«Vi spiego la questione palestinese»: un’insegnante e due libri
L’educazione civica deve essere “denotativa”?
Insegno in un Liceo e stranamente (non mi è mai successo, eppure è tanto che insegno) quest’anno solo al biennio: due seconde, di quelle che “hanno fatto la media col Covid”. Le loro nozioni di geografia sono limitate (paradosso della nostra epoca globalizzata, questa sostanziale ignoranza del globo), la loro consapevolezza storica modesta, i loro strumenti di indagine della realtà ancora acerbi. Nessuno gli ha mai parlato della “questione palestinese”, sicché il 7 ottobre scorso, alla notizia dell’attentato di Hamas, e delle morti, tante e atroci, e degli ostaggi di ogni età, sgranano gli occhi con l’orrore e lo stupore dei bambini e non decifrano gli sguardi che passano per gli occhi degli adulti: di sconcerto, tanto; di stupore, poco. Decido perciò che le mie ore di educazione civica saranno dedicate a spiegargli cosa succeda; ma non cosa succeda ora: cosa succeda da circa cento anni, a volersi tenere stretti. Sì, lo so: resterò “indietro” col latino, con l’analisi dei testi, con l’educazione linguistica e pure con le stesse storia e geografia. Pazienza. Rischi del mestiere.
Per prima cosa mostro loro una carta geografica dei luoghi, anzi gliene mostro quattro: la prima è solo fisica; le altre tre sono mappe geopolitiche: una rappresenta i luoghi in età romana imperiale, un’altra gli stessi luoghi alla vigilia della prima guerra mondiale, la terza l’assetto attuale. Posizione, confini, implicazioni dell’una e degli altri. Sono molto veloci, capiscono all’istante cosa comporti la prossimità del mare o del deserto, la presenza di montagne o di laghi, cosa avere certi vicini piuttosto che certi altri. Poi richiamo alla memoria qualche conoscenza che hanno già dall’anno passato: i popoli in viaggio, le migrazioni, le cosiddette grandi civiltà e, insieme a loro, ne ricostruisco stanziamenti, spostamenti, incursioni e fusioni. Infine (e siamo già al terzo giorno di lavoro) fornisco io stessa le informazioni-chiave per inquadrare la questione almeno dal 1947 ad oggi. Lo faccio in modo volutamente denotativo, aiutandomi con la Dataroom di Milena Gabanelli e Maria Serena Natali che trovo sul Corriere della sera (26.10.2023) e che gli fornisco senza commenti. I commenti li lascio (quarto incontro) ad alcuni articoli prelevati, in giorni diversi, da varie testate (Corriere, Repubblica, L’Unità, Avvenire, Il Manifesto), che condivido su Classroom, e per qualche approfondimento (quinto incontro) propongo alcuni contributi in video che l’ISPI ha destinato alle scuole. Infine chiedo agli allievi e alle allieve di entrambe le classi di svolgere autonomamente la loro ricerca sulle origini della questione, senza passare da Wikipedia: com’è noto, impresa difficilissima per questa generazione che ha accesso, come nessun’altra prima, a una enorme quantità di informazioni in un tempo ridottissimo, e forse proprio per questo facilmente si perde errabonda nella sconfinata prateria di internet. Però la bussola gliel’ho data e spero che basti; d’altronde, da qualche parte si deve pur cominciare a insegnargli non solo gli strumenti di ricerca – conoscono giusto quelli tecnologici, li possiedono in larga parte e per questo pensano che altro non serva –, ma il metodo e lo scopo. Lo so: sono strategie didattiche vecchie (ma – a quanto pare – non ancora usurate) e non ho fatto niente di speciale; ma, sulle prime, mi sento già contenta così. Una mamma – albo signando lapillo – mi ringrazia addirittura: pare che la figlia, la sera, davanti al TG, abbia spiegato al fratello più piccolo e al nonno come stiano le cose da quelle parti lì.
Le ricerche che mi consegnano nel sesto incontro sono così-così: alcune ipertrofiche, altre assemblaggi malfermi, poche ordinate; ma nessuna striminzita. Tutti e tutte l’hanno svolta. Con quei dati alla mano, hanno provato a farsi un’idea e, chiamati da me al dibattito, provano perfino ad avanzare un’opinione; che – al momento – consiste per loro nello stabilire non le responsabilità del conflitto (o meglio, come ripeto ossessivamente, della questione), ma di chi è la colpa: buoni di qua, cattivi di là. Alla scuola media hanno imparato che orrore sia stato l’Olocausto: mi scrivono (esattamente in questi termini) che gli ebrei perseguitati dai nazisti sono stati martiri; perciò quasi non osano dare forma a quello che, dai dati che hanno messo nero su bianco nelle loro ricerche, gli si è insinuato come dubbio spiazzante: è mai possibile che la colpa sia anche un po’ loro, degli ebrei?
Avete mai pensato – gli chiedo di rimando – che la responsabilità (provo pure a spiegargli la differenza con colpa) possa essere anche nostra, degli europei?
No. L’idea non li ha neppure sfiorati. Secondo loro il nostro ruolo è quello di fargli fare la pace, come fa un bravo allenatore fra due giocatori litiganti. E adesso sono un poco meno contenta.
Educare alla connotazione
Penso di aver fatto il mio dovere professionale e civico. Penso di aver compiuto con i miei ragazzi e le mie ragazze un altro passo importante sul percorso di apprendimento degli strumenti e delle finalità dell’argomentazione. Però mi è mancato qualcosa: l’insegnante di letteratura che sono. Perché l’ho tenuta lontana? So rispondermi, dopo anni di crociate contro l’uso catechistico e strumentale dei testi letterari: non volevo che queste e questi studenti, ancora così giovani (non hanno che quindici anni, in alcuni casi nemmeno compiuti), sostituissero ai fatti romanzi e poesie o che si servissero di romanzi e poesie come surrogato dei fatti. I fatti sono fatti e vanno conosciuti e indagati senza la riserva mentale (così comune a quell’età, e non solo a quell’età) che siano come sono i romanzi: “inventati”. Ma anche romanzi e poesie sono fatti; e questo l’insegnante di letteratura lo sa, e per questo protesta dentro di me. Per un paio di giorni mi arrovello sulla possibilità di completare il lavoro con la lettura ad alta voce di qualche pagina “di letteratura” e il rimedio mi pare peggiore del male, quasi che quelle pagine fossero solo decorative, accessori sull’abito della Storia, di per sé sobrio e finemente tessuto. E poi: quali pagine? Ce ne sono di illuminanti ne Il signor Mani come in tutta l’opera di Yehoshua, e in Tre piani di Nevo, e ne La scatola nera di Oz e ancora altrove… E poi: perché solo scrittori e israeliani? Si potrebbe piuttosto iniziare dalla scrittrice palestinese Adania Shibli: sarebbe perfino un atto di giustizia, dopo la censura di Francoforte! Ma non è questo che voglio, non serve altra legna ad alimentare il fuoco di un discorso pubblico ottusamente, follemente polarizzato; e i miei allievi, le mie allieve sono veramente lettori e lettrici troppo giovani e senza esperienza per poter prendere in mano anche uno solo di questi romanzi. Hanno bisogno di una parola chiara e (soprattutto) hanno bisogno di capire che pace non significa tornare indisturbati ai fatti propri. E allora rinuncio ai romanzi ma non ai romanzieri; rinuncio alla scrittura di invenzione, ma non alla scrittura della connotazione: la denotazione si è già presa il suo spazio.
Due libri
Giunta a questa risoluzione, sciolgo i miei dubbi residui e vado a riprendermi due libri di saggi, scritti però da due grandi narratori: Contro il fanatismo di Amos Oz e Sparare a una colomba di David Grossman.
Contro il fanatismo (trad. E. Loewenthal, Feltrinelli 2002) è un libro piccolo solo nelle dimensioni. Scritto all’indomani dell’attentato agli U.S.A. dell’11 settembre 2001, si compone di tre lezioni (Passioni oscure, Come guarire un fanatico, Israele e Palestina: fra diritto e diritto) orientate nella direzione del titolo programmatico. Oz, pur essendo nato a Gerusalemme, appartiene a «una famiglia di profughi dal cuore a pezzi» (p.11): il padre era un ebreo russo rifugiato in Lituania, allora parte della Polonia, parlava undici lingue, ne leggeva circa diciotto e aveva vissuto, insieme alla madre, «una inesausta infatuazione per l’Europa» (p.12) quando – tuttavia (erano gli anni venti) – «gli ebrei erano gli unici europei d’Europa» e «l’Europa era tappezzata di graffiti: ebrei, andatevene in Palestina». Quarant’anni dopo, quando il padre tornò in Europa per un viaggio, «la trovò coperta di altre scritte: ebrei, fuori dalla Palestina» (p.14). La sua riflessione sul fanatismo, pertanto, passa attraverso il racconto autobiografico concedendosi non poche e acute digressioni in molte direzioni (nel tempo, nei luoghi, nei temi), ma senza mai perdere di vista l’obiettivo polemico e senza mai abbandonare una verve narrativa, una straordinaria spregiudicatezza di lingua e di stile che annienta ogni possibile cedimento sentimentale (in ogni senso possibile: vittimistico, pietistico, etc.), a tutela del sentimento più autentico e a vantaggio di uno sguardo ampio, penetrante e lucido sulla realtà dei fatti. Ai fatti Oz si espone, senza cercare scivolosi unguenti di protezione; e i fatti sono chiarissimi – e non potrebbe essere diversamente – a questo israeliano, figlio di ebrei europei che l’Europa non ha voluto. Solo per carenza di tempo e ancora nel rispetto dell’età dei miei allievi, dalla terza lezione di Oz (peraltro, va detto, pronunciata fianco a fianco al suo «amico e collega Izzat Ghazzawi, autore palestinese profondo e toccante») scelgo queste poche righe:
Gli europei benpensanti, gli europei di sinistra, gli intellettuali europei, gli europei liberali (…) hanno sempre bisogno di sapere per prima cosa chi sono i buoni e chi i cattivi in un film. (…) Non è così semplice, amici miei, (…) perché il conflitto israelo-palestinese non è un film western. Non è una lotta fra bene e male, la considero piuttosto come una tragedia antica: lo scontro fra un diritto e un altro (…).
I palestinesi sono in Palestina perché la Palestina è la patria, l’unica patria del popolo palestinese. Allo stesso modo in cui l’Olanda è la patria degli olandesi, o la Svezia degli svedesi. Gli ebrei israeliani sono in Israele perché non esiste altro paese al mondo che gli ebrei in quanto popolo, in quanto nazione, abbiano mai potuto chiamare “casa”. In quanto individui sì, ma non come popolo, come nazione. I palestinesi hanno, loro malgrado, cercato di vivere in altri paesi arabi. Sono stati respinti, talvolta perfino umiliati e perseguitati dalla cosiddetta “famiglia araba”. Nel modo più doloroso, sono diventati consapevoli della loro “palestinesità”: sono stati malvoluti come libanesi, siriani, egiziani, iracheni. Hanno imparato brutalmente che sono palestinesi e che questo è l’unico Paese sul quale possono contare. Stranamente, il popolo ebraico è come se avesse un’esperienza storica parallela a quella del popolo palestinese. Gli ebrei sono stati espulsi dall’Europa, i miei genitori sono stati letteralmente cacciati dall’Europa circa settant’anni fa. Così come i palestinesi sono stati cacciati dapprima dalla Palestina e poi da tutti i paesi arabi, o quasi. (…) I palestinesi vogliono la terra che chiamano Palestina, la vogliono per delle ragioni stringenti. Gli ebrei israeliani vogliono esattamente la stessa terra esattamente per le stesse ragioni, il che garantisce una perfetta comprensione fra le parti, e dà la misura di una terribile tragedia. Uno degli elementi di questa tragedia (…) è il fatto che molti ebrei israeliani non riconoscono quanto sia profondo il legame emotivo dei palestinesi con questa terra. E molti palestinesi mancano di riconoscere quanto profonda sia la relazione ebraica con questa terra. (…) Una delle cose che rendono il conflitto israelo-palestinese particolarmente grave è il fatto che esso sia essenzialmente un conflitto fra due vittime. Due vittime dello stesso oppressore. L’Europa, che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d’imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei, perpetrando un genocidio senza precedenti. A rigore, due vittime dovrebbero manifestare d’istinto un senso di solidarietà tra loro. Così succede nelle poesie di Bertolt Brecht… (pp.58-66)
E a questo punto penso già che, nel mio percorso sulla poesia, Traducendo Brecht di Franco Fortini la inserirò; e pure Bertolt Brecht, ça va sans dire. E so che, quando, a febbraio, aprirò il percorso sul teatro antico, questa riflessione mi tornerà utile e preziosa. E ancora meglio so che chi ritiene di poter separare l’educazione civica dalle discipline non ha davvero capito nulla della scuola. Ma vado avanti col secondo libro.
Sparare a una colomba (trad. di A. Shomroni, Mondadori 2021) raccoglie undici interventi, tra conferenze e articoli, che Grossman ha scritto in occasioni diverse (la laurea honoris causa a Firenze, il conferimento di premi in varie parti d’Europa, una lezione a Harward…), dal 2008 al 2021 (l’ultimo si intitola infatti, significativamente, Diario Covid-19). Anche questo narratore appartiene a una famiglia di “immigrati d’Europa” (il padre era un ebreo galiziano) e nella sua vicenda biografica è iscritta anche una pagina enormemente dolorosa: la morte del figlio, nel 2006, mentre svolgeva servizio militare ai confini con il Libano. Tuttavia è noto il suo impegno politico inesausto a favore del dialogo con i palestinesi; e il tono dei suoi romanzi o dei suoi saggi (si ricorda in particolare Con gli occhi del nemico. Raccontare la pace in un paese in guerra, 2007) è di una tale limpidezza, lo stile di una tale e disarmante semplicità, che non stupisce il suo essere inviso agli ambienti israeliani più conservatori. Lo stesso tono, lo stesso stile, la stessa limpidezza si ritrovano negli interventi raccolti in questo libro, che dai fatti di cui il popolo ebraico è stato e è protagonista (dalla diaspora alla Shoah, dalla nascita di una nuova democrazia alla occupazione dei territori altrui) traggono sempre una lezione sull’esistenza e sul senso del nostro stare al mondo. Vorrei poterli proporre tutti; vorrei che tutte le scuole ne avessero una copia. Ma, anche in questo caso, devo fare una scelta; e scelgo quelle che mi sembrano le pagine, se non migliori, più urgenti.
Sì, la Guerra dei Sei Giorni si concluse con una vittoria travolgente, che ci ha travolti.
Probabilmente non esiste una nazione immune dal veleno del potere. Popoli più forti e saldi del nostro non hanno resistito alle sue lusinghe. E a maggior ragione un popolo piccolo che, per gran parte della sua storia, è stato debole e perseguitato, inerme e senza un esercito in grado di difenderlo. Un popolo che, ai primi di giugno del 1967, era convinto di rischiare lo sterminio e sei giorni più tardi si era quasi trasformato in un impero.
Sono passati cinquant’anni. Israele ha fatto progressi inimmaginabili e ottenuto enormi successi in quasi tutti i campi. Successi che non si possono considerare scontati. La sua intera storia non è scontata: il ritorno degli ebrei da settanta nazioni alla loro terra natale e le grandi opere da loro realizzate sono fra le vicende più meravigliose ed eroiche di tutta l’umanità. Senza con ciò negare la tragedia che questo evento storico ha causato ai palestinesi che vivevano qui, l’arrivo degli ebrei, la trasformazione di un popolo di profughi e sfollati, sopravvissuti a un’immane catastrofe, in una nazione prospera, forte e vitale, appare quasi inconcepibile. E per preservare quel che di prezioso e di buono abbiamo creato, dobbiamo costantemente ricordare a noi stessi ciò che minaccia il nostro futuro non meno dei pericoli esterni: innanzitutto l’incongruenza che mina l’esistenza di Israele, ovvero il fatto che la sua democrazia ormai non è più tale nel vero senso della parola. È illusoria e ben presto potrebbe diventare un’illusione. Israele è un paese democratico in quanto garantisce la libertà di parola, di stampa e di voto (…). Ma può una nazione che domina un altro popolo e gli nega la libertà ormai da cinquant’anni sostenere di essere una democrazia? Il binomio “democrazia occupatrice” è in fin dei conti possibile? (pp.131-132, L’infinito umano. Letteratura e pace)
Alla base del grande umanesimo di Israele e del progetto sionista – e so che oggi in Europa è considerata una parola riprovevole – c’era l’idea di portare gli abitanti di settanta Paesi diversi nel luogo che aveva dato origine al loro popolo, alla loro cultura, alla loro religione, alla loro nazione. L’obiettivo era di riportarci lì per permetterci di iniziare ad avere una vita nel nostro paese, di trasformarlo nella nostra casa, una dimensione fondamentale per tutti. Ogni essere umano deve sentirsi a casa. Se non ti senti a casa nel mondo, puoi essere facilmente sradicato. È tragico che dopo sessantasette anni di indipendenza e sovranità, e nonostante l’enorme arsenale bellico accumulato, continuiamo a non avere la sensazione di essere a casa nostra. Israele non è come dovrebbe essere. Credo che finché non avremo la pace non ci percepiremo a casa. Se raggiungeremo la pace, avremo una possibilità per quanto timida di acquisire nel tempo un po’ di normalità e di ripristinare dei rapporti con i nostri vicini basati sul buon senso. I palestinesi riuscirebbero ad avere il loro Stato, a crescere i loro figli senza paura, senza la nostra ombra di occupanti. Non voglio gettare un’ombra su nessuno. Se sono un occupante, non solo copro l’altro con la mia ombra, ma vivo io stesso nell’ombra. I palestinesi avrebbero l’opportunità di vivere una vita dignitosa per la prima volta dopo oltre centoventi anni – periodo durante il quale sono stati oppressi dagli ottomani, dagli egiziani, dagli inglesi, dai giordani e poi da noi, che siamo gli ultimi di una lunga serie, e nemmeno i peggiori! Ma non è facile per un popolo come quello palestinese iniziare a vivere libero, dopo una vita di sottomissione. Vivere in libertà implica una certa assunzione di responsabilità. (pp.105-106, Una paura esistenziale)
In Israele (…) conviviamo con il terrorismo da anni. Ma (…) una parte del terrorismo contro Israele, una parte soltanto, rappresenta il grido di persone che chiedono di essere ascoltate. Portano avanti una causa, con cui possiamo essere d’accordo o meno, ma è una causa politica. Vogliono avere una terra, uno Stato. Personalmente, credo che il terrorismo debba essere combattuto – non mi importa sapere in nome di quale ideale sia stato commesso un omicidio, che è sempre inaccettabile in quanto tale – ma dico che dobbiamo ascoltarle perché, se rispondiamo a una parte delle loro legittime richieste, forse il terrorismo diminuirà. (p.97, Una paura esistenziale)
Quando sarò riuscita a leggere con le mie classi queste pagine, starò meglio. E allora l’insegnante di letteratura potrà consentirsene ancora una, questa:
La guerra, per sua natura, cancella le sfumature che fanno sì che un individuo sia unico, annulla la meravigliosa peculiarità di ogni essere umano. E con la stessa violenza rinnega la somiglianza fra gli esseri umani, le cose che ci rendono uguali, il nostro comune destino. La letteratura – non solo scrivere libri, ma anche leggerli – è l’opposto di tutto ciò. È la totale dedizione all’individuo, al suo diritto di essere, al destino che condivide con l’intera umanità. La letteratura è la stupefazione per l’uomo, per la sua complessità, per la sua ricchezza, per le sue ombre. (p.37, Combattere l’arbitrio). E a giugno, l’insegnante di letteratura potrà consentirsi di inserire, nella consueta lista di “libri per l’estate” destinata alle sue classi, quanto meno Vedi alla voce: amore di “quel” Grossman che le sue classi avranno conosciuto già.
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