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diretto da Romano Luperini

La guerra di Gaza: un percorso per la secondaria di primo grado

Da dove partire?

Nella drammatica storia della regione mediorientale l’attuale evoluzione del conflitto israelo-palestinese nell’operazione unilaterale “Spade di Ferro” si configura ormai come qualcosa di assolutamente inedito. Ciò vale a ben guardare anche per l’attentato terroristico di Hamas del 7 ottobre — che chiunque, almeno dal fronte dell’opinione pubblica occidentale, avrebbe considerato irrealizzabile, sia per la ferocia che lo ha caratterizzato, sia per le modalità operative con cui è stato attuato — e vale ancor di più, come detto, per la reazione (che è termine da usare con cautela in questo contesto) di Israele, poiché la violenza che si sta perpetrando nei confronti della popolazione civile, come è ormai opinione diffusa perfino nel dibattito pubblico italiano, eccede di gran lunga la misura della logica di guerra più crudele e perversa. Al 20 gennaio 2024 il numero delle vittime palestinesi a Gaza è arrivato a 24.927 (fonte: La Stampa). Per dare la proporzione di quanto sta accadendo si può incidentalmente ricordare che le vittime palestinesi della prima Intifada furono circa  1.100. Più ancora oggi, pur non essendo certo una novità lo spostamento coattivo della popolazione palestinese, le recenti notizie relative alle presunte trattative segrete tra Israele e il Congo (ma non solo) per il trasferimento dei profughi palestinesi, di là dalle smentite ufficiali del governo israeliano, tradiscono intenzioni tanto inquietanti quanto inequivocabili. Di fronte al quadro, che subito ha iniziato a delinearsi nella sua gravità, la decisione di portare questo tema in classe, all’attenzione di persone in crescita, anche molto giovani — nel caso specifico alunni della classe terza della secondaria di primo grado — apre innumerevoli interrogativi rispetto ai quali, nell’illustrazione di questo percorso didattico, si tenterà di elaborare possibili risposte, per quanto inevitabilmente manchevoli. Il primo interrogativo riguarda proprio l’opportunità di affrontare il tema, o per meglio dire la stessa praticabilità di un percorso sulla questione israelo-palestinese oggi. Possibilità messa a rischio da una molteplicità di fattori. In primo luogo la complessità della questione, i tratti inediti di cui si è detto, e il fatto di affrontarla, inevitabilmente, da un punto di vista non solo parziale, ma esterno e occidentale. La situazione attuale pone inoltre un problema ulteriore, che riguarda la trattazione del conflitto da parte dei mezzi di comunicazione di massa, con tutte le distorsioni e parzialità del caso, distorsioni che, sotto alcuni aspetti, rispetto all’attività di classe, rappresentano delle vere e proprie interferenze, con le quali si deve mettere in conto di avere a che fare. Anzi, la proposta didattica può funzionare solo se la comprensione degli attuali limiti dell’informazione giornalistica rispetto a quanto sta accadendo diventa essa stessa obiettivo del percorso. Come è già stato messo in evidenza in questo blog si tratta di rispondere a un’istanza etica, che riguarda non solo l’insegnante, la sua storia, la sua sensibilità, la sua stessa idea di insegnamento, ma un principio basilare di umanità. L’impossibilità di tacere. Eppure, paradossalmente, è vero anche il contrario, e cioè che di fronte all’immanità di ciò che si sta consumando parlarne, senza sentirsi parte in causa e fortemente implicati, potrebbe suonare oltremodo irriguardoso. Dunque che fare? Alla fine, nonostante le perplessità, ho deciso di aprire il discorso in classe — tanto più che ho sempre diffusamente affrontato in terza media la questione israelo-palestinese — a patto però di dedicare al tema il tempo che naturalmente si sarebbe imposto come necessario. 

Carte alla mano

Il percorso è iniziato nei giorni immediatamente seguenti l’attentato del 7 ottobre. Si è iniziato ricostruendo la cronaca dell’attentato, cercando di chiarire cosa distingue un’azione militare da un attacco terroristico e spiegando ai ragazzi che l’attentato di Hamas è un episodio efferato da inserire nella lunga storia di un conflitto ormai secolare. La classe aveva già avuto un inquadramento della regione con l’insegnante di geografia, ma non conosceva nel dettaglio la storia della costituzione dello stato di Israele, né la situazione dei territori mediorientali durante il mandato britannico. Nella ricostruzione storica ho deciso quindi di partire da qui, utilizzando le carte elaborate dalla rivista Limes, non per inquadrare la questione in un’ottica geopolitica (ottica che pure ha un suo peso ma che non è certo adatta ad alunni di terza media), ma perché essendo ben realizzate e leggibili, sia pure con qualche sforzo, risultano visivamente molto efficaci. La prima carta utilizzata mette a confronto la situazione territoriale della regione durante il mandato britannico, con il piano di partizione Onu del 1947 e, infine, con la situazione nel 1949, all’indomani della prima guerra arabo-israeliana. La carta consente di verificare l’ampliamento dei territori israeliani rispetto a quanto previsto dalla risoluzione 181, con il contestuale passaggio della Cisgiordania alla Transgiordania e di Gaza all’Egitto. La seconda carta utilizzata mostra l’evoluzione territoriale della regione dalla Guerra dei sei giorni alla pace di Camp David, con la conseguente occupazione israeliana di Gaza e Cisgiordania. Sono state poi utilizzate due carte più recenti, di Gaza e della Cisgiordania. La prima carta mostra la situazione della Striscia i valichi praticabili, i muri di protezione attorno e il limite di pesca per i palestinesi fissato a 20 miglia nel 1995, limite di fatto mai concesso da Israele. La seconda carta illustra la situazione interna della Cisgiordania e di Gerusalemme, distinguendo chiaramente in legenda gli sparuti territori sotto il controllo diretto palestinese, quelli sotto occupazione di Israele, quelle a controllo misto, le aree di annessione isaeliana e gli insediamenti coloniali, restituendo l’immagine plastica di un territorio polverizzato. Le carte, che sono tracciate tenendo conto dei principali eventi bellici della regione, sono state messe in relazione con i fatti politici più significativi: la genesi del movimento sionista; la costituzione dell’OLP; la prima Intifada; la nascita di Hamas; l’avvido del processo di pace e gli accordi di Oslo; l’assassinio di Rabin; la seconda Intifada. La classe è poi stata divisa in coppie che per alcune lezioni hanno lavorato all’elaborazione di un testo di riepilogo, condividendo gli appunti e utilizzando le carte proiettate e che sono state condivise anche su Classroom. Ogni testo è stato da me revisionato e sono stati segnalati tutti i punti incongrui o manchevoli di informazioni essenziali dopo di che ciascuna coppia ha rielaborato il proprio testo con la mia consulenza e utilizzando una cronologia essenziale dei fatti da me fornita. 

Due storie per continuare… 

La conoscenza, per quanto inevitabilmente sommaria, dei principali fatti storici della regione rappresenta senza dubbio un momento obbligato, che tuttavia non conduce di per sé al cuore del problema sul piano didattico. Trattandosi di alunni tredicenni è stato essenziale fornire loro delle storie — verosimili ma non vere — che dessero forma concreta ai termini del conflitto, attraverso situazioni, sentimenti, emozioni, stati d’animo in qualche modo processabili, riportando a una misura umana, per quanto drammaticamente umana, fatti altrimenti comunicabili solo come freddi accadimenti. Del resto il problema della spersonalizzazione del popolo palestinese è un dramma psicologico nel dramma. Da ultimo, mentre molti tra i tg nazionali ricostruiscono giustamente le biografie degli ostaggi israeliani, definendone origine e identità, niente di simile accade per le vittime palestinesi. Dare a entrambe le parti la consistenza di esseri umani, come pure ai luoghi quella dei paesaggi, mi è sembrato fondamentale. Non mi sono posta il problema della provenienza degli autori, quanto quello della loro onestà intellettuale e soprattutto dell’utilità didattica delle storie nell’ambito del percorso. Ho iniziato con la visione del film Il figlio dell’altra, di Lorraine Lévy, regista francese di origini ebraiche (del cast e della troupe facevano parte palestinesi, israeliani e francesi). Il film racconta la storia di due ragazzi, Yacine palestinese e Joseph israeliano, che a causa della caduta di un missile sull’ospedale in cui hanno partorito le rispettive madri, sono stati scambiati quando erano neonati e si sono quindi trovati a vivere ciascuno la vita dell’altro, fino a che Joseph non deve partire per il servizio di leva obbligatorio. Dalle analisi del sangue, il suo gruppo sanguigno non risulta compatibile con quello dei genitori. Di lì gli approfondimenti che svelano l’errore. È l’inizio di un percorso difficile, non solo per i ragazzi, la cui vita è minata nella propria identità — «Sono il mio peggior nemico ma devo volermi bene lo stesso» dice Yacine a Joseph — ma anche per le rispettive famiglie, in particolare per i padri che si misurano con l’impossibilità di accettare la situazione. Anche se non si tratta di un documentario il film, ambientato negli anni della seconda Intifada, restituisce anche con grande efficacia la sproporzione che esiste tra le condizioni di vita di Tel-Aviv e la Cisgiordania e le limitazioni della libertà cui è sottoposta la popolazione palestinese, situazione oggi ulteriormente degenerata anche in Cisgiordania rispetto al perido di ambientazione del film. Il secondo materiale utilizzato è stato il libro per ragazzi Una bottiglia nel mare di Gaza, della scrittrice francese Valeri Zenatti. Tal, una ragazza israeliana, decide di indirizzare una lettera a una ragazza palestinese di Gaza. Figlia di due israeliani pacifisti, vuole a tutti i costi dimostrare a sé stessa che è possibile costruire un dialogo tra i due popoli. Chiude la lettera in una bottiglia e chiede al fratello, che sta svolgendo il servizio militare proprio a Gaza, di gettarla in mare. Il fratello l’abbandona sulla spiaggia, dove la trova però un ragazzo, Naïm, che risponde in modo sarcastico e provocatorio alla lettera. Inizia così uno scambio di mail, i cui toni duri pian piano lasciano il posto a un confronto intimo e profondo, in cui i ragazzi si raccontano la loro vita quotidiana, inesorabilmente segnata dal conflitto, le loro ragioni, la loro stanchezza. Siamo anche qui negli anni della seconda Intifada, Tal è testimone di un attentato terroristico a un autobus, Naïm subisce il peso insostenibile dell’occupazione militare di Gaza. Entrambe le storie, quella del film e quella del libro, consentono di osservare il conflitto da entrambi i punti di vista, le conseguenze concrete sulla vita delle persone, pongono i personaggi specularmente l’uno di fronte all’altro. Mi è sembrato questo, e cioè il reciproco riconoscimento, un altro passaggio obbligato del percorso, specie perché in entrambi i casi le storie si concludono con la costruzione di un legame affettivo tra i protagonisti. Il dialogo e la pace come orizzonte di senso, come unica possibilità di vita vera. 

Tornare alla realtà

Questa fase del lavoro si è conclusa con attività di scrittura nell’ambito delle quali i ragazzi hanno assunto via via il punto di vista dei personaggi delle storie, componendo pagine di diario e lettere. Successivamente si è riaperto il tema del confronto con la stretta attualità e ho chiesto quindi ai ragazzi di guardare i tg o di informarsi attraverso testate giornalistiche sull’evoluzione della situazione. Ho volutamente deciso di non dare indicazioni su quale mezzo di informazione consultare ma ho ampiamente avvertito rispetto alla possibilità di imbattersi in ricostruzioni faziose. Mi ha confortato constatare che in alcuni casi i ragazzi lo hanno riconosciuto da soli. Due volte a settimana due volontari a rotazione hanno relazionato sul telegiornale. Era richiesto loro di saper connettere quanto ascoltato ai tg o letto online ai dati di contesto affrontati in apertura del percorso e alle vicende narrate nel film e nel libro. È stata questa la parte più ostica, a dimostrazione della difficoltà di orientarsi per ragazzi così giovani in un quadro tanto complesso. Ho deciso quindi di strutturare meglio l’attività e di prendermi ancora del tempo, chiedendo a tutti, e non solo a coloro che dovevano relazionare, di documentarsi nei giorni prefissati, in modo da arricchire il confronto. Nel frattempo, nell’ambito di una verifica, ho raccolto le opinioni dei ragazzi sul conflitto. La consegna chiedeva di spiegare per quale motivo a loro avviso il conflitto israelo-palestinese non si risolve e quale soluzione sarebbero loro in grado di prospettare. Le opinioni sono state esposte talvolta in modo rozzo e superficiale, constatazione che ha quindi imposto di proseguire con l’attività del telegiornale, soprattutto in ragione del fatto che il conflitto si è presto trasformato in un’azione militare unilaterale di proporzioni gigantesche. In tal senso, le stesse categorie o i dati di riferimento forniti nella parte iniziale del percorso sono parsi via via insufficienti. Dalle opinioni degli alunni, infatti, è emerso prevalentemente un atteggiamento di equidistanza, in cui anche se confusamente si riconoscevano le ragioni di ciascuna parte, ma non si individuavano con chiarezza le responsabilità. Ho quindi riportato su Classroom, riorganizzandole dopo averne parlato con gli alunni, quattro delle opinioni espresse nella verifica: 

1) il conflitto israelo-palestinese al momento appare irrisolvibile. Entrambe le parti sono accecate dall’odio. Hamas continua a compiere attentati terroristici e Israele continua a rispondere bombardando i territori palestinesi. L’unico modo per risolvere la questione è che sia affrontata a tavolino da parte di persone che sono veramente intenzionate a collaborare per la pace;

2) il conflitto israelo-palestinese non si risolve perché questi due popoli sono divisi per ragioni culturali e religiose dalla notte dei tempi. Dal momento che finora si sono uccisi a vicenda, una soluzione potrebbe essere quella di consentire ai palestinesi di studiare e lavorare più agevolmente in Israele in modo che i due popoli possano conoscersi meglio e costruire una fiducia reciproca che gli consenta di vivere insieme in un unico stato;

3) il conflitto israelo-palestinese non si risolve perché i palestinesi in pratica sono chiusi dentro dei recinti e trattati come animali. Non possono spostarsi, non possono uscire senza il permesso di Israele. Una soluzione potrebbe essere quella che i palestinesi cedano i territori che interessano a Israele e Israele ceda i territori che interessano ai palestinesi;

4) il conflitto israelo-palestinese non si risolve perché Israele occupa le terre che spettavano ai palestinesi e perché dopo l’assassinio di Rabin il processo di pace si è fermato. L’unica soluzione è la creazione di uno stato palestinese. 

Nel file di Classroom ho segnato in rosso, per ogni opinione, i punti di debolezza del ragionamento, quelli palesemente infondati o i luoghi comuni, segnalando quali informazioni cercare per eliminarli. Ad esempio nell’opinione 2) ho segnalato l’affermazione «questi due popoli sono divisi per ragioni culturali e religiose dalla notte dei tempi» e ho chiesto di cercare informazioni in merito alla convivenza tra i due popoli prima e durante il mandato britannico. Ciascun alunno della classe, infine, ha dovuto scegliere una delle quattro opinioni e cercare materiali e dati a sostegno e, come detto, materiali che consentano di ridimensionare i punti di debolezza. Al termine di questa attività si sono costituiti quattro gruppi che hanno lavorato internamente per argomentare la propria opinione. Successivamente i gruppi si dovranno confrontare con gli altri.  

Conclusioni

Gli esiti di questo percorso, per forza di cose in divenire, sono ancora tutti da verificare, in primo luogo perché è estremamente difficile restituire alla classe la salienza di quanto sta accadendo in un panorama globale periodicamente funestato da conflitti e catastrofi. Per questo ho ritenuto che in conclusione un’attività di ricerca orientata dall’insegnante ma in certa misura libera possa essere la chiave, almeno per gli alunni che affronteranno il compito seriamente, per ridefinire opinioni troppo genericamente critiche nei confronti della guerra, consentendo loro di uscire dalla retorica e di prendere posizione sulla base dei fatti e della storia.

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