
La scrittura come un coltello: la lama per incidere nella realtà
Il libro-intervista: un esame di coscienza letteraria
«Vivere per esistere, forse? […] L’esistenza pura e semplice non gli era mai bastata; aveva sempre voluto qualcosa di più». Annie Ernaux cita Raskol’nikov per parlarci della sua scrittura e del mandato per il quale sente di essere nata: andare «il più lontano possibile, anche senza sapere dove» (p. 145). In questa ricerca dell’oltre, la scrittura è un «mezzo di conoscenza» irrinunciabile: «piatta», «pericolosa», o affilata «come un coltello», è la sua missione per la verità.
Di questo ci parla il libro-intervista, La scrittura come un coltello, che Ernaux ha condiviso con Frédéric-Yves Jeannet – scrittore messicano di origine francese –, uscito in Italia per L’orma editore, nella traduzione di Lorenzo Flabbi, a novembre 2024, ma già pubblicato in Francia da Gallimard nel 2011. Una «lunga intervista al singolare» – preceduta da una premessa di entrambi gli interlocutori, e conclusa con un aggiornamento della scrittrice del 2011, dopo il successo de Gli anni, e da un’appendice del traduttore – che Ernaux e Jeannet hanno realizzato attraverso uno scambio di mail avvenuto tra il 2001 e il 2002.
Pur ammirando «tanto» il lavoro di Annie Ernaux, Frédéric-Yves Jeannet ci tiene a sottolineare la distanza con la scrittrice: «Spesso sentiamo il richiamo degli antipodi, dell’altro polo» (p. 7), perché la lettura e la ricerca condotta da altri possono nutrirci, «salvarci dal processo tortuoso e tormentato della scrittura, dandoci così la forza di continuare» (p.7). O, come riconosce Ernaux, possono contribuire a una maggiore libertà di espressione: «le differenze dei nostri rispettivi percorsi mi sono apparse come un’opportunità, una sorta di garanzia» (p. 11). Del resto è nella diversità di punti di vista che è più facile forzare un «passaggio» per esplorare l’altrove e dirigersi verso «Una verità, forse: la nostra» (p.9).
La verità che cerca di raccontare questo libro è quella di chi ha soltanto l’esistenza e sente «che non è abbastanza» (p. 145), ma vede nella scrittura l’ultima risorsa per favorire una presa di coscienza critica della realtà socio-politica contemporanea e dei pericoli incombenti. È qui che si incontrano i due interlocutori, nel tentativo di Jeannet di «far esprimere a Annie Ernaux le motivazioni profonde e le circostanze del suo modo di essere scrittrice» (p. 8), e nella passione con cui lei partecipa a questo «esame di “coscienza letteraria” esigente e completo» (p. 147).
Un nuovo modo di scrivere: l’auto-socio-biografia
Le domande di Jeannet, sempre precise e puntuali, offrono l’arma con cui affondare nella realtà delle cose, consegnano a Ernaux la lama del coltello necessaria per compiere questa indagine sulla scrittura e su se stessa. Lo stesso ruolo che Kafka affida all’amata Milena, «forse non è vero amore se dico che tu mi sei la cosa più cara; amore è che tu sia per me il coltello con il quale frugo dentro me stesso», corrispondenza difficile da ignorare, soprattutto se si tiene conto che lo scrittore boemo, rivolgendosi alla donna amata, non allude esclusivamente al desiderio amoroso nei suoi confronti, ma alla volontà di rivelarsi senza riserve, di denudarsi delle convenzioni per ritrovarsi e riconoscersi più vicino alla propria verità. Anche la scrittura di Ernaux è al servizio di questa ricerca, e tanto più è asciutta, fino a farsi «clinica», tanto più diventa parte integrante di questa esplorazione della «realtà esterna o interna, dell’intimo e del sociale in un unico movimento che si colloca al di fuori della finzione» (p. 34). Non si preoccupa, Ernaux, della bellezza formale della sua scrittura, preferisce assecondare l’esigenza di un’esattezza assoluta, l’«impietosa precisione» che nasce dall’urgenza di raccontare senza censure o limiti, rinunciando a tutti i “fronzoli” della bella forma. È, la sua, una scrittura «pericolosa», violenta, che lascia il segno per la sua crudezza fatta di parole essenziali che spingono la narrazione fino a limiti estremi, ma che insegue anche la semplicità, prendendo le distanze da patetismi o lirismi che perdono di vista la realtà. Semmai – scrive il traduttore Flabbi in una nota in chiusura – la «scrittura piatta» di Ernaux si fa lirica perché le parole, i termini tecnici, o le espressioni in argot «emergono dalla pagina e ti afferrano alla gola, restandoti impressi nel cuore» (p. 159).
Oltre a mettersi a nudo, la scrittrice dichiara di cercare una verità al di fuori della sua persona, e di volerla condividere come un atto politico. Si realizza, così, quello che lei definisce una «transustanziazione», cioè la trasformazione di ciò che è soggettivo e legato al vissuto personale, in una realtà che esiste al di là di noi stessi. È la perdita del sé nella fusione con la collettività, nel plurale del “noi”, ed è anche il presupposto di un nuovo genere letterario e di una nuova maniera di scrivere che deve tutto ad Ernaux: l’auto-socio-biografia, cioè usare la propria soggettività per individuare e svelare fenomeni collettivi. Parlandoci del suo io ci parla del suo tempo, attribuisce cioè alla propria autobiografia, e a ciò che racconta, un valore collettivo, scelta ambiziosa e degna probabilmente soltanto della grande letteratura, di chi, come Ernaux, ha un’idea alta dell’arte e allo stesso tempo accessibile.
La letteratura come attività politica
Dietro la lingua piana e semplice c’è, in effetti, una precisa scelta personale, e anche una presa di posizione politica e sociologica. La scrittrice vuole comunicare, e per farlo sceglie la «lingua dei dominati», cioè quella dei suoi genitori e della sua classe sociale d’origine: «Porto nella letteratura qualcosa di duro, pesante, persino violento, legato alle condizioni di vita, alla lingua del mondo che è stato in tutto e per tutto il mio fino ai diciott’anni, un mondo operaio e contadino. Di nuovo, e sempre, qualcosa di reale» (p. 33). Scrivere ricorrendo alla écriture plate è un’attività politica, un modo per contribuire al disvelamento e al cambiamento del mondo, ma anche un tentativo per espiare il senso di colpa per avere modificato classe sociale. Quello della colpa è un sentimento che percorre in modo latente tutte le sue opere, e che si trasforma nella vergogna alla quale dedica persino un intero libro: La honte, appunto. Tuttavia, poiché la scrittura, scrive Ernaux, è «quanto di meglio io possa fare», la sua letteratura è interpretabile soprattutto come un «dono» da offrire, un risarcimento per il “tradimento” che sente di avere compiuto approdando ad una classe sociale più agiata di quella d’origine, e diventando, così, una «transfuga di classe», concetto acquisito dalla sociologia critica di Pierre Bourdieu, «il più grande intellettuale degli ultimi cinquant’anni» (p. 68). In questa prospettiva, l’ascesa sociale dello scrittore è vista come un tradimento che può essere riparato solo celebrando il più fedelmente possibile l’ambiente originale, restituendo, cioè, una dimensione collettiva dell’esistenza, sottraendola a logiche fataliste e rivelandone, invece, i meccanismi di riproduzione dell’ordine sociale. Quella di Ernaux è dunque un’autobiografia sociologica, e il mandato della sua letteratura, conclude Flabbi, è quello di «mostrare come e quanto tutti noi siamo il frutto di precise determinazioni e condizioni sociali».
La scrittura come un coltello ha il merito di avvicinarci alla letteratura di Annie Ernaux, di comprendere da vicino le motivazioni e le riflessioni che accompagnano, o presiedono, l’attività di scrittura, rendendoci consapevoli di uno stile letterario originale e coraggioso al tempo stesso. Con questa ultima pubblicazione italiana ci troviamo di fronte ad una scrittrice che non ha ancora pubblicato il suo capolavoro, Gli anni, e non ha ancora ricevuto il Nobel, eppure le sue parole rivelano già la consapevolezza letteraria e la determinazione dei più grandi successi editoriali. C’è tutta Annie Ernaux in queste pagine, c’è la sua rivoluzione letteraria e c’è il dolore insito nel gesto della scrittura. Perché scrivere significa tornare indietro nel tempo, affrontare il conflitto tra il passato e il presente e riportare in superficie il dolore di ciò che è andato perduto. La scrittura è infatti una lotta continua con il proprio passato e con le ferite che questo porta con sé, ma «scrivere è [anche, e soprattutto] l’ultima risorsa quando abbiamo tradito».
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