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diretto da Romano Luperini

Zinato 1990 15

L’eredità di Remo Ceserani

 A Daria

Il solo modo che io conosca di combattere la morte consiste nel continuare il dialogo con chi non c’è più attraverso l’assunzione e la selezione di un’eredità culturale comune. Rinvio a questo proposito alle parole di Cesare Cases e di Franco Fortini (in “Quaderni piacentini”, n.23-24, 1965) sulla morte di Ernesto De Martino, ancora emozionanti a leggerle oggi.

Una “buona memoria” consente di pensare all’opera di Remo Ceserani proteggendola dall’oblio in modo attivo, senza rimozioni  né occultamenti. Credo che l’eredità di Remo, assumibile tanto dai docenti della scuola e dell’università quanto dagli intellettuali precari e ‘esuli’ delle nuove generazioni, sia articolabile in quattro punti fondamentali: 1) la saldatura fra ricerca e didattica; 2) la costruzione di storiografie culturali non storiciste; 3) il ripensamento della centralità dei temi letterari; 4) il tentativo militante di storicizzare il presente e di discuterne confini.

Fra ricerca e  didattica

I sintomi della sempre maggiore distanza fra ricerca e didattica non si contano più: il modo con cui vengono computati i “manuali”  nella valutazione della ricerca,  l’umiliante organizzazione dei TFA nelle università italiane, la scissione in tutto l’occidente fra atenei di serie B dediti al trasferimento sugli utenti-clienti di dati precotti e atenei di ‘eccellenza’ che praticano la ricerca, intesa come specialismo al servizio del sistema impresa.

Remo Ceserani aveva viceversa un’idea molto alta della didattica, figlia del ‘mandato’ pedagogico che dall’illuminismo in poi gli intellettuali laici hanno ricevuto dai ceti dominanti. Per rendersene conto basta rileggere il capitolo nono della sua Guida allo studio della letteratura (Laterza, 1999), un volume che, nell’edizione maggiore (796 pagg.), può rientrare nella negletta categoria dei “manuali” ma che rappresenta al contempo una preziosissima miniera di ragionamenti e di saperi. Vi si costruisce, con Bill Readings,  una possibile “scena didattica” tra le rovine, a partire dalla critica ai modelli di educazione letteraria preesistenti (la letteratura al servizio dell’educazione linguistica, come trasmissione di valori eterni  o come costruzione dell’identità nazionale, pp. 397-8). Per ipotizzare una situazione concreta e praticabile, Ceserani mostra come chi insegni debba conoscere criticamente la genesi delle teorie via via dominanti e riferisce puntualmente a tal fine il ricco dibattito nordamericano sul canone letterario e sui saperi umanistici, dando voce alle diverse  posizioni: Bloom, Altieri, Readings. Fra malinconico isolamento conservativo e sfida della  globalizzazione, prende netta posizione in direzione dell’accoglimento della sfida. La sua proposta si può riassumere così:

credo vada ripetuto con forza che i prodotti dell’immaginario sono caratterizzati da interne tensioni e contraddizioni, da bellezze estetiche ma anche da sgradevolezze conoscitive (…). Essi hanno spesso il doppio effetto di scuotere e turbare il lettore, ma anche di esaltarne il gusto vitale e raddolcirne e rappacificarne lacerazioni e amarezze. Si può discutere sull’opportunità che nel programma educativo di una formazione obbligatoria di base sia previsto un contatto pieno e ampio con un campione largo e significativo di questo tipo di opere. Io sono incline a sostenerne non solo la opportunità, ma anche la necessità, come risposta a bisogni profondi e ineliminabili dell’uomo e come elemento costitutivo centrale di ogni esperienza culturale non superficiale. (p.398)

Una simile idea di insegnamento della letteratura come esperienza complessa, a un tempo piacevole e perturbante, non può prescindere dalla saldatura tra critica e didattica: strappa l’insegnamento odierno alla logica della fornitura di servizi o del problem solving psicopedagogico, restituendolo alla sua funzione più alta.

Nuove storie letterarie

Grazie a uno sguardo precocemente non italocentrico sulle dinamiche culturali, Remo Ceserani ha saputo problematizzare l’idea tradizionale di storia letteraria. Nel volume Raccontare la letteratura (Bollati Boringhieri, 1990) si pone il problema se la storia della letteratura, messa in crisi da orientamenti diversi (dallo strutturalismo alla decostruzione alla teoria della ricezione), possa continuare a essere intesa come storia dei gruppi di scrittori e delle correnti o non sia venuto il momento di narrare la storia delle forme, delle strategie retoriche, dei temi e dei modi dell’immaginario. In particolare, ipotizza un nuovo modo di storicizzare la grande svolta della modernità, fra sette e ottocento, utilizzando con curiosità e eclettismo i suggerimenti di critici diversi come Spitzer, Rousset, Starobinski, Macchia e soprattutto Francesco Orlando (p.132). Una volta individuati nell’ironia,  nel parallelismo e nell’antitesi, i marchi stilistici dell’illuminismo, Ceserani lancia in forme interrogative la sua proposta:

Che significato dare a questi tratti caratterizzanti delle pratiche retoriche e stilistiche del secolo? Come rapportarle con i sistemi tematici, gli atteggiamenti  epistemologici, i modelli culturali, le strutture sociali che sembrano caratterizzare la vita sociale e la produzione letteraria del periodo? Qui sta uno dei momenti centrali dell’operazione storiografica (p.136)

Una storia letteraria incentrata sulle forme, così intesa, non prelude all’idea di autonomia del letterario, affermatasi a partire dal simbolismo. E’ significativo, a questo riguardo, sul piano terminologico, lo spettro assai largo e non specifico delle parole-chiave impiegate, come sistemi pratiche modelli atteggiamenti strutture, che fanno riferimento a una pluralità di orientamenti teorici e critici e che contaminano antropologia e storia da un lato e modi e temi dall’altro. Considerare una serie di opere sulla base dei loro aspetti formali, e collegarle in una dimensione temporale con le strutture economico-sociali, non significa far coincidere le due ‘serie’ ma al contrario esperire strappi, rotture, dislivelli, sedimentazioni rimosse.

La vocazione interdisciplinare contraddistingue il tentativo di Ceserani di evitare a ogni costo la messa ai margini dell’esperienza letteraria: in particolare, ereditando la lezione della storiografia francese delle “Annales”, egli ha considerato i testi letterari come oggetti da porre in connessione con la più ampia gamma di discorsi, pur non annullandone la specificità polisemica (Convergenze si intitolerà nel 2010 uno dei suoi ultimi libri). Quest’opera storiografica non è ancora stata compiuta: sul piano della manualistica scolastica, lavori come Il materiale e l’immaginario di Ceserani e Lidia De Federicis e La scrittura e l’interpretazione di Romano Luperini e Pietro Cataldi hanno tentato di aprire piste, sempre più erose e confuse dalla stagnazione scolastica attuale. Ma il tentativo di rapportare alla storia le opere letterarie intendendo la storia come la intende Benjamin nelle sue Tesi, in ragione dei tempi più bui del presente, resta urgente e necessita di un grande ingegno collettivo.

Temi: immaginario e tecnologia

Anche per la sua esperienza generazionale e biografica, tra Italia provinciale e nuova modernizzazione americana, Ceserani ha preferito indagare le rappresentazioni letterarie dell’irruzione del treno nella vita delle comunità premoderne, oltre che gli sconvolgimenti della percezione visiva, auditiva e mentale determinati dall’introduzione della fotografia, del telegrafo, del telefono, della radiofonia. Una sintesi di queste indagini è il volume Treni di carta (1993), in cui si tenta di misurare l’importanza dell’impatto della locomotiva, dei binari e delle stazioni sul mondo dell’immaginario (linguaggio, campi metaforici, invenzioni poetiche e narra­tive, modificazioni delle tematiche letterarie). Ceserani è tra i pochi studiosi italiani che, seguendo l’esempio di storici della cultura come John M. MacKenzie  Leo Marx e Marc Baroli, si sia sforzato di collocare le vicende letterarie sullo sfondo della più generale reazione agli sviluppi della rivoluzione in­du­striale. Il campo di ricerca lasciato aperto da questa direzione dei suoi lavori riguarda, dunque, a un tempo, due questioni nevralgiche e attuali: il concetto di tema letterario e il rapporto fra letteratura e modernizzazione.

Credo che la critica e la didattica della letteratura non potranno in futuro smettere di occuparsi di temi, pur con il rischio  di contenutismi e banalizzazioni: le costanti tematiche affondano le loro radici in campo extraletterario, nel rapporto dell’uomo col mondo, e sono riconducibili a esperienze profonde (come lo spazio, l’altro da sé, il corpo, la sessualità, la morte). La modernità, che per eccellenza – per via tecnologica – crea discontinuità e mutazioni traumatiche nella continuità di quelle esperienze profonde, rappresentata in un testo si presta dunque esemplarmente a verificare la tenuta cognitiva di quelle costanti e di quelle varianti. Per questo, l’incrocio fra mutamenti tecnologici e invarianti tematiche indagato da Ceserani ci serve ancora, accanto agli studi tematici di Orlando, di Luperini, di Domenichelli: per limitare l’arbitrio intertestuale, per discutere i nessi tra forme, temi e storia, e tra l’individualità del singolo testo e la serie esaminata.

Contemporaneità liquida

Ceserani è uno storiografo militante della contemporaneità. In Raccontare il postmoderno (1997) ha tentato di tracciare una mappa tematica del presente incentrata sui cambiamenti del sensorio percettivo, dei sentimenti, della rappresentazione del tempo, dello spazio metropolitano e di quello coloniale. Ha ritenuto fino all’ultimo che la trasformazione dell’occidente dalla seconda metà del Novecento in poi abbia una portata epocale, simile per potenza a quella della svolta  fra sette e ottocento, e si è posto  davanti alla condizione che ne deriva come un osservatore strabiliato, talvolta euforico, che mediante l’analisi della produzione letteraria, artistica e mediatica, ha il compito di metterne in luce  le immani mutazioni.

Le obiezioni a questa idea del postmoderno, integrata da Ceserani, sul piano dei concetti, con quella di modernità liquida desunta da Bauman, sono state molteplici e hanno interessato da vicino il gruppo della rivista “Allegoria” di cui faccio parte. Io stesso ho polemizzato con la forma postmoderna e labirintica del Materiale e l’immaginario in un saggio (Il laboratorio e il labirinto, 1993) che Ceserani definì “wishful thinking”, e poi soprattutto Romano Luperini con La fine del postmoderno (2005) e più di recente Raffaele Donnarumma con Ipermodernità (2014) e con Il faut être absolument hypermodernes (2013).

La periodizzazione che noi proponiamo, così come la valorizzazione del modernismo e l’idea di un ritorno alla realtà negli anni Zero, divergono dall’ipotesi che Ceserani condivide con Lyotard, con Eco e in gran  parte con Jameson. Considerare i fenomeni culturali del presente come un’accelerazione ipercinetica di quelli già in atto nella Parigi di Baudelaire e di Flaubert ci sembra possa descrivere meglio le contraddizioni  tragicamente aperte nel 2001 dal crollo delle due Torri, dalla grande crisi economica, dalle guerre e  migrazioni di moltitudini, dal lavoro globale e liquido, dalle nuova barbarie razzista.

Tuttavia, senza l’eclettismo arguto, alla Diderot, di Remo, che ci ricorda a ogni istante come potremmo esser preda di –ismi e di abbagli, che ci invita a guardare alla contemporaneità in modo materialistico e disincantato, la nostra posizione è  di certo più a rischio, più inerme e più sola.

Una volta, in una pausa del Convegno Postmodern impegno, passeggiavo nella notte londinese con Remo: ovunque intorno megaschermi illuminavano cangianti una folla multietnica di giovani. Mi disse, additando quel formicolio immemore di corpi come prova materiale e inoppugnabile della sua posizione: “Ecco la modernità liquida!” E il suo sorriso candido e sornione, il suo appassionato tentativo di storicizzare il presente ci mancheranno.


Fotografia: G. Biscardi, Locomotiva, Gibellina 1990.

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