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diretto da Romano Luperini

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Intervista di Filippo La Porta a Romano Luperini. Che cos’e’ la letteratura oggi?

 Questa intervista a cura di Filippo La Porta è uscita il 23 febbraio 2017 su www.wikicritics.com.  Si ringrazia l’editore Enrico Damiani per la gentile concessione.

1) Cominciamo con una domanda banale. Se qualcuno ti dice che vuole scrivere un romanzo è legittimo chiedergli “Hai qualcosa da dire?”

“Qualcosa da dire” non significa nulla. Uno scrittore cerca il senso, o il non-senso, della vita. Lo può cercare nella storia, nell’amore, in una vicenda privata o in una collettiva, o anche in una visione del mondo comunque verificata…Non importa dove, in quale tipo di storia, ma come, con quale rovello, con quale gioco formale, con quale profondità. Uno scrittore cerca comunque di capire in quale mondo ci tocca di vivere. Per questo continua a interessarci anche  secoli dopo che ha scritto. Perché quello che scrive ci riguarda, riguarda il nostro destino, il significato che diamo alla vita, al nostro essere nel mondo.

2) L’anima del romanzo è la ricerca della verità (Stendhal). Non voglio buttarla sul filosofico ma ha senso per te parlare oggi di “verità”, oppure è soltanto un anacronismo (per Carlo Freccero, neosituazionista da talk show, “una cosa anni ’60”) o un effetto retorico (per buona parte della cultura francese para-nietzscheana degli ultimi decenni)? Esiste ancora la verità, ineludibile pur nel suo essere relativa, parziale e provvisoria (una verità che riguarda la psicologia, l’etica, l’esistenza, la nostra relazione con il mondo…)?

Se per verità si intende la ricerca di cui ho appena parlato, e non un qualche dogma precostituito, si può usare anche questa parola. Ma la verità di uno scrittore è sempre aperta, problematica, suscettibile di interpretazioni diverse. In un’opera esteticamente efficace contano le domande più delle risposte. Sta qui il suo contenuto etico. La sua verità consiste  in quelle domande. Che poi sono sempre domande di senso. La verità di un testo contribuisce  a determinare un orizzonte di verità, una verità storica, relativa, parziale. La verità storica di una società e di un’epoca è una costruzione ininterrotta di senso, e il testo vi porta  il suo contributo. Consiste  in questo la socialità profonda della letteratura. E tuttavia il problema che oggi soprattutto ci preme è il seguente: nell’ultimo capoverso ho usato ancora il presente, ho scritto “contribuisce”, “porta”, “consiste”. Non avrei dovuto piuttosto scrivere “contribuiva”, “portava” “consisteva”? La situazione che ho descritto al presente (quella cui fa riferimento Sartre) esiste ancora o fa parte di un passato ormai irrecuperabile?

3) La critica ha bisogno della Teoria (per alcuni alla teoria si è sostituita la conversazione o l’ideologia). Ora, va bene come richiesta di rigore contro la critica impressionistica e narcisistica, però nel decennio ’70 – quello dei critici-scienziati in camice bianco che riducevano i romanzi a ingegnosi diagrammi e formule tautologiche – la teoria (con  la falsa sicurezza che dà) cancellava la responsabilità soggettiva del giudizio e l’atto critico come impresa felicemente personale e avventurosa. Non è un rischio?

Diceva Baudelaire che in ogni poeta che si rispetti c’è un critico. Ciò vale anche per un romanziere. Contini avvisava (per Montale ma non vale solo per lui) che l’arte nasce da un processo di “saturazione culturale”. Anche lo scrittore più improvvisato e sprovveduto, anche un autodidatta di provincia come Tozzi, ha alle spalle una coscienza critica. È questa coscienza critica che contribuisce a determinare la ricchezza del suo messaggio. Non si tratta, negli scrittori veri, di applicare una Teoria precostituita ma di mettere in gioco una serie complessa di competenze anche teoriche. Ovviamente in modo ogni volta libero e  personale (rischioso più che “avventuroso”, direi).

4) Siamo minacciati dalla cultura unica del bestseller. Ma purtroppo non è neanche dimostrato che il successo di un libro  sia inversamente proporzionale alla sua qualità, né che i libri migliori siano quelli pubblicati da piccoli e coraggiosi editori (sarebbe troppo facile…). Ritieni che il mercato (intendo un vero mercato, non quello truccato di oggi, con le corsie  preferenziali per i volti televisivi e i premi spesso decisi da piccole lobby) specie per un genere “popolare” come il romanzo resti  comunque una verifica preziosa, non del tutto evitabile?

Nella risposta alla domanda n. 2 mi chiedevo se ciò che valeva per Sartre o per Benjamin e che certamente valeva ancora per Calvino o Pasolini o Zanzotto, abbia valore ancor oggi. Il dominio incontrastato del mercato, dello spettacolo, della televisione ha riempito di estrogeni la produzione narrativa (meno quella poetica, che quasi, in Italia, “non ha mercato”). Basti guardare la top ten list che vede in testa romanzi mediocri di giornalisti, presentatori televisivi, uomini dello spettacolo e talora della politica che, fra una comparsata e l’altra, buttano giù delle storie per il gran pubblico. C’è come una compagnia di giro formata dagli stessi personaggi che in TV si presentano a vicenda i propri romanzi, scalando così le classifiche dei giornali. Non esistono più le recensioni, non esiste più la critica. Certo a volte (raramente peraltro) si può intrufolare nella top ten list anche qualche scrittore vero che per una serie di contingenze favorevoli (l’argomento di cui tratta, per esempio) diventa per qualche tempo un autore di successo. Ma il mercato non verifica nulla. La ricerca di senso di uno scrittore può anche, qualche volta, incrociare le classifiche (che, non si dimentichi, sono classifiche di mercato, merceologiche, e non di valori letterari), ma può restarne anche tranquillamente fuori. Il mercato fa il suo lavoro; che la letteratura, se ci riesce, faccia il suo. È vero però che per la letteratura riuscirci è sempre più difficile, tanto è diffuso (anche nei nostri polmoni, e anche se non lo  vogliamo) l‘inquinamento. D’altronde il mercato è il nostro orizzonte e lo scrittore deve in ogni caso farci i conti. Ma non per assorbirne gli estrogeni passivamente, piuttosto per farlo diventare aspetto problematico (sul piano tematico e soprattutto su quello linguistico e stilistico) della propria ricerca di senso.

5) Nella mia personale utopia abita un critico come “individuo” – inappartenente, solitario, indocile – . Ora, se fino a ieri questo critico si appoggiava a una tradizione abbastanza stabile, non ancora depotenziata (l’alta cultura), a una dialettica della Storia (marxismo), a soggetti  o classi che si volevano rivoluzionari ma in seguito scomparsi (classe operaia, movimenti di liberazione), oggi su cosa si sostiene? Non somiglia al barone di Munchausen che si prende il proprio codino per tirarsi su?

La separazione fra i valori del mercato e quelli della letteratura è sancita dalla fine della critica che un tempo svolgeva il compito di mediazione fra opere e pubblico. In mancanza della critica è il mercato che la fa da padrone. Non esiste neppure più un canone condiviso a livello nazionale. Esistono miriadi di canoni settoriali, tanti quanti sono le pieghe della società civile,  e in continua vorticosa trasformazione. Un tempo esisteva, nel bene e nel male (anche nel male, come tutti sanno) una società letteraria. Per decretare il successo di Ungaretti e il suo ingresso nel canone nazionale bastarono ottanta copie del Porto sepoltoinviate ai critici e ai recensori del tempo. Quella era la società letteraria di allora. Oggi non esistono più le recensioni e sui giornali chi si occupa di letteratura dipende dal marketing delle case editrici o dal pettegolezzo della cronaca. D’altra parte la critica universitaria è chiusa nella istituzione, è a circuito interno, e non ha più sponde nella società civile. In una parola sola: è autoreferenziale, e interessa solo agli addetti ai lavori (quasi sempre, in quanto studenti o colleghi, coatti). Il critico che vuole continuare a fare il critico (qualcuno c’è ancora) deve fingersi un pubblico, è costretto a rivolgersi a lettori virtuali, a fare come il barone di Münchausen che si tirava fuori dalla palude prendendosi per il codino (così, efficacemente, si legge  nella domanda). Per questo oggi la critica (quello che resta della critica) è una impresa difficile, una scommessa. Il critico infatti, come per altri versi e in altri modi lo scrittore, cerca nelle opere non la verifica di una teoria precostituita o di una precostituita ideologia, ma il senso della vita. Ma c’è qualcuno a cui ciò interessi ancora?

6) La letteratura autentica (penso alle grandi opere del modernismo), se a un primo livello educa lo “spirito” e amplia l’immaginazione (ed è giusto insegnarla a scuola e farne la base per la cittadinanza), alla lunga crea o può creare disadattati, persone asociali, intrattabili, destabilizzate. La sua verità è sovversiva e disturbante. In questo senso forse è giusto che venga coltivata da minoranze, che non diventi mai davvero di massa?

Non è giusto. Non è giusto che la vera letteratura sia coltivata solo da minoranze. Può essere inevitabile, e probabilmente lo è, ma ciò non significa che sia giusto.

Come ricorda Filippo La Porta nella introduzione,  l’opera è un appello alla coscienza e alla libertà. Aggiungo che è un appello rivolto a tutti. Uno specialista si rivolge a  un pubblico settoriale, ma uno scrittore si rivolge a tutti Certo non può ignorare la istituzione di cui fa parte che indirizza l’opera alle élites e prescinde, per esempio, dagli analfabeti o dagli  illetterati (soprattutto, poi, nei tempi moderni quando vengono del tutto meno la narrazione orale e l’abitudine alla lettura pubblica). Ma lo scrittore, di per sé, vorrebbe che il suo bisogno di senso coinvolgesse gli altri, senza esclusione. La letteratura si rivolge tendenzialmente a ogni lettore, anche del futuro, anche di altra lingua; tende a una universalità senza confini. Sarebbe dunque giusto che tutti potessero accoglierla. Ma oggi non è così. In realtà da secoli l’arte, in quanto istituzione, è rivolta alle classi dominanti, a quelle che hanno tempo libero e  “gusto” (due cose spesso collegate). Dapprima, a partire dal Settecento, la produzione romanzesca è stata destinata alla borghesia, poi a settori di essa sempre più ristretti. In Italia questa restrizione è già evidente nel “fiasco, fiasco pieno e  completo” dei Malavoglia e poi continua con Svevo, Tozzi, Gadda, tutti autori con pochi lettori, ma almeno riconosciuti dalla critica (basti pensare alla funzione che ebbero per loro  Russo,  Debenedetti, Borgese, Contini). Figuriamoci poi “le grandi opere del modernismo” europeo (dall’Ulisse all’Uomo senza qualità), in Italia ignorate anche a scuola sino agli anni sessanta. La situazione oggi si è ulteriormente definita perché non esiste più nemmeno una borghesia colta. Un tempo era frequente che un medico, un notaio, un avvocato, un uomo politico  avessero interessi letterari e sino a metà del Novecento non era concepibile, per esempio, che un deputato non conoscesse qualche opera di Carducci, Pascoli e d’Annunzio, e magari, nel dopoguerra, anche di Pavese, Vittorini, Ungaretti e Montale. Oggi la maggior parte dei parlamentari non ha mai nemmeno sentito rammentare i nomi degli scrittori contemporanei più noti (almeno che non siano anche famosi giornalisti, come  Saviano). Chi non ricorda la reazione di un ministro berlusconiano alla proposta del presidente della Repubblica di allora di nominare Luzi senatore a vita? D’altronde, l’ho già detto, manca un canone condiviso E non credo nemmeno che le opere letterarie più complesse siano ignorate perché “sovversive” o “disturbanti”, come leggo nella domanda. Sono ignorate perché, nella atomizzazione presente della società, appartengono ad altri universi, estranei a quelli frequentati dalla maggior parte dei potenziali lettori. È la letteratura in quanto tale che è diventata estranea alla società di oggi, come sanno bene i docenti delle scuole medie che incontrano sempre maggiori difficoltà a mediare fra il mondo attuale (e i suoi linguaggi) e quello di Leopardi o di Svevo (e i loro linguaggi).In questa situazione inevitabilmente il pubblico delle opere dotate di spessore letterario, e cioè di una intenzione di stile e di una complessità di temi e di interrogativi, è di necessità ridotto. Si va verificando forse quello che da anni è evidente in campo musicale dove c’è la grande massa che ascolta le canzoni di San Remo e gruppi molto più ristretti di “amatori” che vanno ai concerti di musica classica.

7) Puoi dirmi che cos’è la letteratura, in poche righe (sei libero di non rispondere)?

La letteratura è (era?), già l’ho detto, una inchiesta sul senso o sul non-senso della vita. Ne deriva che ha anche, come effetto, un valore conoscitivo. Dà un contributo alla conoscenza del mondo. Ma è una conseguenza del lavoro estetico, non il suo fine. La finalità dell’arte è un’altra. Chi scrive opere dotate di spessore letterario obbedisce anzitutto a un bisogno estetico: vuole dare forma a una ricerca di senso, far vivere la complessità in un suo ordine che la sollevi dall’usuale e dall’automatico e la disciplini (e non importa se è un ordine apparentemente “disordinato”, espressionistico, informale ecc.). Lo voglia o no, mira, come diceva Sanguineti, al museo (o all’antologia). Mira al “bello”. Può denunciare l’inferno di una condizione storica, ma l’effetto della denuncia sarà comunque “bello”. Rosso Malpelo descrive l’inferno di una cava (ce lo fa conoscere), ma la descrizione di quest’inferno alla fine è “bella”. «Quante rose a nascondere un abisso», diceva Saba parlando della  poesia. Per questo un’opera letteraria non è né di destra né di sinistra, non è “progressista” né “reazionaria”, né democratica né aristocratica. Anzi è insieme, in un nesso difficilmente districabile, democratica e aristocratica, di sinistra e di destra, progressiva e reazionaria.  Céline può essere apprezzato da un intellettuale marxista e Brecht da uno fascista. «L’arte – spiegava Marcuse – non richiede nessun obbligo». Gli ufficiali nazisti amavano la grande musica classica, e Wagner poteva essere amato da Hitler ma anche da un uomo di cultura di sinistra. E tuttavia l’arte può  diventare di destra o di sinistra. Dipende (o dipendeva?) da come viene letta. L’opera, una volta pubblicata, entra nel conflitto delle interpretazioni, ed essendo complessa e problematica si presta contemporaneamente a diverse e anche opposte interpretazioni. È in questo modo che contribuisce (contribuiva?) alla formazione sociale di senso. Il critico e gli altri mediatori sociali (soprattutto gli insegnanti) ne fissano  un senso possibile, un senso mobile, precario, sdrucciolevole, e nondimeno dotato di una qualche durata e consistenza. E così, per qualche decina di anni, Dante è diventato, grazie a Foscolo e poi anche a De Sanctis, una figura cara al nostro Risorgimento e la  Commedia un’opera progressiva che a esso preludeva.La grande letteratura, come la grande arte (pittura, musica…), è dunque, si è detto, complessa, problematica, ma è anche  doppia, ambigua: è uno splendore che copre un orrore. Non c’è documento di civiltà, ci ricorda Benjamin, che non sia anche documento di barbarie. L’inferno di Dante o quello di Rosso Melpelo sono anche documento di barbarie (e non solo perché, come ci ricorda Marx, i polpastrelli di Beethoven presuppongono i calli alle mani di chi lavorava per lui e per i suoi protettori, o perché, per restare alla letteratura, le grandi opere selezionano in partenza  il proprio pubblico, escludendone una grande parte, ma anche perché rappresentano l’orrore della nostra civiltà). Il lettore (il critico o l’insegnante)  può però guardare attraverso le rose di Saba e intravvedere l’abisso che esse coprono o nascondono, farcelo conoscere (è, questo, direbbe Benjamin, il “contenuto di verità” dell’arte): lavorando sullo splendore formale possono attraversarlo e portare alla luce il nocciolo d’orrore che esso porta in sé. La verità dell’arte sta in questa contraddizione. Il lettore e interprete può “disambiguare”  il messaggio dell’arte, socializzandolo in un modo invece che in un altro e contribuendo così a quel complessivo conflitto delle interpretazioni da cui nasce la verità storica di una opera, di una società e di un’epoca. È per questa ragione che il senso  di un’opera (la sua verità) non è mai statica, ma si dà nel tempo, cambiando di continuo insieme con esso.


Fotografia: G. Biscardi, Cielo e specchio, Palermo.

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