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diretto da Romano Luperini

Invito alla lettura de La conoscenza amministrata di Daniele Maria Pegorari

1. Tempo di amministrare

In un tempo in cui la società letteraria appare spesso rassegnata ad abdicare al proprio compito critico e profetico, La conoscenza amministrata. Calvino, Pasolini, Volponi e la cibernetica sociale (Mimesis 2025) di Daniele Maria Pegorari si impone come un’opera di rara densità analitica. Il titolo – un esplicito richiamo alla celebre definizione horkheimeriana – va interpretato come la chiave ermeneutica adottata dall’autore per leggere i meccanismi attraverso cui la tecnica sta progressivamente svuotando di senso l’azione politica, il linguaggio pubblico e, di riflesso, l’attività culturale.

Del resto, su questo nostro presente dominato dalla dicotomia tra la realtà (dei fatti) e la verità (delle narrazioni), Pegorari si va interrogando da diverso tempo, almeno a partire dalla monografia echiana Umberto Eco e l’onesta finzione (2016), per proseguire con l’analisi delle ricadute culturali della liquidità socio-economica (in Letteratura liquida. Sei lezioni sulla crisi della modernità, 2018) e attraversare l’accelerazione impressa a queste dinamiche dalla tragedia della pandemia (ne Il futuro in una stanza. Dialogo letterario dentro e oltre la pandemia, a quattro mani con la scrittrice Valeria Traversi, 2020). È pertanto imprescindibile, a mio avviso, posizionare questa ultima fatica critica all’interno del percorso autoriale e configurarla non tanto come una tappa ma come una summa dello stesso.

Fin dalle prime pagine, il saggio dichiara la propria ambizione: indagare la transizione – solo apparentemente incruenta – dalla democrazia liberale novecentesca a una tecnocrazia globalizzata («il nuovo stadio della trasformazione a cui il capitalismo sottopone la società per adeguarla alle proprie esigenze», p. 12), nella quale il conflitto è rimosso in nome dell’efficienza, l’ideologia si traveste da neutralità tecnica, e la narrazione pubblica si appiattisce su logiche binarie, semplificanti e semplicistiche, pertanto «stupide e ingannevoli» (p. 23). Con uno stile che combina l’esattezza scrupolosa del filologo alla passione dell’intellettuale militante, Pegorari si muove da critico e testimone fra le vicende dei nostri tempi, e ricompone una genealogia letteraria delle trasformazioni della modernità tardo-novecentesca individuandone i capostipiti in tre grandi autori italiani – Calvino, Pasolini e Volponi – scelti in virtù del fatto che essi hanno «colto sul nascere la definizione di un modello tecnico, gestionale, ingegneristico della società globale» (p. 33).

Il punto di partenza è duplice. Da un lato, la denuncia dei processi di addomesticamento del pensiero critico attraverso narrazioni sempre più propagandistiche del presente. Dall’altro, la rivendicazione della centralità che può e deve essere esercitata dalla letteratura nel decostruire tali narrazioni per offrire al lettore il diritto a uno sguardo obliquo, alternativo, irriducibile al piatto consenso privo di consapevolezza.

2. Calvino tra le città invisibili della tecnocrazia e i Lettori inesistenti

Dopo una corposa introduzione al tema, fitta di informazioni, dati e riferimenti teorici, ci addentriamo nel cuore letterario del volume a partire dalla riflessione di Pegorari sulla poetica di Calvino, che muove dalla constatazione che lo scrittore ligure è quello che ha colto con maggiore anticipo la trasformazione del mondo contemporaneo in un sistema reticolare di segni e dati.

Calvino si è interrogato precocemente sulla questione della narrabilità del mondo contemporaneo e di un’esperienza umana non più guidata dal principio di concretezza. Pegorari rilegge alcuni testi teorici degli anni Ottanta – in particolare Una pietra sopra, libro nato dall’intento di sancire l’addio alla stagione dell’impegno e che tuttavia pure rivendica un’idea di resistenza etica della letteratura –, per poi dedicarsi a una rassegna dei personaggi-funzione calviniani, dal Cavaliere inesistente al Lettore di Se una notte d’inverno un viaggiatore, che perdono il diritto alla soggettività e alla corporeità per incarnarsi in un ruolo. Se la disfatta dell’Autore era stata già ampiamente teorizzata dalla letteratura, Calvino si spinge oltre, tematizzando la debacle dell’intera filiera culturale, che parte dallo scrittore in crisi di creatività e arriva a travolgere anche il Lettore, vittima del «divorzio tra linguaggio e realtà» (p. 75), sempre meno coinvolto nelle dinamiche culturali, sempre più represso nella sua facoltà di agire.

Lo sguardo di Pegorari si posa anche sulle Città invisibili, testo centrale nell’economia del saggio: l’autore lo interpreta come un’anticipazione inquieta della smaterializzazione e virtualizzazione dell’esperienza. In queste città della mente, che si moltiplicano e si replicano, si può intravedere «la più chiara anticipazione dei caratteri rizomatici della città digitale e dei rischi di smarrimento dell’uomo nelle sue ramificazioni» (p. 29). E dunque Calvino avrebbe intuito il passaggio da una civiltà dello spazio fisico – nella quale l’individuo produceva storia attraverso l’esperienza – a una civiltà della virtualità, in cui l’ambiente diviene un luogo non da esplorare ma da subire o, nella migliore delle ipotesi, da decifrare. Questa interpretazione fa dell’autore delle Città invisibili un geografo della post-realtà, di cui ha tracciato le prime mappe, mentre, in parallelo, andava disegnando la biografia dell’Italia dei suoi anni, registrando i segni di un’epoca in cui le narrazioni si scollano dalla realtà e la conoscenza si appiattisce sull’erudizione.

3. Pasolini, il suo personaggio e le ceneri della tradizione

Di contro, Pasolini si presenta, nel saggio, come l’Antigone della società intellettuale, colui che rifiuta ogni compromesso. Dalla rilettura ravvicinata delle opere degli anni Settanta, emerge in controluce un profilo di Pasolini come portatore di una visione etica ed escatologica della modernità nella quale la tecnica non è mai neutra ma sempre portatrice di un potere che omologa, annienta, sradica, nel segno di un linguaggio dell’efficienza che frantuma il desiderio, stermina le lingue particolari, polverizza le sopravvivenze del sacro. È in questo senso che Pasolini evoca la tradizione: come rifiuto della coazione al nuovo e della forzosa rimozione della memoria mascherata da innovazione. Fino alla tragica presa d’atto dell’inconciliabilità del trasumanar con l’organizzar, che spinge lo scrittore a quel «dimezzamento» documentato dal metaromanzo splendidamente completo nella sua incompiutezza, Petrolio, che ci rivela un Pasolini scisso tra esigenze opposte, come «l’aspirazione a un’ideologia solida» (p. 165) e la «sinistra fascinazione per l’osceno, il torbido e il perverso» (ibidem).

La solitudine pasoliniana, allora, è la conseguenza inevitabile della sua inassimilabilità al contesto storico, che lo rende tuttavia una pietra d’inciampo ineludibile per chiunque desideri addentrarsi nel campo minato della letteratura contemporanea: Pasolini lancia sfide che restano aperte nel presente.

4. Volponi e le utopie irritabili

Volponi è forse il più problematico fra gli scrittori presentati in questo saggio, probabilmente perché si muove all’internodel sistema che critica. Allievo e collaboratore di Adriano Olivetti, Volponi è al contempo osservatore e parte in causa. Vive nel ventre dell’industria, conosce il lessico della fabbrica, ne sperimenta illusioni e delusioni, e di conseguenza porta dentro la letteratura la voce della trasformazione sociale in atto, rappresentando fin dai primi romanzi la crescente alienazione dell’umano all’interno del dispositivo industriale.

Come Calvino, Volponi crede nel potere della forma; come Pasolini, crede nell’inquietudine. Ma crede (anche e ancora) in una possibilità di sintesi, per quanto provvisoria. Mi pare che sia questo il presupposto critico da cui partire per affrontare il Pianeta irritabile, opera che Pegorari ripercorre scena per scena, riconoscendone un modello di letteratura eterotopica. Il romanzo, com’è noto (anche se, per la verità, si tratta di una delle opere meno conosciute del Volponi), narra «il day after di una guerra nucleare sopraggiunta dopo una lunga serie di conflitti che avevano già, a ondate successive, reso sempre più inospitale, infelice e innaturale il pianeta» (p. 196), e lo fa traducendo la tensione del narrato in una prosa dissonante, quasi disturbante, che mescola registri e visioni. Al fine di guidarci, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, verso un orizzonte in cui la salvezza riesce ancora a presentarsi come un concetto declinabile al futuro, una svolta possibile, perché, come sottolinea Pegorari, «in un’area del mondo ridotta a deserto è possibile una palingenesi del sacro e della dignità politica del vivente» (p. 216), affidata non al senno umano, bensì alla capacità della natura di prendersi una rivincita.

5. «La conoscenza liberata»

Nella parte conclusiva del testo, Pegorari offre una illuminante disamina del concetto di “empatia” – troppo spesso mortificato dalla retorica odierna –, che fu introdotto nel campo dell’estetica nel tardo Ottocento, circa un secolo prima che la neurologia approdasse alla scoperta dei neuroni specchio. Ai meccanismi dell’empatia attivati dalla letteratura, ci dice l’autore, va riconosciuto il merito di traghettare verso una più profonda conoscenza del sé, smascherando gli autoinganni. Ma, ci avverte anche, delle dinamiche dell’empatia dobbiamo pur sottolineare qualche limite, in primis quello di spingerci verso una semplificazione della realtà, che riusciamo a conoscere attraverso l’identificazione, dunque solo nella misura in cui riusciamo a ri-conoscerci in essa. L’arte, con il suo potere di sfruttare l’immaginazione per rendere esperibile anche l’inconsueto, lo stra-ordinario, è uno dei pochi mezzi che abbiamo a disposizione per oltrepassare il confine tra ri-conoscimento e conoscenza.

A vederla in questa prospettiva, la scelta di Calvino, Pasolini e Volponi non risponde a una logica celebrativa né a un canone precostituito: si tratta, piuttosto, di individuare tre modalità divergenti ma contigue di abitare la crisi, tre forme di sapere narrativo che si pongono come contro-narrazioni rispetto alla narrazione dominante. E infatti Pegorari non si limita a inseguire le tracce letterarie dei tre autori: dimostra come ciascuno di loro abbia elaborato una forma di conoscenza alternativa, marginale, a tratti profetica, a tratti distopica, a tratti utopica.

Ciò che accomuna i tre scrittori novecenteschi all’autore del volume che con loro si confronta è il rifiuto della resa: nel tempo della società amministrata, in cui la retorica manageriale colonizza anche la ricerca e la cultura, rilanciare la letteratura come forma di sapere resistente è un necessario atto di lucidità politica. Ed è proprio questo che rende La conoscenza amministrata un saggio arioso e vitale, un valido supporto per leggere i sottotesti del presente senza mai piegarsi sotto il peso della sfida alla complessità, che anzi affronta insieme al lettore, trascinandolo in una appassionante avventura critica.

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