
Capuana e il modernismo. Ilaria Muoio dialoga con Federico Masci e Niccolò Amelii
Quarta puntata del ciclo di interviste a cura di Federico Masci e Niccolò Amelii. La prima intervista a Tiziano Toracca si può leggere qui; la seconda ad Anna Baldini e Michele Sisto qui, la terza a Michela Rossi Sebastiano qui. Il ciclo intende coinvolgere in una conversazione aperta opere di critici che negli ultimi anni hanno riflettuto attorno alla storia della letteratura italiana novecentesca, rivalutandone tendenze, periodi e movimenti o mediante categorie influenzate dagli aggiornamenti più recenti in merito ai motivi peculiari del modernismo italiano e alle discussioni sulle questioni legate al canone dominante e ai suoi necessari aggiornamenti, o attraverso metodologie caratteristiche della sociologia letteraria o ispirate alla teoria bourdesiana del campo letterario.
1) La relativa marginalità della figura di Capuana è il prodotto, come suggerisci nell’introduzione, di una contraddizione tutta novecentesca. Croce, Russo, e in varia misura anche alcuni esponenti della critica post-crociana hanno contributo a svalutare l’impegno conoscitivo della scrittura capuaniana, spesso nel segno di un parallelo poco significativo «con l’opera di Giovanni Verga». Da questo punto di vista il lavoro di Carlo Alberto Madrignani, come noti, si pone come uno spartiacque nella valutazione di un esercizio che «non è più quello classico, ma una formula di interrogazione e potenziamento per cui il vero artistico aiuta a capire il vero reale (…)»1. Come si colloca il tuo lavoro in rapporto alla storia della ricezione di Capuana nel contesto dello sviluppo delle forme romanzesche tra Otto e Novecento e come credi che riesca a dialogare con l’esempio offerto da Madrignani?
La marginalità di Capuana è il risultato di un giudizio di disvalore ripetuto e istituzionalizzato nel tempo, che ne ha deformato l’eredità fino a renderla incompatibile con il paradigma della modernità otto-novecentesca. Una tradizione critica di lunga durata, che va da Croce a Russo, fino a sedimentazioni scolastiche e manualistiche recenti, ha fissato l’immagine doppia del grande critico militante e del piccolo narratore inconcludente: una figurazione funzionale solo alla costruzione, per contrasto, della centralità di Verga.
Il merito di Capuana e il naturalismo (1970) di Carlo Alberto Madrignani sta tutto qui: nell’aver rovesciato questo schema, sottoponendolo a una verifica dei poteri. Madrignani è stato tra i primi a leggere insieme, sullo stesso piano, il Capuana teorico del verismo e il Capuana narratore, praticando il discernimento e agendo nello spazio della storiografia come in quello dell’analisi testuale. La sua monografia, per quanto per molti versi datata, resta ad oggi l’unico studio organico sul primo Capuana: sottratto al ruolo subalterno di stella minore della costellazione verista, letto e interpretato come alterità irriducibile al modello verghiano.
Il mio lavoro si inserisce in questa linea, ma ne amplia il raggio cronologico e il campo di osservazione. Riporto al centro soprattutto la narrativa breve postverista e assumo come oggetto privilegiato proprio quel segmento finale della produzione capuaniana – con un termine a quo fissato grossomodo al 1890 – che in Madrignani resta confinato a poche battute nelle pagine conclusive. A me sembra che sia proprio lì, in quella scrittura ipertrofica degli ultimi anni, che Capuana rivela la sua reattività al nuovo e la sua pertinenza novecentesca. Se le sue novelle più mature appaiono disallineate ai codici del verismo, è perché ne ribaltano programmaticamente le premesse. Se sembrano spurie e sovrabbondanti, è perché coniugano istanze di rinnovamento artistico ed esigenze economiche. Non è un elemento di demerito, ma un fattore costitutivo del sistema letterario-editoriale otto-novecentesco: i racconti brevi di finzione si pubblicano su periodico e sono pagati dai periodici; chi li firma ha bisogno di denaro per vivere, ciò non implica un’assenza di intenzionalità estetica. È in questo spazio liminale che si radica il mio sguardo, ed è qui che Capuana e il modernismo trova il proprio titolo e la propria postura critica.
2) Una delle idee che il tuo lavoro cerca di sviluppare riguarda la possibilità di identificare come Capuana sia riuscito a confrontarsi con alcune forme dello sperimentalismo primonovecentesco «rinnovando e ammodernando le strutture tecniche e assiologiche del romanzo e soprattutto della novella in Italia». Se questa prospettiva sembra continuare a suggerire la falsa contrapposizione tra naturalismo e modernismo, e se sembra metterne in evidenza la relativa continuità, riesce al contempo a suggerire qualcosa sulla particolarità della produzione narrativa d’impronta siciliana a cavallo tra due secoli. Quale è il contributo specifico di questa al discorso del moderno e quale il ruolo di Capuana?
Nel panorama della narrativa italiana a cavallo tra Otto e Novecento, l’asse Verga-Capuana-De Roberto costituisce il triangolo essenziale della novella e del romanzo moderni. Se a Verga spettano i titoli di ‘inventore’ della tipologia della novella moderna (come Luperini insegna) e di fondatore di un nuovo modello narrativo imperniato sul canone dell’impersonalità e l’artificio di regressione, Capuana e De Roberto sono scrittori del mutamento e della transizione. Il loro contributo specifico alla modernità letteraria va ricercato nelle soglie di trapasso dove la grammatica dell’onniscienza oggettiva entra in crisi per aprire il varco alla limitatezza dei punti di vista soggettivi e alla dissoluzione del soggetto romanzesco. Relativismo, scissione dell’io, travestitismo, critica della verosimiglianza: sono questi gli elementi decisivi di novità che attraversano l’opera di questi due grandi autori della nostra letteratura e che più li allontanano dal modello verghiano per avvicinarli al modernismo di Tozzi e Pirandello.
Nel mio lavoro ho cercato di dimostrare come l’ultima produzione narrativa di Capuana, quella postverista e primonovecentesca, esprima un’apertura sperimentale ininterrotta e una capacità assai precoce di intercettare, non necessariamente per adesione programmatica, le sollecitazioni del modernismo europeo. Le novelle più tarde in particolare, quelle scritte tra la fine degli anni Novanta dell’Ottocento e il 1915, raccolgono in filigrana diversi elementi del primo modernismo: svuotamento della trama, dispositivi autodiegetici, attenzione all’inconscio e all’arbitrio del caso. Tutto questo non si dà mai come frattura, ma come evoluzione e negoziato continuo della dialettica tra tradizione e innovazione. Lo dimostrano molto bene Delitto ideale (1902), Coscienze (1905), La voluttà di creare (1911) e Eh! La vita… (1913): raccolte di novelle che non si limitano a mettere in discussione il paradigma ottocentesco della verità, ma lo svuotano dall’interno a colpi di scomposizione umoristica, anacronie, alterazioni del rapporto fabula/intreccio, narratori personali, menzogneri e inattendibili. Il contributo più originale di Capuana all’arte novecentesca si misura qui.
3) Negli ultimi vent’anni il discorso teorico intorno al modernismo italiano è andato ampliandosi sino a diventare acquisizione stabile e condivisa. Tuttavia, nonostante le risultanze critiche in materia siano ormai largamente certificate, continuano a coesistere proposte e posizionamenti tra loro differenti, soprattutto in merito alla periodizzazione storiografica e agli autori da inserire nel canone. Riassumendo molto genericamente: a una linea interpretativa che usa la categoria per definire una ridotta area dello sperimentalismo letterario italiano dei primi decenni del XX secolo, se ne affianca un’altra maggiormente “continuista”, per cui il trapasso dal realismo ottocentesco al modernismo primonovecentesco, specialmente in Italia, non avviene attraverso brusche cesure e improvvise fratture, ma mediante un lungo periodo di gestazione e di compresenza di sollecitazioni formali e tematiche variegate, che convivono e coesistono per almeno due, tre decenni. In questo senso, la parabola letteraria di Capuana – la cui ricerca mobile e in costante divenire attraversa senza soluzione di continuità verismo, postverismo e paleomodernismo – come ci permette di ripensare gli assetti morfologici a cavallo tra i due secoli?
Il presupposto su cui si fonda la mia proposta critica, ridotto al nocciolo, è il seguente: modernità non è sinonimo di modernismo, né sul piano storico né su quello morfologico. Capuana costituisce, da questo punto di vista, un caso esemplare. Una lettura in diacronia del suo corpus novellistico, e più in generale della sua produzione narrativa, consente di osservare con estrema nitidezza la transizione che si consuma tra due diversi assetti di racconto di finzione lungo l’arco del cinquantennio che va dal 1870 alla fine degli anni Dieci del Novecento: da un lato, il modello ottocentesco, istituito sul canone dell’impersonalità, la narrazione eterodiegetica ulteriore, l’ordine cronologico degli eventi; dall’altro, quello novecentesco, segnato dalla soggettivizzazione della voce narrante, la sperimentazione di nuovi tempi narrativi (penso, ad esempio, alla narrazione simultanea), l’ordine artificiale degli eventi. Tra i due estremi si apre uno spazio intermedio, una soglia mobile in cui il racconto di finzione sperimenta modalità ibride, pone in discussione i propri presupposti senza rinunciarvi mai del tutto, si muove tra schemi narrativi già dati e soluzioni che preconizzano quelle appieno novecentesche. È proprio questo lo spazio che Capuana occupa con i risultati più convincenti ed è per questa ragione che, rifacendomi a Frank Kermode, ho parlato di paleomodernismo: un modernismo cioè non del tutto compiuto, acerbo, dove soluzioni che prefigurano il Tozzi e il Pirandello della maturità coesistono con strutture ereditate dalla stagione verista. Non più verista, non già modernista, il Capuana degli anni Novanta dell’Ottocento e del principio del secolo breve è capace di tenersi tra i due orizzonti e di fare dello stato di sospensione il proprio campo d’azione privilegiato. Credo si debba riconoscere criticamente che tra i poli del verismo e del modernismo, nella mia visione comunicanti ma distinti, in una partita delle differenze che si gioca soprattutto sul piano delle soluzioni formali, ha agito la funzione mediatrice assolta da chi ha stazionato tra l’uno e l’altro senza mai aderire con coerenza compiuta né al primo né soprattutto al secondo.
4) In volume del 2023 Massimiliano Tortora ha parlato di “funzione Verga” per indicare la ripresa e la rifunzionalizzazione tra gli anni Venti e Trenta del Novecento – periodo di “riscoperta” del romanzo e di “rilancio” del realismo – del magistero formale e stilistico dello scrittore catanese secondo traiettorie e gradi di intensità tra loro diversi. È possibile, estendendo magari lo sguardo all’intero panorama del XX secolo, delineare anche un’ipotetica “funzione Capuana”, ovvero individuare e circostanziare momenti specifici o determinati autori che hanno saputo riscoprire le peculiarità della sua opera, mettendone poi a frutto la lezione soprattutto in riferimento alla novellistica, genere di cui è stato certamente uno dei maggiori rappresentanti moderni?
Nel 1923, a un anno dalla sua morte, Verga entra nei programmi scolastici di italiano: è l’atto fondativo di una canonizzazione destinata a imporsi stabilmente nell’impianto dell’istruzione pubblica e nella cultura letteraria nazionale, sia pure a costo di una rimozione chirurgica degli elementi più innovativi e radicali della sua esperienza intellettuale. Nulla di tutto questo per Capuana, la cui cancellazione dalla memoria collettiva è tanto repentina quanto ostinata e resistente. Ne sono il segno precoce i necrologi che appaiono sulla stampa nazionale all’indomani della morte dell’autore, avvenuta il 29 novembre 1915: Capuana in miseria, Capuana indebitato, Capuana postumo a sé stesso. La sua figura è da subito svuotata di ogni peso culturale, assimilata per ageismo al cliché dello scrittore tramontato con la stagione verista, troppo produttivo per necessità finanziarie, in definitiva compromesso con il mercato editoriale. Anche le prime monografie a lui dedicate, Il pensiero e l’arte di Luigi Capuana (1919) di Achille Pellizzari e Luigi Capuana. La vita e le opere (1922) di Pietro Vetro, per quanto decisive ai fini della ricostruzione del dato biografico, non superano la soglia dell’aneddotica. Quanto di più lontano dall’organicità e dallo spessore intellettuale della monografia di Russo su Verga, la cui prima edizione esce da Ricciardi nel 1919.
A ciò si aggiunga l’elemento gravoso della trasmissione testuale. Per stare a pochi esempi: le raccolte di novelle, specie quelle degli ultimi anni, restano per lungo tempo disperse o tràdite in edizioni filologicamente inattendibili; dopo l’ultima edizione Carabba del 1932 Rassegnazione non si ristampa per quasi settant’anni; tra la Giacinta Garzanti del 1940 e quella Vallecchi del 1972 passano 32 anni e a dirla tutta, oggigiorno, fuori dal formato ebook, si fatica a trovarne un’edizione in commercio per un’aula universitaria come per la lettura individuale.
La risposta alla domanda sta dunque in re ed è negativa. Si potrebbe citare qualche sparuto caso di recupero, ma nulla che assuma valore paradigmatico, che faccia sistema o che possa configurarsi come una linea coerente di ricezione critica paragonabile in qualche modo al caso Verga. È ora di correggere il tiro.
5) Nelle pagine conclusive del volume, dedicate a un breve quanto denso e pregnante Codicillo militante, elenchi, facendo il sunto di alcune linee argomentative del saggio, tutti i motivi per cui Capuana è sempre stato posizionato ai margini del canone e le ragioni per cui la sua produzione non è mai stata non solo riletta integralmente – andando finalmente oltre gli ostracismi e le incomprensioni dovute a una ricezione infelice e mai davvero problematizzata –, ma neanche recuperata su un piano filologico attendibile e certificato, per cui L’Edizione nazionale delle opere si è arenata dopo un solo volume uscito nel 2009 e mancano ad oggi ripubblicazioni valide e attendibili. La domanda sorge allora spontanea: quali sono attualmente le precondizioni necessarie – anche materiali e logistiche – affinché le attività di scavo, indagine ed esegesi sull’opera capuaniana possano procedere ed essere approfondite? In merito ai ritardi e alle insufficienze delle Istituzioni che dovrebbero garantire il facile accesso e la salvaguardia del patrimonio documentario e archivistico, quali sono i passi fondamentali da compiere per mantenere aperto e produttivo un cantiere di lavoro più che mai necessario per restituire all’opera di Capuana il riconoscimento che gli spetta?
«Frammenti di romanzi e racconti, novelline e fiabe, opere teatrali, saggi critici, lettere, fogli e foglietti volanti di notevole importanza, insieme con circa duemila tra volumi e opuscoli di diversa natura buttati qua e là alla rinfusa, furono rinvenuti da me […] nel lercio e buio ingresso dal quale si accedeva alla Biblioteca»: sono le parole usate da Croce Zimbone per descrivere le condizioni di abbandono e incuria in cui versava, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, il patrimonio manoscritto e librario di Luigi Capuana. Da allora, fortunatamente, la situazione è mutata: dal 2005, a seguito di un intervento complessivo di restauro e di riqualificazione degli spazi, la Biblioteca dell’autore è collocata in quella che fu la sua casa natale (via Romano 16, Mineo); dal 2008 lo statuto della struttura è stato commutato in quello di Casa-Museo. L’impegno profuso dal personale bibliotecario negli ultimi vent’anni è stato determinante: grazie a un lavoro paziente e sistematico, i materiali d’archivio sono oggi ordinati, schedati e pienamente disponibili alla consultazione. Un risultato tutt’altro che scontato, che ha costituito la base del mio lavoro come di quello di molti altri studiosi e studiose, e che si spera possa presto tradursi anche in un intervento organico e coordinato di digitalizzazione.
D’altra parte, molto resta da fare. All’appello mancano ancora diversi manoscritti, documenti privati e nuclei cospicui di corrispondenza, che continuano a riemergere a sprazzi nel mercato antiquario, quando dovrebbero essere acquisiti, tutelati e resi accessibili alla comunità scientifica.
Ma il punto davvero cruciale riguarda la trasmissione dell’opera: è oggi più che mai urgente restituirla in edizioni filologicamente condotte. La priorità assoluta spetta, io credo, alla narrativa breve di finzione: la novellistica, per parafrasare il Baldacci studioso di Tozzi, è la punta di diamante dell’opera di Capuana. La fortuna di un autore si costruisce innanzitutto così: rendendone leggibile l’opera. È questa la condizione di partenza, non più rimandabile, per aprire – anche per Capuana – un cantiere critico stabile, prolifico, duraturo.
1 Carlo Alberto Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno. Verga Capuana De Roberto Pirandello Tomasi di Lampedusa Sciascia Consolo Camilleri, Quodlibet Studio, Macerata 2007, p. 8.
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