981)

Naturalmente, come ogni materialista che si rispetti, Patrizia Cavalli è uno spirito religioso rovesciato, ossessionato dalla presenza del male, soggettivamente percepito come malattia fisica o senso di colpa. La poesia può diventare così irritato esercizio spirituale:

Essere testimoni di se stessi / sempre in propria compagnia / mai lasciati soli in leggerezza / doversi ascoltare sempre / in ogni avvenimento fisico chimico / mentale, è questa la grande prova / l’espiazione, è questo il male (da Il cielo)

Ma sarebbe un grave fraintendimento cercare di sistematizzare in forma coerente il materialismo di Patrizia Cavalli: e non tanto perché poesia non è filosofia, quanto perché la poetessa diffida della facoltà del giudizio, molto impressionabile / sempre disposto a farsi abbindolare / da ogni momentanea sensazione, che non ha pace finché da un accidente / non la trasforma in giudizio universale (da L’io singolare…). (Più che nel ricorso a una lingua prossima all’uso, tutto sommato abbastanza conseguente ai contenuti e all’attitudine dell’io, la specificità della medietas di Cavalli andrà cercata in questa diffidenza per l’universalizzazione, nella sua radicata convinzione che la conoscenza umana abbia natura integralmente terrestre).

La contingenza delle esperienze della nostra vita rende contingenti e reversibili i piccoli acquisti di coscienza. Se l’io soffre per amore, è Amore fisiologico, che si manifesta come dolore fisico che paralizza e inchioda e che costringe a confessare / che io non sono in nessun modo mai spirituale. Tuttavia, poco dopo, a lasciare smarriti non è la pura riduzione di sé a sangue, nervi e ghiandole, ma la condanna di avere troppa anima, / molto ambiziosa anima che sale / perché si vuole mescolare stoltamente / al cielo lasciandomi deserta, impedendo di comprendere il segreto del corpo (tutte le citazioni dalla sezione «In nessun modo mai spirituale», in Pigre divinità…): a garantire serenità e smemoratezza, nella poesia successiva, interverrà un farmaco contro la distimia, il Deniban, calmante maggiore.

Se è vero, come ha scritto, Nietzsche, che tutta la filosofia occidentale (aggiungiamo pure la poesia e la letteratura) non è stata altro che un «fraintendimento del corpo», anche in queste poesie si gira e rigira incessantemente intorno al nucleo pieno-vuoto del corpo: si generano ora sfasamenti terribili (Sarebbe sopportabile ogni male / se non ci fosse l’interpretazione, / sarebbe quel che è, non quel pugnale / che uccide e vuole pure aver ragione, da Vita meravigliosa), ora meravigliose divagazioni. È data, talvolta, la felicità di una perfetta coincidenza con sé:

Tutti i miei sensi raccolto in uno / che era tutti e non era nessuno. / Un impasto densissimo amoroso / che riassorbiva il mondo nel riposo. / Si mostrava nella forma di un sorriso / che era di tutto il corpo non più diviso, / luce e riflesso della luce d’ogni corpo, / mi visitava tenerezza di nascosto (da L’io singolare…);

o tra sé e l’Altro (l’altra):

È tutto così semplice, sì, era così semplice, / è tale l’evidenza che quasi non ci credo. / A questo serve il corpo: mi tocchi o non mi tocchi, / mi abbracci o mi allontani. Il resto è per i pazzi (da Pigre divinità…).

Tuttavia, nonostante la capacità di fissare attimi di serenità in un mutamento atmosferico appena palpabile, al semaforo rosso, al tavolo del bar, attraversando un ponte o facendo le scale (tutte immagini della sua poesia), nonostante l’ironia e la leggerezza, nonostante i distici scherzosi e le quartine epigrammatiche, Patrizia Cavalli appartiene alla schiera dei poeti atrabiliari. Nei suoi versi troviamo tutto lo spettro emotivo e psichico della noia: dalla depressione farmacologicamente trattata al sottile tedium vitae, dalla dolce malinconia all’angoscia del nulla e del tempo che fugge e rovina irreparabilmente.

Torno da dove sono partito. Se questa è la ricchezza che si rivela percorrendo una poesia che in limine appare però accessibile ed è perciò accogliente coi lettori, credo che dobbiamo essere grati a Patrizia Cavalli, per essere riuscita ad allargare i confini del pubblico della poesia e per essere riuscita a fermare felicità impalpabili, o a costeggiare abissi nichilistici senza mai caderci dentro: e di averlo fatto sapendo che oggi si scrive poesia in un’epoca in cui ciò non dà alcuna distinzione, perché poeti, critici, lettori di poesia e non lettori di poesia, condividono una stessa condizione, che è banalissima ma anche meravigliosa. Lei lo sapeva fin dall’inizio:

Seguita la vita come prima

con gente in piedi, seduta,

e che cammina

(da Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974).

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