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diretto da Romano Luperini

Perché leggere “Il libro della scomparsa” di Ibtisam Azem

Sapevo di essere sfuggito alla morte quando di mattina presto squillava il telefono di casa e all’altro capo del filo sentivo la voce di mia madre, in preda al panico. Voleva assicurarsi che io stessi ancora dormendo. I primi autobus del mattino, quelli che venivano fatti esplodere, io li perdevo sempre, e così perdevo la morte.

    In quel periodo, odiavo lavorare come cameraman. Uscire e dover sentire gli insulti contro gli arabi. «Mayat la’Aravim! Mayat la’Aravim!». Morte agli arabi, Morte agli arabi, Morte agli arabi. Il suono stridente di quella frase ancora mi riecheggia nelle orecchie. A volte, guardandomi allo specchio, ripeto quegli slogan in modo sarcastico, come per scacciare la paura che ancora mi assale e si annida nel ricordo.

   Sai una cosa? Può darsi che non sia stato poi così vicino alla morte. Forse quando si nasce in un paese come questo, su un letto di disastri, si va sempre in cerca di storie avvincenti sulla salvezza, sulla vita e la morte. Perché le storie ordinarie diventano qualcosa che non ci assomiglia. Non ci rivediamo più nelle nostre storie, quelle in cui esistono la noia o la vita normale. Cerchiamo noi stessi, in modo da poter somigliare all’immagine che abbiamo nei telegiornali e nei romanzi. Ma perché mi sono messo a scrivere al plurale? Tutto, intorno a me, è in frantumi.

   Nonna… mi manchi. Mi manchi tanto.

                                                                       “Il libro della scomparsa”, “17. Alaa”, pag. 82

“Il libro della scomparsa” è stato pubblicato dalla giornalista e scrittrice palestinese Ibtisam Azem nel 2014, tradotto per la prima volta in USA nel 2019, e successivamente nel 2021 in Italia da hopefulmonster editore, che l’ha appena ristampato.

La vicenda è ambientata nell’area metropolitana di Tel Aviv, dove aveva sede l’antica città palestinese di Giaffa, e dove anche oggi convivono ebrei israeliani e arabi palestinesi. La voce narrante alterna la focalizzazione su due personaggi: l’israeliano Ariel e il palestinese Alaa, amici che vivono nello stesso condominio e seguono i ritmi animati e multietnici del quartiere. Vi compaiono poi numerosi comprimari, israeliani e palestinesi, di cui vengono descritti sentimenti e idee in occasione dell’avvenimento che occupa il centro della scena: l’improvvisa e inspiegabile scomparsa, una notte, di tutta la popolazione palestinese dal territorio dello Stato di Israele. L’autrice descrive le prime reazioni, le ipotesi che spiegano l’accaduto, la rapida risoluzione politica del governo di proteggere la nazione imponendo la registrazione di tutti i residenti sul territorio: chi non si registrerà non potrà mai più fare ritorno. I coloni e numerosi cittadini comuni ebrei attendono con gioia il momento di (ri)appropriarsi definitivamente della “loro” terra: l’ultimatum scadrà senza che i palestinesi facciano ritorno?

L’approccio della scrittrice è stilisticamente ricercato, a partire dalla struttura in cui si alternano le due voci protagoniste, intercalate dalla narrazione di brevi episodi di vita quotidiana (una bottega artigiana, l’attesa alla stazione degli autobus, la mancata apertura di un ristorante, la visita di un medico a un penitenziario), volti a esemplificare la realtà di un luogo in cui convivono e lavorano insieme da decenni due diversi popoli. Attraverso la descrizione dell’interiorità dei suoi protagonisti e il naturale patrimonio di storie che costituiscono la quotidianità di ogni città, Azem individua e affronta in modo anticonvenzionale e aperto alcuni grandi questioni che negli ultimi anni si sono fatte sempre più urgenti. Quelle che, mentre scrivo, hanno appena avuto una clamorosa manifestazione nello striscione esposto dai tifosi del Paris Saint-Germain ieri sera, durante la partita di calcio più importante dell’anno. Fra queste questioni, trovo i “perché” più significativi per leggere “Il libro della scomparsa”.

Per ragionare sulle narrazioni identitarie

La riflessione sull’identità attraversa tutte le storie che il libro racconta, intrecciando diversi piani.

Il primo è quello dei rapporti generazionali e affettivi. Tanto Alaa quanto Ariel ascoltano e ricordano le voci di parenti e familiari, ne sono toccati e commossi, vi cercano indizi per scoprire sé stessi e le ragioni delle loro scelte. Uno dei fili conduttori dell’intera narrazione è la voce della nonna di Alaa, portatrice della memoria e del racconto della Nakba del 1948, la rovina dei Palestinesi sconfitti in quella che gli ebrei definiscono “guerra d’indipendenza” e deportati in altre regioni dello Stato. La nonna rappresenta la persistenza dell’identità di un popolo sconfitto, attraverso il racconto familiare e popolare; è la forza che si oppone al silenzio, riempiendo il vuoto prodotto dai vincitori, che intendono cancellare errori e contraddizioni della situazione in cui la Storia li ha collocati. Ad Alaa che lo invita a distinguere fra “israeliani e israeliani”, ricordandogli che “comunque le vittime non dovrebbero perdere la loro superiorità morale”, il vicino di casa Abu Mushin risponde con queste parole:

«Ma cosa c’entro io con queste stronzate da università, figliolo?  Chi vuole liberare la Palestina si rimbocchi le maniche. Vieni a fare l’intellettuale con me? E allora tutti i rifugiati che sono andati via? Cos’è, per loro è finita? E chi lo dice? Dio non ha detto questo. (…) Sto parlando degli israeliani che fregano pure Nostro Signore, figliolo. Cioè, non è che accettano di essere parte della regione e riconoscono quello che è successo e noi diciamo no. Quelli ci rovinano la vita e intanto piangono. Hanno uno degli eserciti più forti del mondo ma dicono: “Siamo dei poveretti e tutti ce l’hanno con noi”».

34. “Alaa”, pag. 140

Su questo delicato piano si muove anche il rapporto fra Ariel e Alaa, divisi dalla Storia e legati da una sincera e contrastata amicizia. Il loro dialogo prosegue anche dopo la scomparsa di Alaa, perché l’amico Ariel trova un quaderno rosso, il suo diario. L’autrice pone un problema drammatico, lasciando a chi legge il difficile compito di elaborare una sua risposta: è possibile che esista una vera amicizia, se un rapporto è segnato sin dall’origine da uno squilibrio di potere, da una logica coloniale di discriminazione e distanza?

Ecco alcuni dei pensieri del personaggio:

Stasera mi sono visto con Ariel, ma non siamo rimasti insieme fino a tardi. Prima di mezzanotte ho detto che dovevo tornare a casa e che domani sarei andato a Gerusalemme per lavoro. Ma non è vero. Non so perché, ma non avevo voglia di stare lì. (…) Per qualche motivo mi sono ritrovato a sentirmi parlare in ebraico come se la voce che sgorgava dalla mia gola non fosse mia. Eppure veniva fuori e parlava in ebraico al posto mio, mentre io me ne stavo a guardare e non sapevo che farmene di lei e di me. Non sopporto più quella voce. Mi fa sentire estraneo a me stesso.

“16. Alaa”, pag. 74

In queste parole, si legge un chiaro riferimento ad un secondo piano sul quale si affronta il tema delle narrazioni identitarie: quello delle visioni politiche con cui i due protagonisti si confrontano con onestà e sofferenza. Si tratta dell’eredità di secoli di idee trasmesse di generazione in generazione, sulle quali si fondano odio, risentimento, diffidenza. L’autrice, in una lunga e bellissima intervista, spiega di aver voluto provare a capire un potere e una visione coloniale che fonda la propria identità contro l’identità di un altro popolo. Nel libro, la presenza di queste radicate e stereotipate concezioni politiche è uno sfondo costante, particolarmente evidente quando si registrano le reazioni delle persone comuni di fronte a un fatto clamoroso come la scomparsa dell’Altro. Così le formula Itzik, un amico di Ariel, quando questi si stupisce della naturalezza con cui tanti ebrei stanno rimuovendo le domande sulla scomparsa dei palestinesi:

«Perché pensi che noi siamo tenuti a rispondere di tutto quel che accade ai palestinesi in questo mondo? (…)

Se avrò altre informazioni sarò io il primo a chiamarti. Ma perché non te ne stai a casa e ti rilassi? Siamo sinceri! Quello che è successo è la soluzione a tutti i nostri problemi. Io non sono credente, come sai, ma forse questo è un intervento divino giunto quando meno ce l’aspettavamo».

“40. Ariel”, pag. 153

Un terzo aspetto delle narrazioni identitarie è quello dello storytelling dei mass media e delle autorità militari, distante dalla verità e dall’umanità delle vicende, costantemente alla ricerca di comunicazioni che spettacolarizzino la situazione e ne semplifichino la lettura. Con grande sapienza narrativa, l’autrice contrappone a queste voci ufficiali e ai loro formalismi la sostanza delle esperienze reali: sono i brevi e frequenti capitoli, profondamente intrisi di commozione e verità, in cui si descrivono le reazioni di cittadine e cittadini comuni di fronte all’imprevista scomparsa della popolazione araba.

Peraltro, anche la complessa vicenda della traduzione del libro, la difficoltà di tradurlo dall’arabo e l’atteggiamento ambiguo degli editori statunitensi (risolto infine con l’intervento dell’Università di Syracuse) fotografa in pieno l’ambiguità della comunicazione pubblica su un tema delicato come quello affrontato nel romanzo.

Perché esplora l’intreccio doloroso fra il passato e il presente

Il libro esplora a fondo le idee di “scomparsa” e di “assenza”. Sia rispetto alle scelte dei singoli individui che rispetto al destino di popoli interi, le descrive attraverso le vicende alterne di “partenze” e “ritorni”, reali o immaginati.

Il tema ricorre ossessivamente, a partire dal primo commovente capitolo in cui la nonna di Alaa si lava, si profuma e esce di casa per andare a morire, con la strana serenità di cui per tutto il libro è portatrice, di fronte al mare della città vecchia di Giaffa. È quella, infatti, la sua casa, nonostante la deportazione seguita alla Nakba. Spesso, nel libro, si indagano gli intrecci fra gli avvenimenti della grande Storia e le vite semplici delle persone comuni, manifestazioni di “come il caso interferisce con la traiettoria delle persone”: per la nonna, ad esempio, la decisione di restare in Palestina, dopo la guerra del 1967, mentre il marito sceglie di recarsi in Libano, dove si ricostruirà una vita dopo averla ripudiata. Come accade nelle guerre, sono spesso le figure dei padri a mancare: suicida il padre di Alaa, disperso durante una missione militare quello di Ariel; e questo pone i personaggi in una costante situazione di dubbio e di attesa, “un inferno da cui – afferma Ariel – non abbiamo scampo”.

Rispetto a quest’intreccio fra “presenza” e “perdita”, gioca un ruolo fondamentale la città stessa: Giaffa in molte pagine diventa un vero e proprio personaggio, di cui l’autrice descrive con affetto l’anima e la vita. Il genere del racconto è stato definito “realismo magico”, e Ibtisam Azem ha indicato fra i suoi ispiratori Saramago e Kafka: il richiamo risulta chiaro in passaggi come questo, in cui il nipote evoca lo stupore provato quando la nonna gli raccontava della vecchia Giaffa in cui era vissuta, in un intreccio straniante di luoghi conosciuti e di nomi ignoti e strani:

Ero convinto che ci fosse un’altra città sopra quella in cui viviamo, e che indossa la nostra. Ero certo che la tua città, quella di cui tu parlavi, non avesse nulla a che vedere con la mia, anche se porta lo stesso nome. (…)

La tua Giaffa somiglia alla mia, ma non è uguale a lei. Ѐ come se lo fosse. Due città che si sono incarnate l’una nell’altra. Tu hai inciso i tuoi nomi nella mia città, e così mi ritrovo a essere uno che è tornato dalla storia.

“3. Alaa”, pag. 23

In modo differente ma speculare, il tema ritorna nel vuoto (addirittura, in una sorta di sensazione di tradimento) provato da Ariel nei confronti dell’amico palestinese scomparso e nel bisogno profondo di indagare le ragioni della sua assenza; infine, culmina nell’idea di coltivare la loro amicizia al di là della presenza fisica, attraverso il progetto di scrivere un libro su di lui.

Tuttavia, mentre Ariel lavora per conservare il ricordo e preparare l’accoglienza di chi ritornerà, esiste invece un forte desiderio di rendere la lontananza dell’Altro definitiva, negando a chi non appartiene al gruppo dei vincitori il diritto a rientrare nel Paese. Ѐ questa la logica della legge proposta dal governo nel finale del romanzo, con la quale si limita a pochi giorni il tempo per ritornare, vietando poi definitivamente ai palestinesi il diritto di abitare nuovamente le loro case. Ѐ l’ultimo passo di una colonizzazione forzata, che culmina nella cancellazione di un intero popolo:

Perché i vincitori non si guardano indietro, i vincitori guardano solo avanti. Avanti, march! I loro passi, come quelli dei carri armati, vanno dritti alla meta anche quando il tragitto è curvo o tortuoso. Vanno dritti alla meta, spianando la strada al futuro.

Gli operai del comune, a Tel Aviv come nel resto del Paese, stavano rimuovendo i cartelli su cui erano scritti i nomi delle città e delle vie con caratteri arabi. Da quella notte in poi tutto sarebbe stato in ebraico, insieme all’inglese, ovviamente, su cui nessuno aveva da ridire.

43. “Viale Rotschild”, pag. 163

Perché siamo nella distopia

Chiedersi che cosa significhi, in relazione a questo romanzo, l’espressione “realismo magico”, e entro quali limiti la società che descrive possa essere definita “distopica” non significa affatto porsi interrogativi da critici letterari. Semplicemente, significa interrogarsi sui destini del mondo contemporaneo, dominato in lungo e in largo da operazioni di appropriazione indebita della verità, di falsificazione della storia e di manipolazione dell’opinione pubblica. Mentre scrivevo quest’articolo, ho ascoltato alla radio la voce di Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, affermare che negli ultimi mesi e anni le tornano alla mente le parole di Orwell: le capita infatti di frequente di trovarsi “di fronte a una realtà distopica (…) fatta di immagini capovolte, in cui la realtà è trattata alla stregua di menzogna e la menzogna è presentata come verità”.

In questa prospettiva, impressionano alcuni fenomeni descritti letterariamente dall’autrice, che hanno subito negli ultimi anni – in maniera particolarmente evidente proprio nella storia di Israele – un’accelerazione straordinaria.

Il primo è la trasformazione della “democrazia” in un fantasma di procedure e parole vuote, che legittima e maschera il desiderio di sopraffazione e violenza, economica e se necessario militare, su chi è più debole. “Ogni riferimento a persone realmente esistite è puramente casuale”, premette l’autrice alla sua narrazione quando, nel 2014, il libro venne pubblicato mentre in Israele era a capo del governo Benjamin Netanyahu. Tuttavia, resta significativo che il primo ministro del suo romanzo distopico pronunci alla Knesset queste parole:

     Parlano di una cosa chiamata la Nakba, la catastrofe, e si rifiutano di ammettere l’ebraismo di questa nazione. Ci hanno rubato la nostra gioia, le nostre vittorie e persino la nostra catastrofe, perché la catastrofe è stata la nostra. Nostra è stata la vittoria quando gli arabi ci hanno fatto la guerra. E nostra è stata la catastrofe quando siamo stati costretti, come tutti i soldati in tutte le guerre, a uccidere alcuni di loro. E quando è successo è stata una tragedia per noi. Perché noi non uccidiamo, non siamo abituati a questo

26. “Ariel”, pag. 111

Il secondo fenomeno culturale e storico è la cancellazione della storia e delle diversità. Così, in uno strettissimo intreccio fra realtà e finzione, mentre il “vero” premier Netanyahu impone la legge sulla fascia di sicurezza e bombarda Gaza, il premier distopico di Azem difende davanti al parlamento la legge sulla sicurezza e sul ritorno:

   Nelle prossime ore faremo un censimento, e a tutti coloro il cui nome non compare, o che non ritornano entro le quarantotto ore dai primi casi di scomparsa degli arabi, ovvero entro le tre del mattino, non sarà consentito rientrare. I loro diritti e le loro proprietà verranno trasferite allo Stato.

   Non tollereremo né accetteremo il ritorno di nessuno. Chi non si trova sul territorio nazionale entro le tre di stanotte perderà il diritto di stare qui e non potrà più reclamare la sua appartenenza a questo posto.

42. “Ariel”, pag. 160

In un simile contesto, una distopia che giorno per giorno si dispiega davanti ai nostri occhi, sopravvive nel romanzo una via di scampo, legata alle scelte delle singole persone. Ariel, circondato dal giubilo per la scomparsa degli arabi palestinesi, dalla brama di appropriarsi delle loro case e di cancellarne perfino la memoria, legge avidamente le parole che l’amico Alaa non diceva che a sé stesso, conserva il suo quaderno rosso come una reliquia, progetta di scrivere un libro su di lui e su quelli come lui.

Il romanzo si chiude sul sonno di Ariel, lasciando a noi lettrici e lettori il compito di immaginare come andrà a finire la storia inventata (e, mai come in questi giorni, quella reale). Ma la nostra mente, che sin dalle prime pagine rimbalza fra fantasia narrativa e realtà storica, è invitata a chiedersi cosa significhi l’ultima immagine descritta dall’autrice.

(…) Cambiare la serratura della porta. Doveva cambiare la serratura della porta. Si addormentò prima che la lancetta dell’orologio segnasse le tre del mattino, e quella frase tornava di continuo a bussare ai suoi sogni…

Il quaderno rosso era aperto.

49. “Ariel”, pag. 174

Per me, un’immagine di speranza.

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