Una chiave di accesso agli anni Ottanta: I lupi dentro di Edoardo Nesi
Era tutto chiaro, tutto già deciso.
Avremmo fatto gli stessi lavori dei nostri babbi, nelle ditte o nei negozi o negli studi dei nostri babbi. Ci si sarebbe sposati, si sarebbero fatti i quattrini e avremmo mandato i figlioli a giocare a tennis allo Sporting, al liceo e poi magari a fare l’università in America. Avrebbero viaggiato loro, cambiato vita loro, non noi. Noi s’aveva da goderci quello che ci era toccato: i soldi, la libertà, il divertimento e il futuro che non finiva mai.
Non era una rinuncia o una sconfitta, sia chiaro. A Prato c’era tutto il meglio del meglio: vestiti, gioielli, orologi, automobili. Volendo c’era verso di spendere come a Sankt Moritz, a Londra, a Parigi e a New York. A Natale arrivavano il salmone migliore del mondo, il caviale migliore del mondo, lo champagne migliore del mondo, il whisky migliore del mondo. Si aveva tutti il Rolex, e le nostre fidanzate le borse di Prada e di Chanel. (E. Nesi, I lupi dentro, p. 176)
Per una serie di coincidenze che forse non sono tali, mentre la Rai sceglieva di mandare in onda il documentario “People from Cecchetto” come testimonianza dei “favolosi” anni Ottanta e Novanta del secolo scorso da riproporre non in salsa nostalgica alla “Sapore di mare” ma come modello archetipico di un nuovo Rinascimento italiano (mala tempora currunt…), finivo di leggere il romanzo che Edoardo Nesi ha pubblicato a settembre per La nave di Teseo, dal titolo I lupi dentro (omaggio a Jim Morrison ma che diventa metafora plastica di quei decenni), che rappresenta il romanzo conclusivo del suo ciclo dedicato alla provincia italiana (nella fattispecie, Prato) iniziato nel 1995 e snodatosi in otto episodi.
La coincidenza spinge a riflettere su come la letteratura possa fornire utili chiavi di accesso alla lettura di un periodo che, alla luce di quanto avvenuto poi, rappresenta il punto di non ritorno di quella mutazione antropologica iniziata nel periodo del primo boom industriale del dopoguerra e che solo negli anni Ottanta, dopo la “sbornia” ideologica degli anni Sessanta e soprattutto Settanta, ha definitivamente sdoganato una nuova società italiana, impregnata di quello che, con la felice definizione data in tempo reale da Roberto D’Agostino, è passato alla storia come “edonismo reaganiano” e i cui nefasti effetti sembrano non voler ancora svanire.
Federico Carpini, “l’ultimo eroe italiano”
I lupi dentro fa da pendant al libro che ha dato a Nesi il premio Strega nel 2011, Storia della mia gente. Stessa ambientazione, stesso argomento, stessa atmosfera, persino qualche ripetizione onomastica: ma lì Nesi sceglie la strada del memoir autobiografico, ibridando i generi ma sostanzialmente astenendosi dal romanzo e omaggiando in modo indiretto uno dei suoi modelli letterari (apertamente citata), Joan Didion, con il risultato di un libro amaro, scritto in prima persona, a metà fra il pamphlet e il risentito bilancio aziendale (non sempre equilibrato, in verità). La materia, che lì assume contorni indefiniti e magmatici, trova ordine invece nel romanzo, che assolve così uno dei suoi compiti principali, quello di dare –grazie all’uso della terza persona che allontana i rischi di un autobiografismo troppo scoperto– kosmos al chaos.
I lupi dentro è ambientato ai giorni nostri nel momento di massima caduta della parabola di Federico Carpini, erede indegno di uno dei tanti self made man che dalla provincia toscana si sono arricchiti vendendo la “lana rigenerata” a tutto il mondo, lavorando giorno e notte per tirare su una ricchezza che si materializza nelle ville progettate da architetti di fama, nelle opere di arte contemporanea collezionate per il gusto di possederle, nelle auto di grossa cilindrata e in tutti quegli oggetti di lusso che nel cuore della Prato degli anni Ottanta avrebbero persino fatto impallidire la “Milano da bere” di quegli stessi anni.
Come quasi tutti i padri della sua generazione, fino a quel momento il babbo ci aveva sempre ignorati, noi figlioli, a parte Rebecca che era la luce dei suoi occhi.
Era sempre, sempre in fabbrica e quando tornava a casa voleva stare in pace nel suo studio a leggere il giornale e sentire Beethoven. Non era né severo né autoritario, molto semplicemente non c’era. Non c’era mai. Le volte che io e Romano ci si lamentava con la mamma che noi praticamente il babbo lo si conosceva appena –Rebecca ridacchiava, Chiedetevi il perché– lei rispondeva sempre allo stesso modo, che il babbo aveva da lavorare perché era molto impegnato e aveva la responsabilità di quaranta famiglie, non solo della nostra. (p. 83)
In questo scontro generazionale fra un padre che ripete sempre le stesse giornate al lavoro per fare la grana (e infatti lo scrittore usa l’iterazione due volte per contraddistinguere il personaggio) e il figlio che l’unica cosa che invece sa ripetere è quella di sperperare i soldi l’elemento drammatico (nel senso etimologico del termine) è dato dalla spinta ad agire “socialmente” che Federico mette in atto quando comincia a lavorare nella fabbrica del padre, dopo avere desiderato di fuggire da Prato per vedere il mondo. “La vita è una tragedia, e come tale va vissuta”: la citazione da Malcolm Lowry si trova più volte nel romanzo. Una tragica inquietudine è dunque il tratto distintivo di Federico Carpini sin dalle prime pagine del romanzo, in cui si descrive il viaggio post diploma di maturità a Ibiza a bordo di una Citroën Dyane, e in questa irrequietezza Nesi non solo coglie la caratteristica del protagonista del libro ma diventa espressione dello Zeitgeist. È un’inquietudine anche topografica, che si muove fra il mondo (Bahamas, New York, Parigi, Vancouver, Hong Kong…) e la provincia toscana, percorsa dal protagonista a bordo della sua Porsche 964 da Prato a Firenze, dal Forte a Montecatini e che alterna descrizioni minutamente realistiche di luoghi esistenti, come il viadotto del Ponte all’Indiano a Firenze o il Museo Pecci a Prato, ad altre in cui i luoghi reali sconfinano in spazi metafisici, come i capannoni industriali attorno a Prato o il “casermone di cinque piani coi balconi di cemento a vista accanto ad altri casermoni di cinque piani coi balconi di cemento a vista in mezzo a dei campacci infiniti” (p. 153) dove vive la ragazza Dubai, l’ultima di una lunga serie di donne che hanno attraversato la vita di Federico, la cui bellezza gli ha permesso di avere tutte le donne che ha voluto tranne quella a cui ha tenuto veramente e che come un fantasma attraversa tutta la sua vita, Ginevra Buontalenti, e che fa scoppiare le contraddizioni del protagonista in maniera definitiva. Ma soprattutto il luogo più paradigmatico di tutti è la villa ereditata dal padre e che, nell’accostamento di splendori e miserie, rende manifesti gli splendori e le miserie non solo di una città (Prato) ma di tutta la nazione.
Una scrittura veloce fra letteratura e musica
Se l’intreccio soffre di alcuni clichés del romanzo di formazione –il gruppo degli amici fedeli fino alla fine, l’amore non corrisposto che fa virare al tragico la vita sentimentale del protagonista, il disperato bisogno di riprendere i legami con la famiglia d’origine– e quindi non va cercata in esso l’originalità del racconto, sicuramente più originale risulta la scrittura che Nesi riesce a piegare nella direzione di un espressivismo marcato da elementi dialettali (moltissimi ma mai affettati), da tecnicismi che derivano non solo dal mondo della lavorazione della lana, industria che ha segnato l’ascesa e la caduta di Prato, ma anche dall’architettura e in genere dall’arte contemporanea, dalla letteratura e dalle continue citazioni musicali, a partire dal titolo.
Io e Ivo, coi libri in mano, si pareva statue di sale.
- I lupi dentro? Che vuol dire? Aspetta, forse lo so…
- Ma è un saggio o un romanzo, Vittorio?
- È un romanzo, Ivo.
- Un romanzo? Tu hai scritto un romanzo? Bravo, dio bono… Che penna!
- È una cosa di Jim Morrison, vero?
- Sì, Fede, forse allora non sei del tutto perduto…
- C’è anche scritto sulla prima pagina, guarda…Le poesie hanno i lupi dentro, Jim Morrison… Ma che è, quello dei Doors?
- Proprio lui… (pp. 231-2)
In realtà la musica fa da basso continuo in tutto il romanzo. Sono continuamente citate le canzoni che fanno da colonna sonora alle vicende dei protagonisti, come in una scaletta di Radio Mitology (non a caso citata in uno dei capitoli), la popolarissima radio toscana che trasmette tutto il giorno solo musica degli anni Settanta e Ottanta. Una spicca su tutti (e, se non ricordo male, è l’unica citata due volte): Young Turks di Rod Stewart. E non può essere diversamente, visto che il ritornello invoca i “giovani turchi dal cuore giovane” a essere liberi perché hanno il tempo dalla propria parte, proprio come sembra avere Federico, anche se la scelta dell’alternarsi narrativo dei piani temporali (il romanzo parte da un ricordo ma in realtà è ambientato nelle ultime ore del protagonista con frequenti analessi) mette subito il lettore sull’avviso che di questa libertà rimane ben poco (eppure il finale quasi lo coglie di sorpresa). Non solo la citazione di una infinità di successi di quegli anni, ma lo stesso ritmo dei dialoghi sembra a volte riecheggiare il testo dei tanti successi musicali citati. I lupi dentro è un romanzo ma ha anche un andamento molto “drammatico”, vista l’abbondanza di dialoghi (che si alternano con i monologhi interiori). E quindi si va alla chiave di lettura forse più “vera” per interpretare il romanzo, che non è la musica, pur presente in modo ossessivo, ma la letteratura, anch’essa citata direttamente o indirettamente dai protagonisti. Dall’aneddoto inventato dal protagonista su Hemingway a Firenze a quello riferito dal fratello su Malcom Lowry e Dylan Thomas a Vancouver e che è un omaggio a due autori molto cari a Edoardo Nesi. Fino alla rivelazione, per nulla inaspettata, che Federico Carpini, nel gioco di specchi che lo fa diventare, col suo stesso nome, il protagonista del romanzo d’esordio e di successo dell’amico Vittorio, viene definito un “eroe romantico”.
Dalla letteratura alla politica, nel nome del “disimpegno”
Ed ecco l’ultimo passaggio che il libro di Nesi permette: quello di accedere agli anni Ottanta da una prospettiva non di pura cronaca, ma di un bilancio aperto al futuro, utile per capire chi siamo diventati dopo quarant’anni.
« – Fede, ascoltami. La letteratura dev’essere il racconto del vero, sennò non è nulla, capito? Sennò è solo uno scherzo, un divertimento… Ma però è anche finzione, naturalmente, e la gente lo sa e lo capisce, non ti preoccupare…» (p. 239)
Adesso che gli anni Ottanta sono stati consegnati alla storia, la letteratura si sta interrogando se effettivamente ci eravamo resi conto di ciò che stavamo diventando mentre tutto si svolgeva sotto i nostri occhi. Da questo punto di vista, il romanzo fa il paio con un altro ambientato nello stesso periodo, nella provincia italiana (in questo caso Bari), con la stessa struttura (una sorta di bilancio fatto come una lunga analessi) e con una protagonista che è comune a entrambe le opere, la cocaina. Mi riferisco a Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, edito da Einaudi nel 2009. La differenza fra i due romanzi, che ci offrono una spietata analisi della smania di ricchezza che ha avvelenato i pozzi della convivenza civile nel nostro paese di cui ancora oggi portiamo i segni, è che nel romanzo di Lagioia l’eccesso sembra essere legato alla fase adolescenziale e giovanile, in questo di Nesi la riflessione non viene circoscritta a una fase della vita ma travalica la classica struttura del romanzo di formazione. È però vero che il romanzo di Lagioia ha una forte valenza politica anche perché in sottofondo compare la minacciosa presenza della mafia pugliese che di lì a poco assurgerà purtroppo agli onori della cronaca, ma anche il romanzo di Nesi ha un’apertura verso il futuro che sta a mezzo tra la politica e l’economia e che sancisce anch’essa la presa del potere da parte dei nuovi padroni: i cinesi. Significativo a tal proposito il capitolo dal titolo “Hong Kong”:
Ovunque c’era quella scritta. Sui cartelloni pubblicitari, sulle fiancate dei taxi, sui muri. In inglese, perché intendesse chi doveva intendere.
THE BEST IS YET TO COME.
Il meglio deve ancora venire.
La cazzata frusta e banale che svolazzava nell’aria già da qualche anno, la parola d’ordine preferita dei politici europei, dei ragazzi e dei grulli, di tutti quelli che volevano barattare il presente con la speranza di un futuro migliore. Una cosa inoffensiva, anche cattolica in fondo, che mi aveva sempre infastidito per via del suo ottimismo fradicio e immotivato. Lo volete meglio di così, il presente, fave? Vi pare possibile? Ce li avete almeno gli occhi per vedere?, ma fino a quella mattina non mi aveva mai veramente toccato e ora, invece sì, e avevo anche capito perché.
Perché non mi riguardava.
Non era per me, il meglio che doveva ancora venire.
Era per loro.
Per i cinesi. (pp. 284-5)
Ed ecco quindi che il cerchio si chiude: nel momento in cui si spezza la catena della tradizione che dovrebbe rendere i figli migliori dei padri, a patto che continuino pur sempre a camminare sul terreno battuto dai genitori. Solo che, a un certo punto, ciò non basta più. E travolge come uno tsunami quella provincia che aveva fatto ricca l’economia italiana, per passare ad altre province, pronte a loro volta a essere travolte dal loro stesso successo. E, sullo sfondo di tutto, forse quel “secolare squallore” dell’Occidente ribadito in uno dei passaggi più stranianti del romanzo, quando Federico si trova, in totale inconsapevolezza, in mezzo ad una protesta di ecologisti di cui lui non riesce a cogliere i motivi, muovendosi per le strade di Firenze “sovrappensiero, senza meta, senza testa, e dopo un po’ ti accorgi che non le riconosci più queste strade, queste pietre che ti scivolan via sotto le scarpe” (p. 54). Da cosa nasce il senso di estraneità di Federico? Dall’aver abbandonato la strada dell’impegno e dell’appartenenza lui, che da studente, orgogliosamente dichiarava di disinteressarsi della politica, anche a costo di essere etichettato fascista? Di avere fatto dell’individualismo il suo stile di vita? Di avere barattato il mezzo (la ricchezza) per il fine? E allora ha ragione il suo amico Vittorio quando dice che Federico Carpini è “l’ultimo eroe italiano”, perché il suo fallimento, tutt’altro che eroico, fa tutt’uno con quello di una nazione, sancito al ritmo di quelle canzoni da discoteca che il documentario celebrativo citato all’inizio magnifica come la voce spensierata di un’Italia felice che vorrebbe adesso essere riproposta come modello senza rendersi conto di quanto drammaticamente lo sia diventata davvero un modello, ma di fine della politica nel senso più nobile del termine.
Andò avanti così per qualche tempo, e poi a un certo momento cambiò tutto. La politica sparì. Volatilizzata. Praticamente all’improvviso, una cosa incredibile. Sarà stato l’81 o forse l’82, ma quando a settembre si rientrò a scuola come per incanto non s’era più fascisti e nessuno ci criticava più le magliette delle università americane, anzi avviarono a vestirsi come noi, il Voltattorni e i suoi discepoli. Forse finalmente avevan visto Un mercoledì da leoni, chi lo sa, ma tutti surfisti eran diventati, da un anno all’altro. Una cosa da far schiattare dal ridere. Tutto finito, tutti amici. (p. 26)
E se è vero che gli anni cruciali, in realtà, come ha ben dimostrato Paolo Morando nel suo saggio pubblicato nel 2009 per Laterza, sono stati il 1978 e quello successivo (Dancing Days. 1978-1979. I due anni che hanno cambiato l’Italia), la provincia italiana ha realizzato un po’ più tardi quel mutamento antropologico, ideologico e sociale che è descritto nel romanzo di Nesi fino all’inevitabile catastrofe finale, non a caso ambientata ai giorni nostri.
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