Il grigio e il nero. Paradisi digitali e inferni quotidiani
«Libri cartacei addio»
Ecco l’incipit e l’explicit di un comunicato dell’Ufficio stampa del MIUR datato 26 marzo 2013, che fin dal titolo strilla «A partire dall’anno scolastico 2014/2015 solo libri digitali o misti. Un tablet per ogni studente e zaini più leggeri»:
Libri cartacei addio. Ancora un anno di tempo e nella scuola italiana entreranno solo libri digitali o nel formato misto. È stato firmato dal ministro Francesco Profumo il decreto ministeriale in materia di adozioni dei libri di testo. […]
Con la firma del Decreto la scuola raggiunge un’ulteriore tappa verso la realizzazione degli obiettivi fissati dall’Agenda Digitale italiana. Grazie a questi provvedimenti gli studenti avranno la possibilità di utilizzare anche a scuola, e per obiettivi didattici, strumenti che già utilizzano diffusamente a casa, migliorando il livello delle competenze digitali dell’intera popolazione italiana. Senza dimenticare i benefici che potranno derivare da zaini alleggeriti dal peso, spesso eccessivo, dei libri di testo in formato cartaceo.
«Libri cartacei addio». Il tono è quello di chi annuncia, trionfante, la fine di una pandemia, o, ad essere minimalisti, il superamento di una condizione vergognosa troppo a lungo tollerata. Più o meno come se Gutemberg a Magonza nel 1455, quando la Bibbia a 42 linee era fresca di inchiostro, avesse inalberato il vessillo della novità affiggendo manifesti – rigorosamente a stampa – che proclamavano: “Codici, amanuensi, scriptoria addio”.
A parte il fatto che, a ben vedere, non di addio si tratta ma di arrivederci, visto che i libri «nel formato misto» altro non sono che libri cartacei forniti di espansioni digitali, c’è poi una questione più seria, dirimente. Siamo sicuri che l’addio ai libri di carta (buon ultimo dopo quello ai monti e alle armi) sia un indiscutibile progresso?
Sgombriamo subito il campo dalla più prevedibile delle obiezioni. Questo articolo non è stato inciso su pietra, o scritto con una penna d’oca, ma al computer, con un banalissimo programma di videoscrittura. I lettori non giovanissimi sono passati dal pennino alla penna stilografica, alla biro, alla “lettera 22”, al computer, senza sentire il bisogno di intonare un peana ad ogni svolta, anche se tutte le “riconversioni”, specialmente l’ultima, dalla macchina per scrivere al computer, possono aver comportato una certa dose di stress. Quindi non c’è all’orizzonte nemmeno un’ombra di misoneismo, di laudatio temporis acti acritica e compiaciuta. Ognuno dei cambiamenti prima segnalati, ma si potrebbero fare infiniti altri esempi (uno solo per tutti: chi di noi accetterebbe di guidare un’automobile priva di freni a disco, ABS, servosterzo, climatizzatore, ecc., ecc.?) ha avuto un carattere “strumentale”, ha semplificato, facilitato, migliorato il nostro modo di svolgere alcune attività, senza alterarne la sostanza. Una radio a galena, o a valvole, o a transistor, o digitale non modifica in modo radicale il nostro modo di ascoltare; l’apparecchio più moderno si limita ad ottimizzare l’ascolto. Ma il transito dal libro cartaceo a quello elettronico non è solo un innocuo passaggio strumentale, è molto di più. Non è la stessa cosa leggere un libro su carta o sullo schermo di un computer o di un tablet. Per la verità non è neanche la stessa cosa leggere un libro ad alta voce (come faceva Dante) o in silenzio (come facciamo ancora noi); come pure non è la stessa cosa possedere qualche centinaio di volumi (come nel caso della pur ragguardevolissima biblioteca di Petrarca) o migliaia (come accade oggi a un lettore medio). Ma queste ultime due differenze non fanno “massa critica”. Modificano certamente lo stile della lettura, la sua profondità, ma non stravolgono la sintassi cognitiva di chi legge. Dunque le perplessità che il trionfalismo miurico suscita in molti non hanno nulla a che fare né con un passatismo votato all’immobilità né con ragioni estetiche (il fascino della pagina – quasi che ogni scombiccherata edizione economica fosse stampata apud Aldum Manutium –, l’odore dell’inchiostro, il crepitio della carta e consimili amenità da dandy attardati).
Digitalizzazione e antropologia
La digitalizzazione diffusa ha prodotto una mutazione antropologica in cui non le lucciole sono a rischio di estinzione, ma l’homo sapiens come lo abbiamo conosciuto, soppiantato dall’“homo videns” (Sartori) che è già entrato a vele spiegate nella “terza fase” (Simone). Tutto ciò è noto da anni, acclarato in sede scientifica e oggetto dell’esperienza quotidiana degli insegnanti più avveduti, quelli che non si rifugiano nel mantra del “potrebbefaredipiù” o “èintelligentemanonstudia”, ma si interrogano sulle loro crescenti difficoltà, sui loro fallimenti. Nel numero 66 di «Chichibìo» di questo discuteva l’editoriale di Marilia Martinelli (E-culture), nel numero 67 anche su questo interviene Emanuela Annaloro (La scuola dell’uomo economico), che molto opportunamente cita le riflessioni di Pietro Cataldi e Romano Luperini (A scuola il tablet deve sostituire il libro?).
Se le cose stanno così, assecondare un processo che presenta molti elementi incogniti, o – detto più esplicitamente – di rischio, è una vittoria da sbandierare («Libri cartacei addio») o un caso lampante di “intelligenza con il nemico”? Intelligenza con il nemico, sia ben chiaro a scanso di facili accuse, tra molte virgolette. Non sarebbe molto più ragionevole, piuttosto che cavalcare la tigre informatica (e se questa tigre si rivelasse, per il più sornione dei paradossi, di carta?), cercare di governare i cambiamenti, mediare tra antico e nuovo, assumendo da ciascuno di essi quanto di meglio possano dare senza procedere a demonizzazioni sommarie che oltre tutto hanno motivazioni risibili (si rilegga l’explicit del comunicato del MIUR, da cui si evince che la funzione della scuola è, nella migliore delle ipotesi, quella di migliorare «il livello delle competenze digitali dell’intera popolazione italiana», nella peggiore, quella di alleggerire gli zaini degli studenti: un programma entusiasmante, non c’è che dire, capace di riscaldare i cuori di tutti i docenti). Forse i nostri studenti hanno bisogno di più carta e meno computer (quelli, grazie al dio dell’informatica, fuori dalle aule impazzano); forse la scuola, senza parlare la lingua dei morti, deve assumere come compito primario quello della salvaguardia della complessità e della profondità, ponendo un argine al folle volo orizzontale che il web consente, autorizza e santifica. Un mondo semplificato è un mondo povero, in cui forse sarà più facile pagare on line una multa, ma infinitamente più difficile gestire le criticità. La crociata semplificatoria non è neutra: ha come esito una società rimbambi(ni)ta in cui, mentre tutti discettano di tutto – dall’economia, alle architetture istituzionali, alla malacologia – senza avere i requisiti minimi per farlo, pochissimi nel rumore di fondo generato da questo incessante parlottio, silenziosamente esercitano un potere che trasforma i cittadini in sudditi “semplificati” e contenti. “Semplificati” e anestetizzati.
Interrogativi
Ma c’è dell’altro. Lo zelo dei neofiti della digitalizzazione diffusa suscita più inquietanti interrogativi. Incominciamo con il più spinoso, che riguarda i docenti. È proprio scontato che il livello di alfabetizzazione informatica dei professori italiani consenta a tutti l’accesso ai nuovi strumenti e il loro utilizzo, se non disinvolto, almeno basico? Bisogna stare attenti poi alle morgane evocate dalla statistica, secondo la quale si potrà anche legittimamente dire che se un individuo su dieci legge 100 libri l’anno e gli altri nove nessuno, mediamente ognuno di essi ne ha letti dieci l’anno, ma tra quell’avverbio – ‘mediamente’ – e la realtà effettuale può aprirsi un abisso. Dunque la tesi secondo cui i docenti italiani hanno mediamente piena familiarità con i computer e il web – che è il postulato sotteso alle ultime invenzioni ministeriali – è quanto meno discutibile, sicuramente ottimistica.
Che cosa ha fatto il MIUR per incrementare le competenze informatiche degli insegnanti oltre a dotarli di una casella di posta elettronica ministeriale che quasi nessuno usa? Scandalosamente poco. Ricordo di avere adottato, anni fa, un libro che conteneva in un CD una ricca dotazione di testi in aggiunta a quelli su carta. Off line, dunque, non on line. Bastava inserire il CD in un computer, “aprirlo”, selezionare il testo e stampare. Ebbene, questa operazione era al di sopra delle possibilità di molti colleghi, che evidentemente avrebbero avuto molte più difficoltà a gestire la posta elettronica, partecipare a un forum, scaricare dati, prenotare on line un volo Roma-Katmandu ecc. ecc. So benissimo che esistono moltissimi professori, più giovani o semplicemente più curiosi e flessibili, che penseranno che il mio sia un exemplum fictum, una inverosimile invenzione narrativa. Non è così. Che piaccia o no, bisogna ammettere che esiste una piccola “zona nera”, che non so quantificare, di docenti irriducibilmente alieni da ogni lusinga informatica e una “zona grigia”, meno piccola, di docenti non pregiudizialmente impermeabili al cambiamento ma – come dire? – scarsamente propensi ad esso. Prima di mettere mano a qualunque riforma epocale che abbia una sia pur remota attinenza con la digitalizzazione – di polverose riforme epocali sono pieni gli annali della P. I. – bisognerebbe partire da qui, dal grigio e dal nero, con un serio e capillare programma di formazione in servizio, se è il caso non solo facoltativo. Altrimenti si continuerà con la politica degli annunci, degli addii, delle riforme – queste sì – solo di carta.
Ci sono poi i problemi connessi con i costi degli strumenti informatici, tablet e pc portatili innanzitutto, che dovrebbero rendere praticabile, in classe, il nuovo paradigma didattico. Come fu ai tempi dell’introduzione del digitale terrestre, che comportò da un giorno all’altro la necessità di acquistare un decoder o un apparecchio televisivo di nuova generazione (e molte altre traversie), non è insensato chiedersi cui prodest? Forse a nessuno in particolare, forse il mercato dell’informatica sarà in grado di autoregolamentarsi limpidamente, ma non c’è alcun dubbio che il decreto firmato dal ministro Profumo apre le porte a un business colossale, e questo da solo dovrebbe bastare a consigliare cautela, se non a ingenerare qualche legittimo sospetto. E ancora. Un libro cartaceo è tendenzialmente democratico: una volta acquistato è uguale per tutti, anche se diversissimi possono essere gli effetti che avrà tra i lettori. Un libro digitale lo è molto meno. L’efficacia con cui l’e-book “gira” dipende molto dall’hardware, dalla macchina che è deputata a leggerlo. Se uno studente possiede non un computer a vapore, di qualche lustro fa, ma uno vecchiotto solo di qualche anno fa (sappiamo bene quanto sia rapida l’obsolescenza tecnologica in ambito informatico), il suo libro digitale sarà meno digitale, meno brillante, più lento. È necessario ricordare che un computer di ultima generazione ha un costo che non tutte le famiglie – in Italia, oggi – sono in grado di sostenere? Che dire poi dei casi – statisticamente irrilevanti, si vorrebbe far credere – in cui in famiglia non c’è nessun computer, né obsoleto né ipermoderno? Che ne facciamo di questi paria: li ignoriamo? li forniamo di un biglietto di sola andata per la Caienna? aspettiamo che si estinguano?
Domande in cerca di risposta. Ma la domanda vera da farsi, dettata dal buon senso ancora prima che da sapienti elucubrazioni è: piuttosto che promettere sedicenti paradisi digitali il nuovo ministro – che ha un indubbio vantaggio sul vecchio: di queste problematiche è in grado di cogliere non solo l’aspetto economico, ma anche quello tecnico, di merito – non farebbe meglio a occuparsi dei tanti inferni e purgatori concretissimi con cui la scuola pubblica deve ogni giorno fare i conti? Ma il buon senso, si sa, non abita più qui.
NOTA
Questo articolo è stato pubblicato sul n. 67 di Chichibìo.
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