
Dare del tu a un fascista. Alcune considerazioni su un libro di Giuseppe Culicchia dedicato a Sergio Ramelli
“E dei caduti che facciamo?”
Il 29 aprile scorso l’Amministrazione di centrodestra del mio comune ha proposto, sulla scia di una campagna nazionale in atto da tempo, di intitolare una via o una piazza del paese a Sergio Ramelli: è stata questa l’occasione che mi ha fatto intercettare e leggere l’ultimo libro di Giuseppe Culicchia: Uccidere un fascista. Sergio Ramelli, una vita spezzata dall’odio (Milano, Mondadori, 2025). È il terzo atto di una ideale trilogia sugli anni Settanta, che ha i suoi primi due episodi nei libri Il tempo di vivere con te (2021, recensito qui da Luisa Mirone) e La bambina che non doveva piangere (2023, recensito qui da Alberto Bertino), dedicati rispettivamente alla tragica storia di Walter Alasia, cugino dell’autore, brigatista rosso ucciso nel 1976, a vent’anni, durante un tentativo di fuga, e alla madre di Alasia, morta di crepacuore qualche anno dopo. È, Uccidere un fascista, un libro che richiede, a mio avviso, alcune considerazioni sia nel merito sia di contesto.
La morte di Sergio Ramelli nella Milano del 1975
In primo luogo, ricordiamo la vicenda. Sergio Ramelli era un ragazzo che, nella primavera del 1975, aveva diciott’anni. Famiglia piccolo borghese, calcio, motorino, capelli lunghi, una fidanzata. Fino a poco tempo prima aveva studiato in un istituto tecnico di Milano, il Molinari, una scuola turbolenta, frequentata da studenti molto politicizzati, per la stragrande maggioranza di sinistra e di estrema sinistra. Da quando Ramelli aveva scritto un tema critico verso le Brigate Rosse e verso i media a suo parere troppo condiscendenti, era stato additato come fascista e oggetto di varie vessazioni, tanto che dovette lasciare il Molinari e passare a una scuola privata. Intanto, probabilmente anche per reazione alle angherie subite, si era avvicinato al Fronte della Gioventù, la giovanile del Movimento Sociale, cominciando a frequentare gli ambienti della destra. Non risulta che abbia mai compiuto violenze o posseduto armi, eppure, preso di mira da gruppi di estrema sinistra, fu schedato e pedinato, finché un commando armato di chiavi inglesi Hazet 36 non lo aggredì, il 13 marzo 1975. Un agguato che probabilmente nelle intenzioni doveva solo “servire da lezione”, ma che si rivelò invece letale: i colpi di chiave inglese alla testa procurarono lesioni gravissime a Ramelli che, dopo una lunga agonia, morì il 29 aprile di quello stesso anno.
Fin qui la storia, una delle tante storie di violenza politica nella Milano di quegli anni, una violenza maturata nel clima esacerbato dalle stragi e dalla strategia della tensione; un clima di scontro, di paura e furore ideologico in cui molti gruppi di estrema sinistra giunsero a ritenere che fosse una forma necessaria di «antifascismo militante» quella che prevedeva l’aggressione fisica dei fascisti, al punto che si diffuse, fra gli altri, lo sciagurato slogan «Uccidere un fascista non è reato» (da cui il titolo del libro di Culicchia).
Dolori privati e vicende collettive
Questo libro nasce da un rovello personale: scrivendo il già citato libro sull’amatissimo cugino Walter Alasia, cercando di ricostruire la vicenda umana che ha portato un ragazzo normale, un “bravo ragazzo”, a diventare assassino e a essere ucciso da brigatista, Culicchia ha incontrato la storia parallela di un militante di destra, morto di morte violenta quasi alla stessa età di Alasia. Per di più, come la madre di Alasia era morta di crepacuore pochi anni dopo il figlio, la stessa sorte era toccata al padre di Ramelli. Il libro, dunque, nasce dalla necessità di provare a sbrogliare questo groviglio di violenza, dolore e ideologia in cui fili rossi e fili neri si intrecciano fin quasi a confondersi, e a confonderci. Un groviglio in cui Culicchia si sente direttamente coinvolto proprio per la presenza di un brigatista nella sua famiglia.
Nell’affrontare questa storia, in cui dolore personale e vicende collettive sono strettamente legate, Culicchia sembra essere mosso da un duplice impulso. Da un lato dice che vorrebbe semplicemente raccontare una storia, fare il suo mestiere di scrittore che scrive con onestà e senza pregiudizi ideologici (“non sono uno storico e tantomeno un politologo. Mi limito a raccontare storie”, p. 80; «quello che conta in questo mio mestiere è cercare di raccontare ogni cosa con onestà, guardando alle persone e ai fatti per quello che erano o che sono, senza indossare le lenti oscurate dell’ideologia», p. 186), provando a intercettare la verità umana dei protagonisti e le loro sofferenze senza tener conto delle bandiere. Dall’altro sembra voler auspicare un riconoscimento reciproco, il superamento dell’idea che un avversario politico è «un nemico che in quanto tale non ha diritto a essere combattuto con le idee ma va appeso ancora e sempre a testa in giù» (p. 17). Insomma, Culicchia vorrebbe contribuire a fermare quella guerra civile che a suo avviso è «finita soltanto nominalmente a piazzale Loreto nell’aprile del 1945» (p. 27) ma che in realtà continuerebbe ancora oggi. È in questo duplice movimento, il racconto di una storia e la riflessione sulla Storia, che poteva risiedere l’interesse maggiore del libro; è invece proprio qui che emergono i suoi limiti.
Le strategie narrative: ricerca del pathos e (presunta) oggettività dei luoghi
Dal punto di vista della strategia retorico discorsiva, il libro si regge fondamentalmente su due espedienti: la narrazione alla seconda persona (l’io narrante si rivolge a Sergio Ramelli dandogli del tu, come se gli scrivesse una lunga lettera) e la personificazione di luoghi significativi di Milano (Piazzale Loreto, Piazza Fontana, San Babila…) che, in alcuni capitoli in corsivo inframezzati agli altri, prendono la parola in prima persona. Come esempio della prima strategia possiamo citare l’incipit del libro:
Ciao Sergio. Io non ti conoscevo. Mi permetto di darti del tu perché anche se sei nato nove anni prima di me, come quel giovane a me tanto caro, Walter Alasia, tu Sergio avrai sempre diciotto anni, e dunque ai miei occhi resti come lui un ragazzo: un ragazzo di ieri, ucciso a tua volta nel pieno della giovinezza. (p. 11)
Mentre per esemplificare la seconda strategia possiamo leggere l’incipit del terzo capitolo:
Io mi chiamo piazzale Loreto. Sto tra la fine di corso Buenos Aires e l’inizio di viale Monza e via Padova. Fui battezzato così perché durante il ducato di Milano qui sorgeva la chiesa di Santa Maria di Loreto, poi demolita per fare spazio… (p. 28).
Insomma: un po’ c’è il tentativo di creare una vicinanza, direi una intimità, fra narratore e oggetto della narrazione, e di coinvolgere in questo stretto legame empatico anche il lettore che ascolta da una voce familiare una storia dolorosa; un po’ c’è la volontà di recuperare una distanza, una oggettività, facendo parlare i luoghi che «più di certi umani ricordano» (p. 91).
Queste due strategie, però, nel libro non vanno molto oltre la pura mossa stilistica, non diventano quasi mai strumento per scavare a fondo nella psicologia dei personaggi, o per ricostruire con vividezza gli ambienti e i contesti (il quadro della Milano degli anni Settanta è quello da sempre visto in tanti documentari, saggi, romanzi e film su quell’epoca). Alle stesso modo, i due personaggi principali, Sergio Ramelli e sua madre Anita, fanno fatica ad uscire dalle loro maschere tragiche di, rispettivamente, figlio-martire e mater dolorosa. Forse, si potrebbe pensare, Culicchia evita di scavare troppo a fondo per pudore. Può essere; anche se questo pudore a volte porta ad esiti paradossali, come quando, nel capitolo 15, il narratore, rivolgendosi con il consueto tu al suo protagonista agonizzante, ha un momento di consapevolezza del rischio che sta correndo:
Che cosa pensasti dopo l’operazione e poi durante tutti quei giorni e quelle notti di agonia? Non ci è dato saperlo, e anche l’immaginazione talvolta deve sapersi fermare sulla soglia del rispetto per la sofferenza altrui. (p. 123)
Ma dopo appena due pagine, in un crescendo di pathos:
Che cosa pensasti prima di morire? […] Avrai certo recuperato dalla memoria frammenti della tua giovane vita. Il viso di tua madre. Quelli di tuo padre, di tuo fratello e di tua sorella. I giorni di vacanza. La luce che entrava in cucina la domenica mattina. Il vento d’estate quando sfrecciavi sul tuo Ciao per le strade di Milano. Le partite a calcio con gli amici. Flavia. (p. 125)
Di fronte a questo tentativo continuo di creare empatia nei confronti della vittima, a questa volontà di restituirle la dignità di essere umano, colpisce invece l’assoluto, quasi ostentato, rifiuto di provare a rendere la complessità, direi anche la semplice tridimensionalità, delle figure dei ragazzi che aggredirono Ramelli, o di coloro che frequentavano gli ambienti di estrema sinistra in cui quell’agguato prese forma. Gli aggressori, si ricostruì a fatica, erano stati studenti di medicina che in un misto di furore ideologico, sventatezza e spirito gregario compirono un gesto irrimediabile, che segnò per sempre le loro vite (tutti scontarono molti anni di carcere dopo aver affrontato con dignità il processo, tutti attraversarono un complesso percorso di consapevolezza, uno di loro si suicidò). Eppure nel libro sono sempre appiattite figurine di automi capaci solo di ragionare per slogan («uccidere un fascista non è un reato», «Fascisti carogne tornate nelle fogne»), e di interpretare l’«antifascismo militante» solo nella forma della violenza e della «rappresaglia preventiva»; quelle poche volte che Culicchia prova ad entrare nelle loro teste trova, oltre agli slogan, solo soddisfazione per l’azione compiuta («Che cosa si dissero una volta portata a termine la missione? Da un certo punto di vista, non c’era forse da essere soddisfatti?»), o addirittura gioia:
L’eccitazione. L’adrenalina. La gioia. Sì, anche la gioia di contribuire attivamente alla campagna di antifascismo militante. I passi affrettati, la luce di quella mattina di marzo fuori dal buio dell’androne. Con i fascisti non si parla. Hazet 36 fascista dove sei. (p. 197)
Da una parte un ragazzo ucciso solo perché aveva idee di destra, e il dolore indelebile di una madre. Dall’altra degli uomini-macchina che colpiscono e uccidono con soddisfazione e gioia.
Dall’empatia emotiva all’empatia ideologica
In realtà, però, il grosso del libro, quantitativamente parlando, non è quello che abbiamo descritto finora: la maggior parte delle pagine è occupata infatti da una ricostruzione, nello stile del reportage giornalistico, del contesto storico e dei fatti di cronaca. Anzi, per pagine e pagine Culicchia lascia la parola, soprattutto nella seconda metà del libro, alla semplice trascrizione di articoli di giornale dell’epoca, o di lunghi brani degli atti del processo che portò all’individuazione e alla condanna dei colpevoli, o alla trascrizione di altra documentazione d’archivio.
Ed è quando Culicchia si fa (forse contro le sue stesse intenzioni) storico e poi giudice morale di quell’epoca, e più in generale della storia italiana del Novecento, che il meccanismo narrativo e ideologico sembra andare in crisi. Succede, infatti, che Culicchia sembri vittima di una sorta di Sindrome di Stoccolma ideologica: il fatto di aver cercato la massima empatia possibile con la storia che voleva raccontare, lo porta ad aderire a una narrazione delle vicende italiane del Novecento estremamente solidale con quella che era propria dei “camerati” di Ramelli e di quelli che dopo la sua morte ne hanno custodito e ne custodiscono, non senza forti torsioni ideologiche, la memoria. Questo è già evidente fin dal primo capitolo, quando viene postulato un parallelo non troppo velato fra chi, negli anni Settanta, perseguiva l’annientamento fisico dei fascisti (con tecniche evidentemente a loro volta fasciste), e chi oggi si adopera per contrastare, con il dibattito delle idee, la diffusione di idee antidemocratiche nei contesti democratici:
Agli occhi di chi la pensa come la si dovrebbe pensare, agli occhi dei buoni e dei giusti, non solo tu ma chiunque altro la pensi come te semplicemente non dovrebbe esistere. Nel loro mondo non c’è spazio per chi ha idee non conformi alle loro. E per questo si adoperano perché ogni spazio possibile sia sottratto a chi la pensa diversamente da loro. (p. 17)
E allora il libro si fa carico di questi pensieri diversi, facendoli propri. Solo per fare alcuni esempi, viene detto che dopo il Biennio Rosso “la reazione fascista in risposta alla violenza dei rossi di fatto fece fallire l’idea di importare da noi la Rivoluzione sovietica e portò di lì a poco alla Marcia su Roma” (p. 213); che l’armistizio di Cassibile e l’8 settembre «avevano reso la nostra nazione a sovranità limitata» (p. 23), che la posizione di destra di Ramelli e degli altri «fu senz’altro una scelta minoritaria, controcorrente. E coraggiosa» (p. 59), che «se a ricordarvi sono i vostri amici e camerati con i relativi boschi di braccia tese, allora questa è una ragione in più per dimenticarvi o meglio per rimuovervi» (p. 79), che «uccidere un fascista, come già del resto nei mesi successivi al 25 aprile 1945 e tuttavia a distanza di trent’anni dalla fine della guerra, non fu più un reato» (p. 89); per non parlare poi della lunga nota (al cap. 13) in cui vengono elencate le «cose buone» fatte dal fascismo, e in cui vengono presi sul serio persino i proclami e gli atti della Repubblica fantoccio di Salò, come quello inutile e disperato, del 1944, sulla socializzazione delle imprese (pp. 225-6).
Sulla pelle di un ragazzo
Insomma: il libro si caratterizza per una narrazione che si preoccupa di suscitare emozioni forti e polarizzate, e per una ricostruzione delle dinamiche storiche a dir poco orientata. Non sono buone premesse perché il libro contribuisca a superare (come sembrerebbe invece essere nelle intenzioni dell’autore) le spaccature di questo Paese nel segno di una ricostruzione condivisa dei fatti e di una comprensione profonda dell’altro. Piuttosto corre, immaginiamo preterintenzionalmente, il rischio di fungere da stampella per quella operazione politico-culturale della destra rivolta a usare la figura di Sergio Ramelli (descritto di volta in volta come “martire politico” o “caduto per la causa nazionale”) per costruire una propria mitografia alternativa a quella (sentita come “di parte”) fondata sulla Resistenza; una operazione che di fatto finisce per rafforzare le divisioni identitarie fra chi, e sono sempre di più, va a rendere omaggio ogni anno a Ramelli con il braccio teso, la svastica e la croce celtica, e chi dall’altra parte vede in tutto questo qualcosa di inaccettabile e pericoloso. Come andrà avanti questa storia? Probabilmente succederà che le amministrazioni di destra continueranno a dedicare vie a Ramelli fra le polemiche, e magari inviteranno Culicchia a presentare il libro; il tutto fra le proteste di chi considererà queste operazioni divisive e rischiose. Un gioco delle parti sterile, che servirà solo al piccolo cabotaggio di partiti politici in cerca disperata di “narrazioni” che creino consensi, e che darà un po’ di effimera visibilità a chi meglio riuscirà a interpretare lo spirito del tempo. Il risultato, molto mediocre, sarà che sul sangue di Sergio Ramelli, sui suoi diciannove anni mai raggiunti, e sul dolore della sua famiglia, invece di costruire conoscenza e coscienza condivisa, comprensione dell’altro e coesione comunitaria (e magari, incidentalmente, anche della buona letteratura), si continuerà a fare propaganda politica, a solleticare istinti identitari, a giustificare ritualità fasciste in nome del cordoglio, a preparare il terreno per nuove fratture e magari per nuove violenze. Una cosa, questa sì, decisamente tragica, che chiunque abbia a cuore il passato e il futuro di questo Paese, e la memoria di tutti i suoi morti, non dovrebbe volere.
Articoli correlati
No related posts.
Comments (3)
Lascia un commento Annulla risposta
-
L’interpretazione e noi
-
Rileggere i Sonetti di Shakespeare in una nuova traduzione
-
Capuana e il modernismo. Ilaria Muoio dialoga con Federico Masci e Niccolò Amelii
-
Invito alla lettura de La conoscenza amministrata di Daniele Maria Pegorari
-
Giovanni Giudici saggista
-
-
La scrittura e noi
-
Perché leggere “Il libro della scomparsa” di Ibtisam Azem
-
Perché leggere Le non cose di Byug-chul Han
-
Dare del tu a un fascista. Alcune considerazioni su un libro di Giuseppe Culicchia dedicato a Sergio Ramelli
-
Diari, lettere e altri scritti autobiografici: l’Archivio e il Museo di Pieve Santo Stefano
-
-
La scuola e noi
-
Come vivere da insegnanti europei
-
Un gemellaggio per la lingua latina attraverso la riflessione sul metodo induttivo
-
Le parole della filosofia e noi
-
Una soluzione posticcia per un problema reale: il concetto di “essenzializzazione” nelle Nuove Indicazioni 2025
-
-
Il presente e noi
-
Per Stefano Brugnolo
-
Perché andare a votare ai referendum dell’8 e 9 giugno
-
I generali Cadorna della scuola e la Caporetto della scuola
-
La Parata Popolare del 2 giugno
-
Commenti recenti
- Stefano Borgarelli su Per Stefano BrugnoloProprio come dici qui sopra “figure ironiche di resistenza”, un candore necessario, consapevolmente rivendicato credo…
- Annalisa Brunu su Per Stefano BrugnoloGrazie a Emanuele Zinato, che con questo ricordo ci restituisce Stefano vivo, proprio com’era, nelle…
- Eros Barone su Perché andare a votare ai referendum dell’8 e 9 giugnoIl referendum promosso dalla CGIL è stato, in realtà, una mossa politica finalizzata a pesare…
- MARIA GRAZIA DALLA CA’ su Elsa de’ Giorgi, Italo Calvino e la rimozione di una donnaArticolo molto interessante e ricco di informazioni sconosciute e di una profonda analisi. Spero che…
- Giuseppe Corlito su Perché andare a votare ai referendum dell’8 e 9 giugnoReintervengo a caldo con i primi risultati disponibili sui 5 referendum, facendo riferimento ai dati…
Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Non mi pare che sia pietà verso i morti raccontare un omicidio isolandolo dal tragico quadro sociale e umano in cui è avvenuto. C’erano le stragi, i tentativi di golpe, una continua violenza politica… Uno degli assassini di Ramelli si è poi suicidato per il rimorso sei anni prima che si aprisse il processo e oggi conosciamo nei minimi dettagli quello che è accaduto quel giorno. Invece, sono oltre un migliaio gli omicidi compiuti da neofascisti e quasi sempre gli assassini sono rimasti ignoti e la verità negata. E i nomi di quei morti, militanti di sinistra o persone scambiate per militanti di sinistra, oggi li abbiamo dimenticati né contano più nulla. E chi li ha assassinati non ha mai mostrato alcun rimorso perché il neofascismo coltiva una “religione della morte” che, a quanto pare, mette al riparo da qualsiasi rimorso. Quando oggi ad Acca Larentia gridano “presente” stanno rivendicando implicitamente le stragi con cui i neofascisti hanno preteso di “vendicare” quegli omicidi. È un fatto che la destra in questo paese sia nata e cresciuta come “nemica della Repubblica” e questa è la loro storia. Creare empatia con artifici narrativi rischia di essere un modo opaco e illusorio di fare i conti con il passato.
Grazie per il commento, che mi pare riassuma bene uno degli aspetti della mia lettura del libro in questione.
Un grande scrittore italiano, Italo Calvino, ha dimostrato di aver intuìto in modo geniale il carattere profondo dell’antitesi fascismo-antifascismo (quell’antitesi che nel libro di Culicchia si trasforma a poco a poco in un’equazione), scegliendo, nel suo magistrale esordio narrativo, di incarnare la Resistenza (non in una formazione partigiana disciplinata e impeccabile ma) in un gruppo di sbandati raccogliticcio, sciamannato ed eterogeneo, tra i componenti del quale e i banditi corre, talora strappandosi, appena un sottile filo di seta. Sicché conviene cedere la parola a Kim, commissario politico di una brigata partigiana, che, parlando con il comandante Ferriera, confuta i ‘revisionisti’ vecchi e nuovi: « Ferriera mugola nella barba: – Quindi, lo spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa? – La stessa cosa… – Kim s’è fermato… – la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. Quel peso di male che grava… su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo » (Italo Calvino, “Il sentiero dei nidi di ragno”, cap. IX, 1947).