Cambiare la scuola/4. Quattro riflessioni sull’aggiornamento degli insegnanti
Quest’anno, alla fine delle attività didattiche e del mio contratto, ho deciso di dedicare un po’ del mio luglio a un felice acquisto dell’ultimo inverno: Vittorio Sereni, Poesie e prose, Mondadori, 2013. Ma mentre riposo e studio, vengo raggiunto da quelle voci di ambiziosi progetti di riforma della scuola che, con cadenza semestrale, ci investono ad ogni cambio di governo. I progetti si concretizzano a fine estate in 136 pagine di Linee guida (MIUR, La buona scuola, 3/9/2014), una consistente parte delle quali è dedicata alla ridefinizione della professionalità dei docenti: fine degli scatti stipendiali sulla base dell’anzianità, sostituiti da un sistema “meritocratico” fondato sull’accumulazione di punti («crediti»), da guadagnarsi annualmente con la valutazione dell’attività in classe del docente («crediti didattici»), dell’eventuale assunzione di quei compiti oggi chiamati funzioni strumentali («crediti professionali») e dell’aggiornamento («crediti formativi»).
Tutto questo ha fatto in me immediato corto circuito con la lettura estiva: ma che cosa avrà mai a che fare Sereni con la “buona” scuola proposta dal governo Renzi?
Che cosa si impara da una lettura estiva
L’acquisto invernale, dicevo. Insieme ai versi e alle prose d’invenzione, la curatrice Giulia Raboni ha raccolto alcuni dei saggi critici che Sereni ha dedicato all’arte e alla poesia, ed è su questi che mi oriento, in quanto zona a me del tutto ignota della produzione dell’autore: si tratta di interventi radiofonici, di recensioni su settimanali, insomma di testi destinati alla ricezione di chi non necessariamente è attrezzato criticamente. Dev’essere questa – oltre a una radicata attitudine del poeta – la ragione dell’attenzione costante per il lettore comune, per la leggibilità dell’opera al di fuori dei contesti specialistici, per l’attualità dei classici. Da un approccio simile un insegnante non può che attendersi qualche illuminazione utile per la didattica: ciò che infatti capita in molte occasioni. Un caso in particolare è istruttivo, ma, per spiegarlo, sono costretto a ricostruire il filo dei miei pensieri, le associazioni scatenate in me dalla lettura.
Le riflessioni di Sereni su Petrarca (Petrarca, nella sua finzione la sua verità) mi aiutano a considerare con maggior chiarezza una questione non aggirabile, prospettando forse anche qualche soluzione: gli strati e strati di mediazioni linguistiche, culturali, storiche che stanno fra un adolescente odierno e molta della letteratura canonica. Affrontando la questione già desanctisiana del Petrarca “letterato più che poeta”, del suo formalismo e finanche manierismo, Sereni riporta il noto giudizio di Leopardi, il quale osservava che «a forza di sentire le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell’originalità del modello. Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v’è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore» (Zibaldone 4491). Non ricordo quando venni a conoscenza di questo appunto leopardiano, ma ricordo che mi colpì molto, anche se ammetto che ne forzai (e ne forzo) un po’ l’interpretazione: per me spiegava molto bene perché, da liceale, al di là delle differenze di contenuto e di genere, i nostri poeti (almeno fino a quelli settecenteschi) mi lasciassero l’impressione di una fastidiosa uniformità, stereotipia direi, per cui sembravano dire quasi tutti, sempre, le stesse cose. Dico che forzo l’interpretazione delle parole di Leopardi perché il suo giudizio va evidentemente ascritto alla riflessione sul formalismo e classicismo della nostra tradizione, mentre a me esso sembrava valere come spiegazione psicologica generale della freddezza (o, al massimo, dell’interesse solo intellettuale) in cui mi lasciava tanta parte della poesia letta a scuola, pallidissimo piacere di fronte al vero incremento di conoscenza garantitomi dalla lettura di alcuni contemporanei e dall’ascolto dei cantautori: la letteratura doveva “comunicarmi” qualcosa, ma dentro quella che leggevo a scuola il «concetto» era scomparso, o per me irraggiungibile.
Oggi, naturalmente, sono grato alla mia insegnante di avermi fatto leggere Petrarca, Ariosto, Tasso, Foscolo e avermi messo davanti a tutti quegli strati di mediazioni linguistiche, culturali, storiche… e ne ripeto l’esempio in classe; ma credo anche che il problema di quegli strati di mediazioni vada posto, esplicitato, indagato: intendo dire con gli studenti. Anche di qui passa, credo, una rimotivazione e rivalutazione dello studio della letteratura.
Per affrontare questo problema, e proprio per quella sua attenzione a ciò che un lettore può ricavare dal contatto diretto con l’opera, Sereni mi offre alcune categorie forse criticamente non originalissime («Lo so, mi sto muovendo nel risaputo», scrive), ma utili alla didattica proprio perché verificate su quello spazio che sta tra lettore e poesia, nel rapporto tra di essi: «Petrarca può averci indicato la strada per cui attimi della nostra esistenza, del nostro vissuto, si fanno memorabili; e, almeno ai nostri occhi, memorabili in concreto. Ma basta adagiarsi in questa fiducia, in questa giustificazione ed ecco il procedimento impoverirsi a meccanismo ripetitivo» (p. 936). Quindi, concludo mentalmente dopo la lettura: far capire allo studente non che “Petrarca è l’archetipo della poesia raggelata a emblema”, ma “Petrarca, proprio grazie alla sua stilizzazione formale, ha fornito una rappresentazione insuperabile (e, infatti, storicamente per lungo tempo non superata) di alcuni attimi esemplari dell’esistenza” (secondo Sereni, insuperabili sono soprattutto quelli nei quali la vividezza e la soavità è accresciuta dall’imminenza di «una nube o un’ombra di mestizia o di strazio»); non usare con lo studente categorie storico-letterarie, ma categorie psicologiche (esistenziali?); o, ancor meglio far cogliere le categorie storico-letterarie grazie a quelle psicologiche, per renderle vivide, per far sì che una poesia vecchia di settecento anni ancora gli o le “comunichi” qualcosa.
D’altra parte la conclusione di Sereni (l’«adagiarsi in questa fiducia») fornisce un contravveleno a quanto di troppo facile e soggettivistico si annida in questo procedere: il linguaggio non è un mezzo immediato, in cui il mondo traspaia appena lo si nomini, è traditore, falsifica, mente, può cristallizzarsi in formule e diventare inerte e trito. Una saggia forma di cautela contro la retorica dell’immediatezza, che non è meglio della sensazione di freddezza davanti alla distanza storica della poesia passata.
Amor personale e sistema
Sereni, Leopardi, Petrarca si sono incontrati in una lettura estiva, fatta per amor personale, ma anche con la “deformazione professionale” del docente che cerca di distillare suggerimenti didattici da tutto ciò che legge, vede, ascolta. Si tratta di un’alchimia tutta privata, ne convengo. Le associazioni mentali che ho appena cercato di ricostruire sono scattate in me, e con Sereni. Molto probabilmente l’esperimento non è ripetibile: in qualcuno l’alchimia neanche si produrrebbe, in altri se ne produrrebbero di diverso genere.
Ebbene, è proprio qui che è scattato il corto circuito con le proposte di riforma: di fronte a un sistema – come quello disegnato dalle Linee guida – in cui la qualità di un insegnante è contabilizzata sulla base di un sistema di crediti, di fronte all’imperativo, sovreccitato nel tono e però piuttosto vago nei contenuti, di essere «innovativi» (insieme a «rinnovare» e «innovazione» la parola è ripetuta 60 volte, in ogni possibile contesto), di fronte a un modello di scuola in cui per ottenere la qualifica di bravo insegnante è necessario far qualcosa di visibile (come partecipare a un progetto: innovativo, ovviamente), per far cogliere lo scarto di eccezionalità rispetto al quotidiano entrare in classe, entrare in biblioteca, sedersi alla scrivania per leggere e studiare, queste private riflessioni diventano private ubbie. Il mio imbarazzante otium literatum estivo non è misurabile, impiegabile, generalizzabile, ed è pure un losco privilegio.
Da un lato una soggettività irriducibile, dall’altro una politica che ragiona solo sul funzionamento del sistema: fatto inevitabile, naturale, accettabile, giacché la scuola è un’istituzione, se solo non si avesse la sgradevole impressione che si pensi di risolvere tutto e subito pensando solo a quello.
Quattro temi di riflessione
Si dirà che non si può demandare (o non si può più demandare) l’aggiornamento alla buona volontà dei singoli insegnanti. E sia. Ma come creare un sistema di aggiornamento che funzioni? Senza la pretesa di fornire un regesto esaustivo, a me pare che al MIUR non abbiano riflettuto a sufficienza su questi temi.
1) Un docente ha ancora bisogno di teoria e di conoscenze disciplinari. Nell’universo in espansione dello scibile le cose che si ignorano delle proprie discipline dopo un percorso universitario pur eccellente sono moltissime. Aggiornamento significa banalmente ampliare, anno dopo anno, le proprie letture. Ma significa, naturalmente, anche una seconda cosa. Benché ai profani ciò sfugga, non sono solo le conoscenze scientifiche a essere superate: anche nel campo delle discipline storiche ed ermeneutiche le conoscenze (meglio, le interpretazioni) invecchiano. Dunque l’insegnante deve conoscere almeno un po’ i nuovi orientamenti della ricerca, che si tratti di letteratura, di lingua, di filosofia, di arte. Per fortuna le radicali revisioni critiche non avvengono ogni anno e ogni volta per ciascun autore, movimento culturale, epoca, genere, tema … Bisogna concentrarsi su ciò che è essenziale e dire che cosa lo sia è compito dell’università, che dunque deve avere una funzione importante nel sistema di aggiornamento dei docenti: ad essa (come ad associazioni di didattica di chiara fama) dovrebbe essere demandato l’approntamento di corsi di aggiornamento, ma anche quello di bibliografie selezionatissime e fruibili. Invece l’università non è mai nominata in queste Linee guida, se non per denigrarne, ammiccando ai colleghi annoiatisi al corso di qualche accademico, la frontalità e la fumosa ed esclusiva propensione per la teoresi (La buona scuola, pp. 46-47).
2) Ha bisogno di buona teoria e di buone conoscenze disciplinari. L’insegnante deve avere conoscenze anche specialistiche, mai però iperspecialistiche: servono orientamenti generali, ampi quadri teorici e critici, una costante attenzione alla spendibilità didattica delle conoscenze, una maggiore attenzione all’immaginario giovanile e ai contesti d’insegnamento (un esempio concreto: manca a tutt’oggi una didattica della lettura calibrata sulle scuole medie. Le sparse esperienze e riflessioni che esistono vanno valorizzate e diffuse: cfr. S. Giusti, Insegnare con la letteratura).
Serve una nuova sinergia tra università e scuola, per la costruzione di modelli, pratiche, categorie che colmino la lacuna tra raffinatissimo sapere specialistico e piccolissimo cabotaggio didattico; bisogna mandare a regime le scuole di specializzazione, uscendo da logiche emergenziali e affidando ad esse anche compiti di aggiornamento, dal momento che sono l’unico luogo nel quale docenti universitari e della secondaria si incontrano fisicamente e possono scambiarsi saperi ed esperienze e fare progetti. Le Ssis erano un buon modello. Personalmente ritengo che avessero molti difetti e che necessitassero di una messa a punto, ma si tratterebbe di una buona base di partenza.
Il modello di aggiornamento proposto dal Governo invece recide definitivamente quel già sottilissimo filo che legava scuola e università, chiudendo la prima nel suo mondo di pratiche, trite o – non appena le Linee guida diverrano decreto – rivoluzionarie, e la seconda nella sola funzione di ricerca. Non è un vezzo osservare che, per la cultura umanistica, questa scissione è mortale, non avendo la ricerca in questo settore un senso se non nel costante richiamo alla società che vive fuori dalle sue biblioteche e archivi, in primo luogo alla scuola.
3) Ha bisogno di un modello di didattica sano. Bisogna uscire da uno dei più grandi equivoci del nostro tempo: la didattica ricorre anche a tecniche, ma non è téchne bensì prâxis, ragione politica. Pensare di poter uscire dalla crisi limitandosi ad applicare indistintamente l’apprendimento cooperativo o una generica “laboratorialità” alla storia dell’arte, alla matematica, alla filosofia, al laboratorio di cittadinanza e costituzione, senza interrogarsi su quali forme peculiari a essa sola assuma ciascuna disciplina nel momento in cui ci si trova a mediarla agli studenti, significa non aver chiara la portata dei problemi che dobbiamo affrontare (cfr. «L’hai preparata l’unità didattica?». Téchne e prâxis nella formazione degli insegnanti).
In queste Linee guida la didattica, e la didattica delle singole discipline, è la grande assente e le si preferisce una generica enfasi verso la citata ‘“innovazione”, come se tale qualità esistesse allo stato puro; soprattutto si insiste sul fatto che tale qualità dovrà essere offerta in modo trasparente e misurabile, per garantirsi la «premialità» dei crediti e del conseguente scatto stipendiale. Non è molto chiaro con quali procedure tali valutazioni verranno fatte: si parla di un Nucleo di valutazione interno alle scuole e di un ristrettissimo numero di «docenti mentor» (p. 57), responsabili della verifica dell’aggiornamento dei colleghi. Ma chi, e come, valuterà la pertinenza e l’efficacia didattica di una lezione di filosofia e non di matematica, di storia dell’arte e non di scienze della terra?
4) Ha bisogno di respiro, di tempo, di informalità, di sano confrontointersoggettivo. Un sistema di aggiornamento degno di un’istituzione culturale ed educativa come la scuola dovrebbe esssere in grado di creare le condizioni favorevoli all’esplicazione della passione per la cultura, per lo studio, per la ricerca, per la sperimentazione, in primo luogo individuali, perché questo fa di un insegnante un bravo insegnante. Ma se un insegnante è bravo davvero, si preoccupa non solo di ciò che il suo sapere fa di lui, ma anche di ciò che egli può, col suo sapere, fare con gli altri e per gli altri: ed ecco l’attenzione pedagogica agli allievi, la disponibilità al confronto con i colleghi, la messa in comune di esperienze, anche il desiderio di sperimentare e, sì, innovare.
La scuola è davanti a una crisi culturale, che coinvolge l’intero sistema dei saperi e la società stessa. Solo dentro la scuola, nel rapporto tra docenti e docenti, e docenti e studenti (magari ripensando radicalmente la funzione dei Dipartimenti, che sono, non a caso, organizzati per materia), si può pensare di rispondere alla crisi: crediti, nuclei di valutazione, esasperata ricerca di progetti nuovi, la avviteranno, al contrario, nella convulsa ricerca di una ribalta da cui mostrare di meritarsi la stelletta, nonché qualche decina d’euro in più in busta paga, visto che il nuovo sistema è integralmente venale: e non solo gli aumenti stipendiali dei docenti, anche i fondi d’istituto e i compensi dei dirigenti scolastici saranno sottomessi alla logica della valutazione.
Rispettare le vere esigenze di aggiornamento
Ricapitoliamo: il tempo concessomi in questo luglio mi è servito per ampliare informalmente le mie conoscenze disciplinari; le nuove conoscenze mi sono servite per costruirmi qualche buona categoria, utile a risolvere alcuni problemi vivi della didattica della letteratura. A settembre, al rientro a scuola, si tratterà di provare a cambiare alcuni aspetti della mia praticadidattica, verificando l’esito dei cambiamenti e, perché no, mettendo la mia esperienza a disposizione dei colleghi, ottenendo da loro suggerimenti, secondo un modello di buona intersoggettività, invece che di competizione per accaparrarsi l’aumento di stipendio.
Il sistema architettato dal Miur è in grado di rispettare questo? Ne dubito, e radicalmente, perché nessun nucleo di valutazione, docente mentor, valutazione di progetto è in grado di dare il giusto rilievo alle mie letture estive e al loro riverbero sul mio mestiere.
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NOTA
L’immagine rirproduce l’installazione Bourrasque di Paul Cocksedge, Lione, Francia 2012.
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