Il 2 gennaio un raid di Israele ha colpito un palazzo a Beirut uccidendo fra gli altri Saleh al Arour, numero 2 di Hamas. Omicidi mirati, li chiamano. E infatti un giorno dopo l’altro raid israeliani raggiungono e uccidono con una stupefacente efficienza tecnologica i dirigenti di Hamas. Evidentemente il servizio segreto israeliano è in grado di conoscere tutti i movimenti di Hamas. Ma allora come ha fatto Hamas a prendere di sorpresa gli israeliani il 7 ottobre, massacrandone centinaia e prendendone in ostaggio altre centinaia con una azione terroristica che ricalca quella dell’ISIS a Parigi qualche anno fa (anche lì c’era una festa a cui partecipavano molti giovani)? Perché l’efficientissimo servizio segreto israeliano ha ignorato il rischio di un attacco, di cui era stato informato, che è stato preparato per parecchi mesi e che coinvolgeva forze terresti, navali e aeree? E perché pochi giorni prima del 7 ottobre Netanyahu aveva fatto spostare le truppe israeliane dal confine da cui si è sviluppato l’assalto del 7 ottobre alla frontiera con la Cisgiordana? Tutto lascia pensare che il premier israeliano abbia agito per puntellare con una guerra il suo ormai incerto potere, scosso dalle manifestazioni di massa contro le sue proposte legislative.
A lasciare interdetti e sconvolti, poi, sono le proporzioni della vendetta israeliana. Se i bambini uccisi da Hamas erano stati forse duecento, quelli palestinesi morti sotto i bombardamenti sono più di duemila; se gli israeliani morti il 7 ottobre erano qualche centinaio, quelli palestinesi sono ormai diverse migliaia. E’ una logica che conosciamo bene perché somiglia maledettamente a quella nazista. Un israeliano morto “vale” dieci, cento, mille palestinesi uccisi? I morti non si contano, dicono, ma a certi livelli la quantità diventa qualità, offusca la vista, diventa terrore.
Attenzione, però. Non è in questione solo un atto umanitario, comunque necessario. Bisogna prendere posizione per la Palestina perché si tratta si contrastare un preciso progetto politico. Da parte di Netanyahu e di un gruppo di dirigenti israeliani è in atto infatti il tentativo – già previsto e descritto da Edward Said (La questione palestinese, Il Saggiatore, Milano 2011) – di sostituire un popolo con un altro, e di cacciare i palestinesi dalla loro terra e dall’originaria maggioranza araba (vecchio e sempre nuovo programma sionista) privandoli del loro territorio , della loro cultura e della loro stessa identità.
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Come ho avuto modo di osservare nella polemica che è intercorsa fra me e la redazione, ad essere chiamato in causa era l’atteggiamento di fondo rispetto alla questione palestinese e alla “pulizia etnica” tendenzialmente genocida attuata dallo Stato israeliano. La realtà è una maestra severa e in genere non concede esami di riparazione. Vedo però con piacere che con questo articolo Romano Luperini si è preoccupato di correggere il tiro rispetto a prese di posizione di tutt’altro tenore, e plaudo a tale correzione.
Gentile Barone, lei continua a mescolare indebitamente il piano didattico e il piano politico. Ha mosso un’accusa di aberrazione ideologica a un pezzo che era un pezzo didattico. In classe non si entra per impartire il Verbo, ma per aiutare a ragionare, e lo si può fare in molti modi leciti. Pertanto né il pezzo “Vi spiego la questione israelo-palestinese” poteva essere interpretato, come lei ha fatto, per una presa di posizione politica della redazione, né questo pezzo di Romano Luperini corregge quello.
Cordiali saluti,
Daniele Lo Vetere (per la redazione di LN)
Caro Vetere, la separazione tra la didattica e la politica, che Lei curiosamente rivendica, è una classica istanza della destra liberale. Ma davvero Lei pensa che la didattica e la politica non debbano essere, per citare il verbo che Lei usa, “mescolate”? La didattica è politica e la politica implica una didattica, sicché entrambe sono facce inseparabili della stessa medaglia. È pur vero che sono distinte, ma in nessun modo separate: come la mano destra e la mano sinistra. Forse Le è sfuggito – e in tal caso La invito a leggerlo –l’estratto, pubblicato proprio su questo sito, del bel libro di Lorenzo Tommasini, “Educazione e utopia. Franco Fortini docente a scuola e all’università”. Sennonché, quando si afferma, come se si trattasse di una verità di per se stessa evidente, che “in classe non si entra per impartire il Verbo”, si dimentica che in questo paese, e segnatamente nella scuola di questo paese, la Costituzione italiana è il “Verbo”, ossia l’insieme dei valori che devono ispirare, fecondare ed orientare quell’azione educativa che la scuola e tutti coloro che vi operano, a cominciare dai docenti, sono chiamati ad esplicare. Dunque, nessuna “mescolanza” od “aberrazione”, ma un fermo richiamo e al carattere non “neutrale” della didattica (fondamentale acquisizione del tanto vituperato Sessantotto) e ad una scelta di solidarietà internazionale con il popolo palestinese che, accomunando un numero crescente di docenti della scuola e dell’università, non può non vedere schierato dalla parte giusta anche il gruppo di intellettuali che gestisce questo sito.