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diretto da Romano Luperini

Rileggere i Sonetti di Shakespeare in una nuova traduzione

Inseguire l’eternità è stata sempre l’ossessione di William Shakespeare. Nelle sue opere la memoria dei grandi personaggi, difronte alla morte inesorabile, viene salvaguardata per sempre da una testimonianza: Amleto affida all’amico Orazio la ricezione della sua storia, come lui stesso aveva fatto rendendo giustizia all’ombra di suo padre; Romeo e Giulietta trovano eterno riscatto dall’edificazione di due statue d’oro che sanciscono la riconciliazione tra Montecchi e Capuleti. Nei misteriosi Sonetti, ripubblicati ora da Marcos y Marcos in una preziosa e ardita traduzione di Massimiliano Palmese, l’idea della vittoria sul tempo percorre il corpus come un filo rosso che brilla nelle liriche iniziali e riaffiora puntuale in altri luoghi.

Come ormai noto, i 154 sonetti sono suddivisi in due blocchi riuniti sotto il segno dell’eros: i primi 126 sono dedicati a un ancora misterioso fair youth, mentre gli ultimi 28 hanno per oggetto una indecifrabile dark lady. Ebbene, nei primi 17 l’argomento è chiaro e forse inaspettato: l’augurio di Will è che la bellezza del giovane si eterni attraverso un matrimonio che possa perpetuare il giovane amico, riprodurre l’incanto con la procreazione di un erede: “Se lasciassi un te vivo nel creato / che potere la morte avrebbe più? / Egoista, troppa bellezza hai in sorte / per darla ai vermi e cedere alla morte” (Sonetto 6). E l’intento appare più limpido e chiaro nel bellissimo Sonetto 15: “Se penso che ogni cosa di natura / resta perfetta solo brevi istanti, / che sulla scena siamo figuranti / a cui le stelle fanno una fattura” (…) Faccio la guerra al tempo per tuo amore / e più ti strappa, più ripianto il fiore”. Ma già nel giustamente noto Sonetto 18 l’eternità è garantita dalla poesia, che può salvare la bellezza e lasciarne traccia imperitura: “Ma la tua eterna estate non sfiorisce / e mai tu perderai la tua armonia / se all’ombra della morte non svanisce / chi resta eterno nella mia poesia. / E finché esisteranno occhi e sospiro, / tu vivo in questi versi avrai respiro”.

Le varianti di una storia d’amore

La lotta contro il tempo attraversa tutta l’opera scespiriana e ritorna, prepotente, nei sonetti centrali: “Per quando lui sarà come io sono, / offeso e sfatto dal tempo cattivo / (…) per quel momento io mi faccio forte” (63) e ancora: “verrà quel tempo e ruberà il mio amato. / Tale pensiero è morte, e fa più dura / amare chi di perdere hai paura” (64). Ma per fortuna, come già visto, la bellezza può sopravvivere nei “neri versi”, brillare nel “nero inchiostro”. Nelle 126 liriche dedicate al giovane chiaro e bellissimo, l’amore si moltiplica nelle sue sfaccettature, varianti di un’esperienza unica. Così troviamo la dolcezza del ricordo (30), le spine e il fango (“Per quel che hai fatto non ti amareggiare: / spine ha la rosa, fango è nella fonte; / la luna e il sole possono eclissare, / nel dolce boccio un verme si nasconde”,35), la gioia per le qualità dell’altro (37), l’elogio della distanza (39) colmabile col pensiero (“s’alza il pensiero sopra i campi e il mare, / decide dove andare, e vola via,” 44), la schiavitù (57-58) e la gelosia (61), l’invidia altrui (70), l’invecchiamento (“In me tu vedi un mese, uno di quelli / quando resistono poche foglie d’oro / sopra il ramo tremante, un tempo coro / dove prima cantavano gli uccelli”, 73), la concorrenza di altri poeti (82-86). Dal sonetto 87 inizia l’addio (“Ti ho avuto come un sogno che trastulla: / nel sonno un re, poi al risveglio un nulla”), l’odio dell’altro (88-90) e la perdita, il disamore e i bilanci (“estate e gioia dipendono da te / e, senza, anche gli uccelli sono muti. / O cantano con aria così stanca / che ogni foglia teme l’inverno e sbianca”, 97) con l’inaridimento della Musa ispiratrice (100-103). Ma l’amore è per sempre (“L’eterno amore, nei nuovi disegni, / non teme oblio né il tempo col suo oltraggio / e né gli inesorabili suoi segni: / trasforma la vecchiaia in un suo paggio”, 108), nonostante l’incostanza (109-112) e le ferite (120). L’itinerario amoroso di Will è come una luminosa parabola che torna al suo principio dopo aver attraversato il ciclo delle stagioni, costellato dal volo degli uccelli, da albe e tramonti, dal confronto tra occhio e cuore. E da un pensiero che può volare oltre gli spazi e le distanze, superare la morte con il nero inchiostro dei versi.

Specularità e congiunzione: la “dark lady”

Verrebbe quasi da dire che, con gli ultimi 28 sonetti dedicati alla “donna oscura”, Shakespeare completi l’esperienza erotica passando dall’apollineo al dionisiaco, celebrando specularmente l’ebbrezza, la lussureggiante brama di perdizione che porta il piacere su un abisso mortale. L’ineffabile (metaforica?) signora incarna la dolcezza del nero luttuoso (127), una lussuria senza grazia e bellezza ma semmai una musica dai “tasti audaci” (128), cui però si accompagna la richiesta d’amore percepito come un morbo (“Il cuore e gli occhi hanno sbagliato via, / precipitando in questa malattia”, 137), affetto dalla crudeltà di bugìe e tradimenti (“Ti converrebbe, tu fattelo dire, / pur se non mi ami dirmi che mi ami: / al malato scontroso, sul finire, / il medico è pietoso sui suoi mali”, 140) fin tanto che i due amori, il chiaro e l’oscuro, si riuniscono come complici e l’angelo si può indemoniare: “Due amori ho io, conforto e dannazione, / che m’inducono sempre in tentazione: / un uomo chiaro è l’angelo migliore, / una dark lady l’angelo peggiore (…) Che sia già indemoniato quello chiaro / io lo sospetto, non posso saperlo: / sono lontani e complici tra loro, / e io già me lo vedo giù all’inferno”, (144). L’amore diventa così follia e febbre nello splendido sonetto 147: “Ti pensai bella e ti ho giurato pura: / sei nero inferno, sei la notte scura”, cui segue la magnifica chiusura del successivo 148: “Non mi stupisco che la vista inganni: / persino il sole è cieco fino all’alba. / Perché gli occhi non vedano i tuoi sbagli, / furbo amore, di lacrime mi abbagli”. E inevitabile è dunque il masochismo di chi ama questa donna dal nero splendore, crudele e tiranna, dalla forza accecante e dal potere di dominare Will con i suoi difetti (150).

Una versione musicale e pop, per nuove antologie

L’abbondanza di citazioni credo faccia percepire il lungo e prezioso lavoro svolto da Massimiliano Palmese in questa nuova versione dei Sonetti scespiriani. Nella volontà legittima di restituire al lettore una veste musicale, ritmica di questo capolavoro della poesia mondiale, il traduttore lavora di scalpello sul tessuto di parole fedeli all’originale e sulla migliore alchimia per raggiungere lo scopo. L’obiettivo è la restituzione di una forma lirica al pentametro del sonetto elisabettiano, lavorando sull’endecasillabo storico e quindi sulle rime, con approssimazioni e varianti necessarie al fine. Ciò spiega perché possiamo trovare una certa libertà di versificazione, con una riproposizione non rigida della struttura del sonetto, con rime che cambiano di posizione e a volte sono sostituite da un preciso lavoro su assonanze e consonanze. Il tutto per restituire una gloria ritmica alla grandezza della scrittura scespiriana, riallacciandola anche alla tradizione petrarchesca come accade in una scelta come questa del sonetto 75: “Un giorno sazio, un giorno poi mi strugge, / a volte ho tutto, a volte tutto fugge”, nella quale il lavoro di traduzione si sviluppa su simmetrie e chiasmo. E come non pensare, nel sonetto successivo (76) a una linea musicale che da Petrarca attraversa tutta la lirica italiana fino a Sandro Penna, non a caso oggetto di un film biografico che Palmese dovrebbe iniziare a girare entro l’anno?: “E scrivo sempre sullo stesso tema / tenendo l’invenzione al noto schema (…) Solo di te, amore, scrivo io, / e tu e l’amore siete il tema mio”, che ricorda i famosi versi penniani: “Sempre fanciulli nelle mie poesie! / Ma io non so parlare d’altre cose. / Le altre cose son tutte noiose. / Io non posso cantare Opere Pie.” Ma al di là di affinità occasionali queste nuove versioni restituiscono in lingua italiana, per quanto possibile, la natura primitiva della musicalità e del sonetto italici, limitando la tortuosità delle inversioni sintattiche e consegnando una forma certamente più fruibile, di cristallina levità, pienamente adatta a una sensibilità giovanile e a un pubblico di studenti. Visto che le antologie scolastiche si rinnovano spesso, specie per contrastare il mercato dell’usato, credo che introdurre le nuove versioni di Massimiliano Palmese potrebbe essere una scelta ottimale per avvicinare ancor più i giovani studiosi alla grande poesia scespiriana. Quanto al volume in oggetto, consiglio di ultimare la lettura con la “Nota del traduttore”: una confessione a cuore aperto sulle origini di un amore per la poesia nato dalla madre, una lady che ha saputo costruire da sola un destino; sei pagine che non si limitano a spiegare le scelte tecniche e letterarie, ma gettano una luce calda su ogni storia che merita di essere raccontata.

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