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diretto da Romano Luperini

Federico De Roberto 18871

De Roberto e le contraddizioni dell’amore

Cos’è l’amore?

Cos’è l’amore? Un «sentimento egoistico», «un caso dell’amor proprio»: questa è la risposta di De Roberto. Una risposta che lo scrittore argomenta per oltre cinquecento pagine nel saggio L’Amore. Fisiologia Psicologia Morale del 1895. L’Amore è una ridondante ed erudita grammatica dei sentimenti d’impianto positivista, ed è anche di più: è un libro impietoso e dissacrante, in cui l’autore mette in gioco tutto se stesso, riversandovi per intero «l’intimo, sincero e doloroso pensiero suo sui problemi umani» (lettera di F. De Roberto a D. Oliva del 4 settembre 1895).

De Roberto qui concepisce l’amore come una contraddizione estrema, una «cosa impossibile», che si colloca nel punto d’interferenza fra «contrasti formidabili». La sua sostanza ossimorica è il prodotto della combinazione tra la spinta all’autonomia e la pulsione alla soggezione; tra il desiderio di fusione e l’illusorietà di tale desiderio; tra il senso e il sentimento; tra l’egoismo e l’altruismo; tra gli uomini e le donne, che «essendo fatti diversamente, non possono intendersi». Queste antitesi sono poi riconducibili ad una sorta di «contraddizione originale»: infatti, come ci ricorda l’autore, di per sé «l’uomo è già contraddittorio».

Amore e odio

L’insistenza sulla discordia degli opposti che convivono in maniera ossimorica nell’amore è messa in rilievo da una scelta lessicale che attinge alla sfera semantica della guerra e della violenza, volutamente evidenziata con l’uso del corsivo. Così il corteggiamento è paragonato ad una «contesa», ad una «lotta lunga e feroce», nel corso della quale si vedono i maschi «battagliare, acciuffarsi, dilaniarsi, uccidersi», mentre «contendono tra loro violentemente, fino alla morte o all’abbattimento» nel tentativo di aggiudicarsi il possesso della femmina. «L’amore, dunque, costa ad essi dolore e sangue›»; tanto più che, sconfitta la concorrenza, rimane da vincere la resistenza della «preda». Una conquista estremamente difficile, visto che tra i due sessi vige una «lotta continua, e il piacere è a costo di dolore e l’amore è una specie d’odio», come dimostra il fatto che «la mimica dell’accoppiamento è sulle prime quella della zuffa», «d’una vera e propria lotta». «Crudeltà» e pietà, attrazione e «odio», «affezione» e « avversione» si mischiano insieme nel «tragico conflitto» del sentimento. Il «massimo dell’amore» coincide con «il massimo dell’odio», con un’ulteriore aggravante: se chi odia può astenersi dal procurare un danno all’oggetto del suo spregio, viceversa «chi ama infligge sempre dolori e tormenti».

L’amore violento

Nel caso di un amore infelice l’ossessione può perfino trasformarsi in «tentazione omicida» e il corteggiamento può pervertirsi in sopraffazione brutale, in stupro:

«È accaduto di vedere una disgraziata femmina di rospo morta soffocata per esser stata troppo strettamente abbracciata da tre o quattro maschi; altrettanto accade spesso alle ontarie che i maschi afferrano pel collo: se due maschi afferrano a un tempo una femmina, la dilaniano terribilmente coi denti, disputandosela, o la squarciano addirittura.»

Indossando le vesti dell’osservatore impassibile, lo scrittore registra il comportamento tenuto dai maschi del rospo e dell’otaria durante il corteggiamento. Ma l’oggettività del resoconto è subito travolta dal furore espressionistico della scrittura che si accende di una violenza viscerale. A dominare la scena è l’immagine del corpo violato. La rappresentazione cruenta dell’oltraggio, della profanazione, della violazione fisica diventa emblema del connubio di eros e thanatos che governa la «patologia delle passioni» e «spinge a compiere azioni repentine e fatali». Tanto basta a giustificare il crimine, perché, come scrive l’autore, «è vero pure che il piacere sembra più grande quando non solo non è ricambiato, ma è preso invece per forza. […] La sola idea dello stupro non sarebbe assurda, se ciò non fosse vero?»

Anche i gesti anormali e terribili rientrano nella legge di natura, se pure apparentemente sono ex lege: sulla base di questa convinzione, De Roberto si accanisce ad esplorare le dinamiche del delitto.

Gli episodi di violenza sessuale abbondano tra le pagine dello scrittore catanese e, più in generale, nella narrativa verista. Il tema dell’irrazionale scatenamento degli impulsi corporei viene affrontato da Verga in tante novelle di Vita dei campi, diventa centrale nella novella Tentazione! dei Drammi intimi, ritorna in modi diversi anche in Giacinta e in Tortura di Capuana, per poi riproporsi nell’opera di De Roberto. Nei Processi verbali Lupetto, singolare prototipo dell’«uomo selvaggio», si abbandona all’istinto dando sfogo alla stessa brutalità incontrollata che infiamma il maschio dell’otaria descritto nel trattato: abbraccia con irruenza eccessiva l’amata madre adottiva e, «esasperato dalla resistenza» di lei, la afferra «pel collo, stringendo, digrignando i denti, squassando la testa» (Processi verbali, Sellerio, Palermo 1997, p. 74 e 81), fino a provocarne la morte per soffocamento. Nell’ottavo capitolo dei Vicerè il giovane Consalvo rapisce la figlia del barbiere Marotta e la rinchiude «tre giorni con sé al Belvedere» (I Viceré, in Romanzi Novelle e Saggi, a cura di C.A. Madrignani, Mondadori, «I Meridiani», Milano 1984, p. 861); mosso da un «bramito selvaggio», nell’ottavo capitolo dell’Imperio Consalvo si avventa sul corpo di Renata che giace a terra priva di sensi, travolta dalla «furiosa prepotenza dell’istinto virile» (L’Imperio, in Romanzi Novelle e Saggi, cit., pp. 1339-1340). Infine nell’appendice aggiunta alla seconda edizione dell’Ermanno Raeli un anonimo testimone addebita il suicidio del protagonista al suo rimorso per avere violentato l’amata Massimiliana, già vittima dell’abuso di un parente. Un’immagine violenta dell’amore emerge anche dal carteggio tra lo scrittore e Nuccia Ribera che, come ha notato Di Grado, è attraversato da una torbida sensualità, fino a traboccare «di fantasticate violenze, di voglia di “spezzare” e “spaccare”, e d’un impeto “che squarci e bruci”», nell’esaltazione dell’«amplesso “strozzatore”» ( A. Di Grado, La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto, galantuomo, Biblioteca della Fondazione Verga, Catania 1998, p. 256).

La «legge di battaglia» e i conflitti del sentimento

E tuttavia per De Roberto la violenza che regola il meccanismo della riproduzione è solo uno degli aspetti di un tema centrale nell’ordine sociale moderno: il sesso e l’amore rientrano infatti nella più ampia casistica della darwiniana «legge di battaglia», interpretata come il principio che governa l’universo sociale e quello morale. Nell’agonismo dell’amore il godimento è subordinato all’appagamento dell’istinto egoistico.

L’Amore inserisce l’analisi del sentimento all’interno di una ontologia dell’«egoismo universale», consustanziale alla natura umana, che fa della prevaricazione del più forte la norma del vivere sociale. In questo senso «l’amore è un caso dell’amor proprio». Quest’ultimo, a sua volta, è la pulsione segreta che si nasconde dietro le parvenze sociali, il quid più vero, organico all’essere dell’uomo, che, come si legge nelle prime pagine del volume, scandisce «il modo di tutti i suoi pensieri e di tutte le sue azioni»:

«L’amor proprio non è una passione; è la somma di tutte le passioni, è tutta la passione umana. Esso prende diverse forme alla quale si danno nomi diversi: ambizione, cupidigia, avarizia, orgoglio, superbia, ostinatezza, dignità, presunzione, e via discorrendo; tutte manifestazioni strettamente egoistiche. Abbiamo visto come la pietà, la compassione, la carità, la modestia, l’umiltà, il sacrificio, tutte le forme apparentemente altruistiche, lesive dell’egoismo, si riducono anch’esse all’amor proprio. L’amore puro e semplice rientra anch’esso nell’amor proprio.»

De Roberto riprende dal Leopardi dei Pensieri quest’ idea dell’amor proprio come fondamento di tutte le passioni e come legge tragica della civiltà, che si regge sul «sistema dell’egoismo universale», cioè su «un sistema di assoluto e di universale e accanito e sempre crescente egoismo, che forma il carattere del secolo» (G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di A.M. Moroni, Mondadori, Milano 2007, p. 744).

Con una differenza: L’Amore si propone come un’«antiginestra»(C.A. Madrignani, Illusione e realtà nell’opera di Federico De Roberto. Saggio su ideologia e tecniche narrative, De Donato, Bari 1972, p. 161), dove l’ironia e l’apertura asistematica del pensiero di Leopardi si ribaltano nella tremenda serietà da referto di una trattazione nichilista. De Roberto non si limita a diagnosticare i mali dell’umanità sofferente, ma ne prescrive la cura. Una cura paradossale, trovata per via negativa, visto che la guarigione coincide con l’annientamente del genere umano. Non basta la la castità a far da contravveleno all’amore, avverte De Roberto: un’umanità risanata dovrà non soltanto «astenersi dall’amare, ma addirittura dal vivere».

Un positivismo inquieto

Nelle intenzioni di De Roberto il saggio ha un doppio obiettivo: da una parte vuole portare a compimento la riflessione sulle contraddizioni del sentimento amoroso aperta dal De l’amour di Stendhal del 1822, dalla Physiologie du Mariage (1829) di Balzac, poi ripresa da Bourget nella Physiologie de l’Amour moderne (1891); dall’altra mira a perfezionare il proposito di Verga di indagare, «con scrupolo scientifico», «il misterioso processo per cui le passioni si annodano, s’intrecciano, maturano».

Il risultato però è un clamoroso fallimento. L’accanimento con cui De Roberto si sforza di applicare il rigore del metodo sperimentale alla trama delle relazioni umane genera un cortocircuito logico: il processo di conoscenza si sfrangia in una marea di eccezioni, di particolari infiniti, di contraddizioni. L’ambizione positivista di arrivare a stabilire «la concatenazione logica dei fatti» si rivela inconciliabile con ogni vera conclusione, con ogni giudizio definitivo. Fino a provocare la crisi di quegli stessi presupposti positivi, da cui, ad ogni modo, l’analisi derobertiana trae origine. Il libro non si limita ad indagare il come, ma ricerca anche il perché dei fenomeni. Ma c’è di più: De Roberto rifiuta la nozione positivista di “causa prossima”, e a questa sostituisce l’idea della pluralità delle cause interrelate:

«Il determinismo è una bella teoria; ma tali e tante e così lunghe ed intricate serie di cause determinano gli atti umani, che non è soltanto impossibile prevederli quando non si sa quali cause sono intervenute e interverranno; ma riesce anche impossibile spiegarli se una sola, la più futile in apparenza, è sfuggita all’indagine.»

Le cause, e non la causa. Perché una molteplicità di fattori concorre a determinare il singolo evento. Le aporie della ragione aprono il campo al dubbio e alla perplessità sistematica. Allora è con disincanto che De Roberto chiude il suo trattato all’insegna dello scetticismo, rifiutando qualsiasi verità certa e totalizzante:

«Verità e menzogna, come vantaggio e svantaggio, come progresso e regresso, come bene e male, sono termini indissolubili. E la più grande e ultima verità sarebbe questa: che tutto è relativo; ma poiché il relativo non avrebbe senso se non s’opponesse all’assoluto, anche ciò è vero – fino ad un certo punto.»

Tutto è relativo 

Al variare del punto di vista corrisponde una ridefinizione del significato del reale. La sola verità appurabile è una verità obliqua e relativa che nasce dal vuoto delle certezze: per questo nel racconto Morte dell’amore l’autore proclama senza mezzi termini che «ogni opinione è legittima». Di fatto, per De Roberto, non esiste interpretazione che non possa essere rivista, emendata o rovesciata. La compattezza stessa dell’individuo tende a disgregarsi:

«Nulla di più umano che la contraddizione e l’assurdo… Io sento dentro di me dieci, cento donne diverse, una moltitudine di esseri ciascuno dei quali vorrebbe operare a sua guisa. E il più strano è che tutte costoro non parlano già ad una per volta, ma insieme, interrompendosi, contraddicendosi, confondendosi tumultuosamente» (F. De Roberto, La morte dell’amore, a cura di M. D’Onofrio, Salerno Editrice, Roma 1994, p. 67).

Mettendo in risalto la contraddizione, l’assurdo, la crisi del personaggio De Roberto precorre per certi versi il relativismo e l’allegorismo di Pirandello e si colloca su una verticale già modernista. Però, se anche la verità non è accertabile una volta per tutte, l’autore non smette mai di ricercarla e non mette in dubbio il primato della ragione. In fin dei conti per lui è possibile criticare le acquisizioni della logica esclusivamente in nome della logica: la ragione resta lo strumento della moralità e del dubbio, il solo mezzo a disposizione dell’uomo per indagare la realtà.

Sulla soglia

Il trattato sull’amore segna così un’impasse: arrivato alle soglie della modernità, De Roberto si arresta. E non riesce a fare il passo successivo. Dentro e già oltre il verismo, quella di De Roberto è un’«arte di transizione» (N. Tedesco, La norma del negativo. De Roberto e il realismo analitico, Sellerio, Palermo 1989, p. 12).

Con il passato la rottura è insanabile. Lo scrittore sa che la realtà non è più spiegabile razionalmente. Le fondamenta del pensiero positivista vacillano; si svuota di senso l’ambizione verista di rappresentare realisticamente la vita. L’universo narrativo che ha generato L’illusione e I Viceré entra in una crisi irriversibile. Negli anni che seguono De Roberto è preso da un senso di sconforto e fallimento: l’insuccesso dell’Amore lo abbatte profondamente. Lo scrittore sente di essere un sopravvissuto al proprio tempo e percepisce la sua inadeguatezza in un mondo che ha smarrito valori e certezze. Così le sue operesuccessivehanno tutte qualcosa di sfocato e di irrisolto (anche la prova più riuscita, L’Imperio, con la sua struttura frammentaria e inconclusa). Solo alla fine della sua carriera, nella novella La Paura lo scrittore riuscirà a ritrovare per un’ultima volta una misura ferma che coniuga realismo, espressionismo, plurilinguismo in un irriducibile atto di accusa contro la falsa retorica e l’assurdità della guerra, che segna per sempre la fine di un mondo.

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NOTA

Dove non è segnalato altrimenti, le citazioni sono tratte da F. De Roberto, L’Amore. Fisiologia Psicologia Morale, Galli, Milano 1895.

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