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diretto da Romano Luperini

“Egregio Dottor Levi/Caro Signor Riedt …. Caro Primo/Caro Heinz”. Sul carteggio tra Primo Levi e Heinz Riedt

Dalle prime intestazioni delle due lettere nell’agosto del 1959 con le quali si avvia il carteggio tra Heinz Riedt traduttore e Primo Levi scrittore, alle seconde, trascorrono circa 6 anni. Nonostante la formalità, sin dall’inizio si notano segnali di apertura verso una relazione più amicale, testimonianza del progressivo avvicinamento di due uomini che, lo si avverte immediatamente, si piacciono e soprattutto sono curiosi l’uno dell’altro. I due sono persino coetanei: stesso anno 1919, quasi stesso mese – 31 luglio Levi, 20 agosto Riedt. Il passaggio definitivo al tu (Lettera 69 e 70) non fa che sigillare una cordialità affettuosa cresciuta nel tempo.

Il carteggio

Sono 132, per un totale di circa 60 scambi, le lettere che testimoniano l’interazione serrata tra Levi e il ‘suo’ traduttore Riedt da poco pubblicate nel volume Primo Levi. Il carteggio con Heinz Riedt,a cura di Martina Mengoni1, che nella sua prefazione (V-LI) – ‘quasi un libro nel libro’ commenta la critica letteraria Mariolina Bertini – ci accompagna nella ricostruzione di questo rapporto.

Il perché di questa scelta editoriale va di pari passo con il desiderio di Levi di ‘capire i tedeschi’:

«Non posso dire di capire i tedeschi» scrisse Primo Levi nella prefazione di Ist das ein Mensch?, la traduzione tedesca di Se questo è un uomo, pubblicata nel 1961. Era un’affermazione fondata: eppure, durante gli anni Sessanta (e anche più tardi), Levi mise in atto ogni sua capacità analitica, comunicativa e umana per raggiungere quello scopo. Una serie di nuovi elementi concorre a dimostrarlo: letture, incontri, confronti privati e pubblici, e persino il progetto di un intero libro, non realizzato, che raccogliesse tutte le lettere ricevute dai suoi lettori della Germania Ovest.

Ma quali sono i tedeschi che Levi vuole capire? Quelli responsabili del genocidio? O quelli che hanno continuato ad affermare, anche ‘dopo’, che ‘loro non sapevano niente’? O ancora quelli che, sopravvissuti alla sconfitta, hanno ripreso in mano la propria vita senza farsi troppe domande?

Quando Levi rivive, ne I sommersi e i salvati, le circostanze della richiesta di pubblicazione in Germania di Sqeuu (acronimo usato dallo stesso Levi in alcune corrispondenze) ne parla in questi termini:

Era venuta l’ora di fare i conti, di abbassare le carte sul tavolo. Soprattutto l’ora del colloquio. La vendetta non mi interessava. […] A me spettava capire, capirli. Non il manipolo dei grandi colpevoli, ma loro, il popolo, quelli che avevo visti da vicino, quelli tra cui erano stati reclutati i militi delle SS, ed anche quegli altri, quelli che avevano creduto, che non credendo avevano taciuto, che non avevano avuto il gracile coraggio di guardarci negli occhi, di gettarci un pezzo di pane, di mormorare una parola umana.

E quando alla fine degli anni ‘40, Levi decise di parlare di Auschwitz, e come lui Giorgio Bassani di Buchenwald, lo fece (come racconta sempre ne I sommersi e i salvati) scrivendo

in italiano, per gli italiani, per i figli, per chi non sapeva, per chi non voleva sapere, per chi non era ancora nato, per chi, volentieri o no, aveva acconsentito all’offesa; ma i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi. Ora l’arma era carica. […] Da soverchiatori, o da spettatori indifferenti, sarebbero diventati lettori: li avrei costretti, legati davanti ad uno specchio.

Sapremo poi che, nonostante i suoi innumerevoli tentativi, tra i quali si annovera la ripresa dello studio del tedesco a 60 anni presso il Goethe-Institut di Torino, quel bisogno di ‘capire i tedeschi’, e di comunicare con loro, rimarrà inevaso tanto da portare Levi ad ammettere di non esserci riuscito. E rispetto a questo fallimento sembrano avere un’eco consolatoria sia le parole dello stesso Riedt (Lettera 18): «Su un punto però temo di doverLa deludere: di trovare l’intimo movente del “carattere tedesco”; non l’ho trovato nemmeno io»;

sia quelle scritte da un’altra tedesca che pure corrispose a lungo con Levi, Hety Schmitt-Maass:

A capire ‘i tedeschi’, di sicuro Lei non ci riuscirà mai: non ci riusciamo neppure noi, poiché a quel tempo sono successe cose che mai, a nessun prezzo, avrebbero dovuto succedere. […] Ciò che assolutamente non ci è lecito, è dimenticare. Per questo sono importanti per la nuova generazione i libri come il Suo, che descrivono in modo così umano l’inumano (lettera del 18 ottobre 1966).

L’importanza di questa pubblicazione va dunque ben al di là dell’aspetto documentale riguardante il lavoro di traduzione e i relativi aspetti editoriali; leggere queste lettere significa anche cercare di attraversare i dilemmi esistenziali di Primo Levi. Perché non si tratta solo di uno scambio epistolare tra uno scrittore e un traduttore. È molto di più.

È un dialogare, che scorre come l’acqua di un torrente di montagna che rimbalza da una pietra all’altra, tra due uomini, non nel senso del genere, ma in quanto appartenenti al consorzio umano; è il Mensch nell’accezione più ampia di ‘persona’, ‘essere umano’ che si ritrova nel titolo tradotto di Se questo è un uomo: Ist das ein Mensch? dove il punto interrogativo, che manca nel titolo italiano, apre a orizzonti interpretativi diversi: incredulità, orrore, impossibilità di accettare o anche solo immaginare quanto viene raccontato dal protagonista, lui, Primo Levi.

L’8 giugno 1960 Riedt scrive:

Sono io che devo ringraziarLa non solo per la Sua grande e preziosa collaborazione alla traduzione, ma, spiritualmente, per aver “dato” anche a me questo Suo libro, queste Sue esperienze che – benché su un piano ben più grave – in fondo sono anche le mie, sono quelle di tante altre persone, di tanti che vogliono essere e rimanere ‘uomo’.

Le lettere

Nel corso dell’epistolario si assiste a una progressione rispetto ai contenuti: dall’attenzione minuziosa, ma mai pedante, alla resa in tedesco di singoli termini o espressioni di Sqeuu – vedi la citazione alla ‘collaborazione’ di cui sopra –, a una sempre maggiore attenzione e curiosità reciproche, che aprono ad una relazione più personale e intima. Sempre presente il confronto intellettuale sugli autori tradotti da Riedt, insieme alla richiesta di consigli e alla condivisione di esperienze, domande, suggerimenti, che rivelano a tratti una sorta di complicità, che rasenta quasi il tono di ‘congiura’ quando i due ragionano sulle case editrici, il loro versante mercantile – mercenario? – in tema di diritti letterari, radiofonici, teatrali e quant’altro (questi ultimi aspetti trattati soprattutto nella seconda e terza parte).

Riedt e Levi via via che il loro rapporto si consolida, cominciano a raccontare senza veli le proprie vicissitudini e partecipano l’uno alle vicende dell’altro con grande empatia e sincera apprensione. Come quando Riedt riferisce con toni drammatici della fuga precipitosa e inevitabile da Berlino Est (Lettera 36), mentre Levi a sua volta lo ragguaglia sulla visita in Polonia in occasione dei vent’anni dalla liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa: “[…] il Lager di Buna non esiste più. Auschwitz-centro è muto e freddo, neppure particolarmente squallido, anzi, in quei giorni (con 40000 visitatori!) più simile a una gigantesca Kermesse che a un luogo di ricordi dolorosi” (Lettera 65).

Che nascesse un rapporto di stima così solido non era scontato se pensiamo alle premesse, come riportate nella prefazione (Mengoni IX-XII). Levi infatti da subito chiede alla Fischer Verlag di essere reso partecipe attivo del lavoro di traduzione, sollecitando ‘a mo’ di campione qualche pagina della traduzione tedesca’. Alla lettura del ‘campione’ pur rispondendo con ammirazione: “la traduzione mi pare eccellente, ovvero elegante e fedele”, si riserva ‘tuttavia’di fare alcune osservazioni. Non è un vero e proprio ‘fare le pulci’, ma sicuramente Levi dispiega ‘scrupolo’, ‘interesse’ ma anche ‘divertimento’ – queste le parole di commento di Mengoni – verso tutti i livelli linguistici del testo a lui proposto. D’altra parte l’esperienza con le traduzioni non era stata delle migliori, considerando le modifiche effettuate non del tutto condivise da Levi stesso. Di quella in inglese – If This Is a Man di Stuart Woolf (Orion Press NY, 1959) – dirà: “è stata un po’ una delusione: ci sono molti errori di stampa e non solo di stampa, e la traduzione mi pare fedele ma nulla di più” (Lettera 6 e 8); di quella in francese – J’étais un homme di Michèle Causse (Buchet-Chastel Parigi, 1961) – “è stata una vera delusione: la traduzione è imprecisa, pigra e frettolosa, piena di lacune e di errori” (Lettera 30).

E per Levi il processo interpretativo legato alla traduzione è importante; ne scriverà ne L’altrui mestiere (1985):

L’autore che trova davanti a sé una sua pagina tradotta in una lingua che conosce si sente volta a volta, o a un tempo, lusingato, tradito, nobilitato, radiografato, castrato, piallato, stuprato, adornato, ucciso. È raro che resti indifferente nei confronti del traduttore, conosciuto o sconosciuto, che ha cacciato naso e dita nelle sue viscere: gli manderebbe volentieri, volta a volta o a un tempo, il suo cuore debitamente imballato, un assegno, una corona di lauro o i padrini.

Seguire l’interfacciarsi dei due su (quasi) ogni singolo termine e/o espressione, per quanto possa a volte rasentare i limiti della pedanteria, rimane una testimonianza dal vivo di come lavorano i traduttori e di come dovrebbe funzionare un interscambio tra loro e l’autore.

Dopo avere ‘esaminato’ le prime 74 pagine di traduzione inviate da Riedt, Levi commenta (Lettera 10)

la traduzione, come Le dicevo, mi pare molto buona, elegante e precisa. Purtroppo, non sono in grado di giudicarne ed apprezzarne appieno lo stile, perché il tedesco è una lingua terribilmente ricca e complessa: io non l’ho mai studiata sistematicamente, ed il poco che so l’ho imparato malamente in Lager.

Riedt e Levi: due ‘uomini’ non ordinari

Levi corrisponde in un bell’italiano dai toni sempre caldi, mentre Riedt scrive in una lingua per lo più corretta e scorrevole – d’altronde aveva vissuto a Napoli e a Palermo i primi anni della sua vita fino a 12 anni, a seguito del lavoro del padre, frequentando all’inizio la scuola pubblica italiana –, a volte (fin troppo) colta, a volte impreziosita da espressioni e termini lessicali raffinati, o almeno non di uso corrente, forse in virtù delle frequentazioni letterarie connesse alla sua attività di traduttore; un italiano insomma non proprio perfetto come invece lo definisce Levi quando nel 1959 la Fischer gli manda il Primo Capitolo di Sqeuu tradotto, insieme a “uno scritto del traduttore, in italiano perfetto” (Mengoni IX), un traduttore del quale ‘Levi conosce solo il nome, il cognome e la città di residenza’(Mengoni XII).

Ma chi è Heinz Riedt? Riedt è un ‘tedesco anomalo’ (così lo definisce Levi ne I sommersi e i salvati ), già solo per un padre oppositore del regime nazista e in quanto tale mandato in pensione in anticipo. Iscritto alla Gioventù Hitleriana gioco forza, vista la precaria situazione finanziaria familiare – per il timore che venisse revocato anche il misero vitalizio paterno, unica fonte di sostentamento –, in seguito recluta della Wehrmacht, dove viene impiegato come interprete in virtù del suo plurilinguismo, per poi finire riformato per presunti ‘motivi di salute’. Una volta arrivato a Padova con una borsa di studio, entra a far parte della Resistenza con il nome di Marino, continuando a fare quello che sa fare meglio: traduttore e interprete, ufficialmente per le SS ma con il compito di passare informazioni alla sua Brigata, la ‘Silvio Trentin’, comandata da Renato Otello Pighin, che sarà vittima in seguito delle SS, nello stesso periodo in cui Levi si trovava ad Auschwitz.

Tornato in Germania negli anni ‘50, dopo un periodo in Italia, Riedt comincia la sua carriera di traduttore letterario. Traduce Pinocchio e Rodari, si misura con autori quali Goldoni, che scrive in un linguaggio ‘stratificato’, o altri dalla prosa complessa e plurilingue come Gadda, e poi Ruzante, Sciascia, D’Arrigo, Calvino e altri ancora. L’ex partigiano Marino diventa Pan Rova, uno pseudonimo dal significato mai del tutto chiarito; la traduzione diSqeuu è la prima che firma con il suo nome vero.

Come accennato prima, Levi si confronta con lui su singoli termini ed espressioni, attingendo alle sue conoscenze, che dichiara essere ‘alquanto limitate’, della lingua tedesca. Questa è sia quella appresa sui manuali di chimica già al liceo e all’Università di Torino, dunque specialistica, sia quella appresa nel Lager, il c.d. Lagersprache/Lagerjargon, letteralmente ‘lingua/gergo del lager’, una parlata non proprio corretta dal punto di vista grammaticale, caratterizzata da un lessico spesso scurrile e mistificato, un vero e proprio mostro linguistico frutto di circostanze non meno mostruose.

Quella lingua lo aveva comunque salvato, perché gli aveva dato modo di capire e farsi capire in una situazione dove ogni giorno erano in gioco la vita e la morte.

Riedt non conosce né l’una, in quanto lingua tecnica, né l’altra, in quanto ‘gergo’ specifico, perché non ne ha esperienza diretta, e spesso si rimette ai suggerimenti di Levi, con il quale si consulta confrontando le rispettive esperienze linguistiche.

Grande è la preoccupazione di Levi, soprattutto nel caso della traduzione in tedesco, di arrivare a una precisione e chiarezza che non desse adito a dubbi di sorta:

io volevo che fosse, una restitutio in pristinum, una retroversione alla lingua in cui le cose erano avvenute ed a cui esse competevano. Doveva essere, più che un libro, un nastro di magnetofono.

Retroversione che è stata definita ‘traduzione al contrario’ visto che Levi ha scritto in italiano un libro che racconta la sua esperienza vissuta in ambito germanofono, per poi essere riportata nella lingua ‘di partenza’ ripulita degli aspetti più tecnici e gergali.

Per Levi, richiamare la propria esperienza della lingua del nemico, se da un lato risulta doloroso e lacerante, dall’altro mette in moto quel coraggio che il saggista e giornalista Ferruccio De Bortoli indica come necessario al mantenimento della memoria: «Coraggio dal punto di vista psicologico, perché ricordare e raccontare non è facile: rompi un tabù e apri il buco nero della tua esistenza, della tua essenza. Ci vuole coraggio ad aprire un file così doloroso. E ci vuole anche molta generosità e dignità di racconto».

La memoria

Affidarsi alla lettura di questo scambio epistolare tra due uomini che hanno in comune l’esperienza del nazionalsocialismo, l’uno in quanto ribelle al sistema – Riedt si defila dalla leva –, l’altro nella condizione di vittima, sempre vigile e disposto alla testimonianza, significa rispondere in primo luogo a un desiderio di conoscenza, di quella che fu per Levi l’esperienza di scrittura di Se questo è un uomo, e degli scritti successivi. La seconda parte (1962-66) e la terza (1967-68), in cui è suddiviso il carteggio, trattano infatti delle traduzioni de La tregua, premio Campiello 1963, a cura di Barbara e Robert Picht, considerata da Levi ‘di mediocre qualità’, e delle Storie naturali, Premio Bagutta 1967, ad opera dello stesso Riedt; in questa terza parte torna la modalità, già sperimentata, di un fitto e puntuale intercambio soprattutto sui termini più tecnici, accompagnato di nuovo da un sentito “grazie per le tue attentissime osservazioni” di Riedt a Levi (Lettera 105). Ma non solo.

Perché, oggi più che mai, il lavoro rigoroso di ricostruzione di questo epistolario – gli originali di Levi non esistono più: si è lavorato sulle copie carbone di carta velina o su fogli di recupero; più raramente erano disponinili minute manoscritte – ci mette di fronte alla necessità non solo di ricordare, nel senso di mantenere vivo nella memoria quanto è successo, ma di prendere atto che occorre fare qualcosa di più, riportandoci a quell’altro testo di Levi, quel Se non ora quando che invita a essere promotori e protagonisti attivi del proprio destino.

Perché ci sono tanti modi di ‘ricordare’ diversi dalla ‘pura e semplice’ commemorazione. Scrive Riedt il 27 giugno 1965 a Levi appena tornato da Auschwitz:

E a che pro tutte queste celebrazioni e commemorazioni che da parte di tutte le autorità di tutto il mondo mostrano pur sempre un diretto o indiretto fine di attualità politica interessata? E allora resignazione? Tutto ciò ‘non accadrà più’?

A Oldenburg, in Bassa Sassonia, dove sono cresciuti, frequentando le scuole locali, i miei figli, si svolge ogni anno la Erinnerungsgang che riattraversa in silenzio la strada percorsa dopo il pogrom della notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, dagli appartenenti alla comunità ebraica locale verso la prigione cittadina, la stessa ora e allora, per essere poi trasferiti al Lager di Sachsenhausen. La marcia, alla quale sono invitati tutti i cittadini, prende avvio da quella che fu la Caserma della Polizia nella piazza centrale del Mercato ed è organizzata ogni anno dagli studenti di una scuola superiore diversa. Il Motto (secondo l’accezione tedesca) della manifestazione è Erinnern heißt begegnen, ‘ricordare significa incontrare’, completata da altre espressioni:

die Begegnung mit der Vergangenheit l‘incontro con il passato

die Begegnung mit uns selbst l‘incontro con noi stessi

die Begegnung mit anderen l‘incontro con l’altro

E non è a caso che abbia voluto citare la manifestazione tedesca perché cos’è, se non un incontro, eine Begegnung, quello tra Levi e Riedt, nel senso più profondo del termine.

L’uomo Riedt, il traduttore – il tedesco – il partigiano Riedt con la sua cultura, la sua lingua, la sua storia, e soprattutto la sua profonda onestà, è di fatto il ponte che consente a Levi di attraversare lo spazio/tempo che lo porta dall’esperienza del suo internamento in lager al presente. Non è una riconciliazione, né una pacificazione con quegli anni e quelle circostanze, ma è l’opportunità di riprendere fiducia nel prossimo, nell’altro, anche tedesco.

Bibliografia

Primo Levi, Il carteggio con Heinz Riedt, a cura di Martina Mengoni, Letture, Einaudi, To 2024

Martina Mengoni, Primo Levi e i tedeschi, Einaudi, Torino 2017

Martina Mengoni, Le parole degli altri. Heinz Riedt, in Carrattieri Mirco, Meloni Iara (a cura di) Partigiani della Wehrmacht. Disertori tedeschi nella resistenza italiana. Tracce scoperte, Le Piccole Pagine, Piacenza 2021, 143-162.

1 Martina Mengoni ha convogliato le sue ricerche di anni sulle relazioni tra Levi e i tedeschi nel portale www.levinet.eu, che intende presentare l’edizione digitale, in modalità open access online, bilingue italiano/inglese, di una sezione finora inedita dei carteggi di Primo Levi, che conta circa 500 lettere con più di 50 lettori e interlocutori, per lo più di lingua tedesca e germanofoni, che erano entrati in contatto con Levi dopo la pubblicazione di Se questo è un uomo in tedesco nel 1961. Il carteggio con Riedt è la prima uscita editoriale. Inoltre il portale prevedere una timeline, successivi approfondimenti e mappe tematiche. Correlata strettamente al progetto, la mostra Giro di posta. Primo Levi, le Germanie, l’Europa inauguarata il 24 gennaio e aperta fino al 5 maggio 2025, a Palazzo Madama a Torino, curata da Domenico Scarpa e promossa dal Centro Primo Levi.

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