
Trump e la crisi dell’Occidente
La vittoria di Trump non può stupire. E’ l’ultimo anello di una catena di avvenimenti che, a partire dagli anni novanta, stanno cambiando il volto del nostro pianeta. Le due guerre del Golfo, la politica di Bush, l’attentato alle Torri gemelle, la crisi economica dell’Europa e degli Stati Uniti, la ripresa del fondamentalismo islamico, il parallelo ritorno di movimenti identitari (nazionalistici e xenofobi) anche in Occidente, il fallimento del progetto di unità europea, l’affermazione dei partiti cosiddetti “populisti”, la vittoria di Trump sono tutti fenomeni convergenti che rimandano sostanzialmente a poche ragioni fondamentali.
La scomparsa di progettualità e di carica utopica collegata alla perdita di una prospettiva di cambiamento sociale e politico ha prodotto come conseguenza il venir meno di una ricerca di identità nel futuro e il ripiegamento sulle vecchie identità del passato di tipo religioso, economico o politico, nazionale o regionale (anche Trump rappresenta soprattutto l’identità bianca e maschilista del passato). Il trionfo del mercato e di logiche neoliberiste non più controllate o almeno in qualche modo disciplinate dalla politica e dalla cultura ha avuto come inevitabile ricaduta la disgregazione della società (nessuna società può sussistere solo sulla base delle leggi di mercato), il trionfo delle burocrazie addette alla semplice amministrazione e manutenzione del sistema e, a livello intermedio e basso, un indiscriminato e selvaggio primato dell’egoismo individuale più sfrenato e dell’atteggiamento psicologico di massa che è stato giustamente definito “narcicinismo” (narcisismo più cinismo). La drammatica crisi culturale delle élites occidentali (con pochissime eccezioni, fra le quali, almeno per stile e ampiezza iniziale di orizzonti, Obama), l’abbassamento pauroso dei loro livelli di civiltà, di educazione civile, di progettazione politica, il declino anzitutto economico (ma non solo economico) dei ceti medi e del mondo tradizionale del lavoro, hanno fatto il resto. Il grigiore opaco, moralmente gretto, delle élites europee è sotto gli occhi di tutti. L’accordo pilatesco dell’Europa con la Turchia per gli emigranti grida ancora vendetta. In Italia Berlusconi e poi Renzi sono il risultato di questo clima desolante, ma lo sono anche le loro opposizioni, e Renzi, ahimè, non è né peggio né meglio degli altri.
La campagna elettorale americana, condotta a inauditi livelli di bassezza da due candidati di infima qualità umana, culturale e politica (uno rappresentante il grigiore e il fallimento delle tradizionale élite amministrativa, priva di qualsiasi respiro culturale e prospettico, l’altro la “pancia” identitaria del paese), non è stata che il riflesso di questa situazione. E la campagna referendaria in Italia, in cui da entrambe le parti la costituzione è diventata miserabile pretesto per guerricciole di correnti e per ridicole affermazioni personali, è un altro esempio di questa disastrosa condizione dell’Occidente.
In giro non si vedono alternative. Non lo è la Cina che riesce a unire insieme il modello peggiore della logica economica occidentale e l’autoritarismo delle dittature orientali. Non sembra possa esserlo l’India o, tanto meno, il Brasile. Se qualcosa si muove, è solo nel mondo della emigrazione che è alla ricerca di nuove prospettive ed è almeno libero da ipoteche identitarie. Da questo mondo, soprattutto se sarà capace (come si diceva un tempo) di raccogliere dal fango alcune delle bandiere che l’Occidente da tempo vi ha gettato e di creare quel “terzo spazio” culturale di cui ci parla l’indiano Bahba, potranno forse venire energie e progettualità nuove. Ma ci vuole tempo, e francamente non so se ci sarà concesso.
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