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diretto da Romano Luperini

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Chi sono i nemici della letteratura (e non solo)?

 In un interessante articolo pubblicato sul quotidiano la Repubblica il 20 marzo, il premio Nobel Mario Vargas Llosa esprime il suo timore che la letteratura, intesa come spazio di assoluta libertà esistenziale e dunque, in quanto tale, sempre minacciato da dispositivi di controllo culturale e politico, possa presto scomparire sotto la spinta di nuove forme di intolleranza e censura.

La letteratura ha sempre avuto nemici, ricorda lo scrittore peruviano, dalla religione ai regimi totalitari, fino ai vincoli morali e legali che nelle moderne democrazie hanno talvolta costretto gli autori a difendersi nei tribunali. Ma oggi, afferma tranchant, “il più risoluto nemico della letteratura, che pretende di decontaminare dal maschilismo, da un’infinità di pregiudizi e dall’immoralità, è il femminismo”. Specificando poi che si tratta naturalmente di quello più radicale, che in Spagna avrebbe recentemente prodotto un ‘decalogo’ di autori “rabbiosamente maschilisti come Pablo Neruda, Javier Marias e Arturo Perez-Reverte, da eliminare dai corsi scolastici”. Un approccio all’opera letteraria eccessivamente politically correct con il quale, incalza Vargas Llosa, “non si salva dal rogo un solo romanzo della letteratura occidentale”.

In realtà, le cose non stanno esattamente così; lo dimostra la lettura dell’articolo originale pubblicato da El Mundo il 14 marzo scorso, in cui si fa riferimento a una serie piuttosto articolata di proposte culturali per la scuola contro il sessismo, il razzismo, il classismo, la discriminazione di genere.

Il discorso di Vargas Llosa sembra dunque un pretesto per attaccare il femminismo in generale, sussunto nella categoria del fanatismo del politically correct, e come tale non merita ulteriori commenti. Ma la domanda non è peregrina: chi sono oggi i nemici della letteratura? Perché ci sono, non c’è alcun dubbio. E non sono certo le femministe, da sempre lettrici e scrittrici.

Guardiamoci intorno: siamo tutti prigionieri di un mondo virtuale, che erode giorno dopo giorno gli spazi della lettura dei testi letterari. Incantati dai nostri dispositivi digitali, che ci catturano con le loro infinite possibilità sinestetiche, stiamo abbandonando il mondo di carta della pagina scritta, il tempo lungo e lento e il piacere del dipanarsi, sotto i nostri occhi e nella nostra mente, del fascino di una storia o della suggestione di un verso. Inchiodati davanti agli schermi di smartphone che ormai sono appendici corporee, non abbiamo più libri tra le mani. Leggiamo più post che romanzi. E questo, per i più giovani, assume contorni ancor più drammatici, quantitativamente e qualitativamente. Con la letteratura, non stiamo perdendo solo uno strumento di comprensione e di interpretazione del mondo. Stiamo perdendo un fattore di protezione dell’io dai mali del mondo: la possibilità dell’esperienza di quella dimensione catartica che, nel tempo, ha permesso all’uomo di scandagliare i suoi lati oscuri e le sue angosce attraverso processi di simbolizzazione e di sublimazione1.

I nemici della letteratura sono pervasivi, onnipresenti, potentissimi. In un mondo in cui si calcola che 6 miliardi di persone possiedono un cellulare mentre solo 4 miliardi e mezzo hanno possibilità di accesso a un bagno funzionante ed in cui l’impatto del business per l’innovazione tecnologica ammonta per il prossimo decennio a 3000 miliardi di dollari, la battaglia per difendere la letteratura dalla mostruosa offensiva consumistica2 dell’industria digitale appare davvero residuale e titanica.

E soprattutto, mancano i luoghi deputati a combatterla. Scuola e università, in Italia, sembrano essersi arrese. Il lento ma costante processo di demolizione delle forme di trasmissione del sapere3, delle pratiche di lettura e di studio, di ascolto e di riflessione in un contesto formativo umanistico (nel senso etimologico del termine) che hanno sempre accompagnato l’accesso alla conoscenza è stato direttamente proporzionale al dilagare pervasivo di approcci, metodologie e strumenti per la didattica spacciati per innovativi, maggiormente efficaci, più adeguati perché tecnologici quindi moderni, e come tali imposti con modalità sempre più cogenti, in un inarrestabile processo contemporaneamente verticale e orizzontale, in cui alla necessaria vigilanza critica si è sostituita un’adesione fideistica, un’accettazione senza riserve. Una resa incondizionata, direi.

Le istituzioni culturali per eccellenza, scuola e università, non hanno opposto nessuna resistenza alla cancellazione della parola ‘cultura’, cui anche la letteratura afferisce, dal loro orizzonte di senso. E non hanno esitato ad abbracciare la religione delle ‘competenze’, oggi dominante. Le ‘competenze’ costituiscono il precipitato di ogni ragionamento sociale, culturale o politico si voglia articolare per comprendere la situazione attuale. È la parola che indica oggi, a scuola e all’università, l’indiscutibile paradigma didattico imposto dall’Unione europea4 e veicolato, in Italia, da Confindustria e Ministero dell’istruzione, università e ricerca attraverso raccomandazioni, documenti e dispositivi di legge. I nuovi sillabi disciplinari5, le nuove indicazioni didattiche, i nuovi modelli di certificazione6: tutto ha come presupposto e fine ultimo l’obbligo di curvare ogni insegnamento alla ‘mobilizzazione’ delle competenze dello studente, dalle elementari all’università.

‘Competenze’ trasversali, pragmatiche, operative, procedurali. Soft skills per il problem solving e per il lifelong learning, un’autoformazione permanente non al “sapere” e al “saper fare” bensì al “saper essere”, ovvero all’autotrasformazione in individuo ‘adattato’ alle ‘sfide’ del digitale, della robotica, delle tecnologie dell’industria 4.0 e della società tecnocratica globale che ne costituisce l’orizzonte politico, o meglio, psicopolitico, di riferimento7. Un individuo competente come un idiot savant. Senza storia e senza diritti. Senza cultura e senza consapevolezza. Senza psiche e senza téchne. Senza letteratura e senza pensiero simbolico.

Un’idea di istruzione radicalmente nuova, dunque. Un cambiamento di paradigma epocale, in cui l’educazione culturale, intellettuale e morale viene sostituita dalla formazione esclusiva al lavoro8. Le ‘competenze’ sono il dispositivo cruciale su cui convergono l’alternanza scuola-lavoro, i tirocini universitari, l’utilizzo coatto delle nuove tecnologie digitali, la mistificazione semantica della neolingua, le riforme al ribasso del mercato del lavoro9, le mutazioni antropologiche in atto, funzionali alla creazione di un brave new world in cui precarietà e sfruttamento, in una condizione di reificazione assoluta, saranno consustanziali e immodificabili.

Da tutto questo, e non dalle femministe, dobbiamo difendere la letteratura e, con essa, l’umanità. Ma dobbiamo fare in fretta.

NOTE

1 T. Deacon, La specie simbolica, Fioriti Editore, 2001

2 R. Mordenti, L’altra critica, Editori Riuniti university press, 2013

3 R. Simone, La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza, 2006

4 Raccomandazioni del Parlamento e del Consiglio europeo, ‘Competenze chiave per l’apprendimento permanente’, 18 dicembre 2006 (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2006:394:0010:0018:it:PDF)

5 Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società della conoscenza. Allegato b: Sillabo di filosofia per competenze (http://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Sillabo.pdf/ac26b211-9094-4978-997f-7cae7c0f2569).

6 Certificazione delle competenze al termine della scuola primaria e del primo ciclo di istruzione, decreto Miur 3/10/2017 prot. N. 742

7 Byung-Chul Han, Psicopolitica, Nottetempo, 2016

8 C. Gentili “L’alternanza scuola-lavoro: paradigmi pedagogici e modelli didattici, Nuova Secondaria, n. 10, giugno 2016

9 M. Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, 2017


Fotografia: G. Biscardi, Palermo 2018, smartphone.

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