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diretto da Romano Luperini

Il Novecento modernista (risposta pubblica a una domanda privata di un insegnante)

È un dato, e qualunque docente può tentare l’esperimento nella propria classe, che ogni secolo finisce per ottenere un’unica definizione di poetica, sebbene la poetica che riesce a dare il proprio nome al lungo periodo si esaurisca nel giro di pochi decenni: così il Seicento è sinonimo di Barocco, il Settecento è nella percezione comune tutto illuminista, l’Ottocento è romantico, mentre il Novecento… ancora non si sa.

Ora, il quindicennio che ci separa dall’ormai passato XX secolo può sollecitare e legittimare qualche tentativo definitorio; tentativo che proprio per centrare il suo obiettivo non può non essere lapidario e apparentemente estemporaneo (e dunque in parte anche inesatto), sebbene comunque meditato e consapevole del dibattito critico.

Perché un’etichetta di poetica si imponga e diventi espressione di un’epoca sono necessari essenzialmente due fattori. Il primo è strettamente legato al canone: ci sono degli autori che, indipendentemente dal successo avuto in vita, vengono situati al centro del campo letterario, letti e studiati a distanza di anni, indicati costantemente come metro di giudizio; e questo anche nei casi in cui un criterio quantitativo (il numero di opere prodotte in un certo periodo) indurrebbe a riconoscere in altre espressioni artistiche la forma dominante. Così, per il Novecento, Kafka e Musil, Proust e Joyce, Pirandello e Svevo si candidano alla figura di padri fondatori del nuovo mondo, sebbene nello stesso arco di anni la produzione corrente, letta e apprezzata, fosse più legata a moduli estetizzanti e veristici. In secondo luogo certe opere riescono a imporsi nel tempo perché sono in perfetta sintonia con le coeve (e durature) sollecitazioni filosofiche, scientifiche e in parte politiche. Detto in maniera molto brutale, determinati romanzi e specifiche raccolte di poesia, oltre che monumenti, sono anche documenti culturali, espressioni di una percezione del mondo diffusa e, molto spesso, inconsapevole. Al di là delle agguerrite analisi intertestuali, che certamente possono chiarire e modificare il quadro di singoli autori, è indubbio che il romanzo primonovecentesco ha qualcosa da spartire con Bergson e Minkowski, con Freud e Jung, con Poincaré ed Einstein. E proprio per questo motivo, quanto segue dagli anni Quaranta in poi, postmoderno compreso, è inevitabilmente connesso, secondo un complicato rapporto di mediazioni, filiazioni e tradimenti a quanto è preceduto.

Il modernismo è la categoria con la quale si indica un arco temporale che grossolanamente va dal 1900 circa (1904 in Italia: pubblicazione de Il fu Mattia Pascal) al 1940 circa (nel ’41 muoiono Joyce e Woolf; mentre in Italia l’uscita de Gli indifferenti, 1929, segna già il ritorno a forme di realismo più tradizionale; senza che questo implichi ovviamente un giudizio di valore). E ciò che contraddistingue il modernismo è sostanzialmente il tentativo ostinato di cercare la verità (e dunque di poter descrivere fedelmente il mondo) e la consapevolezza che questo obiettivo non sarà mai raggiunto; anche perché il medium stesso della scrittura (e della letteratura) è deformante e prismatico: «Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!», sosteneva Zeno, commentando il suo memoriale, appunto scritto. Come giustamente sostiene Donnarumma, «per i modernisti la verità va detta o almeno allusa nelle finzioni e nell’alterità della lingua e della letteratura, senza l’illusione di un suo accesso diretto». Naturalmente rientrano in questo discorso la rappresentazione della vita psichica del personaggio – che è assolutamente un obiettivo e un miraggio al contempo, poiché la linearità della scrittura non può riprodurre la simultaneità del pensiero –, la percezione di una vita quotidiana che è sinonimo di trauma non superato (da cui deriva il sintomo principe dell’instabilità del personaggio), e la costitutiva inattendibilità del narratore, impossibilitato a cogliere il vero nella sua pienezza. Sul fronte poetico, poi, questa continua mediazione si esplica anche a livello di registro stilistico, con un «classicismo paradossale» che da un lato accoglie la prosaisticità del contemporaneo e dall’altro, mantenendo un’istanza classicista, vuole conservare un registro alto: complessità e comunicatività (o dialogismo se si preferisce) sono appunto le caratteristiche di Ossi di seppia, delle Occasioni e del Canzoniere sabiano.

Ora, questa stagione costituisce senz’altro un punto di non ritorno. Dopo l’esperienza joyciana, sveviana, woolfiana ecc. non è più possibile utilizzare certi elementi e certi termini in maniera neutra e imparziale come prima. Per questo motivo tutta la successiva “poetica” del nuovo realismo – che si apre appunto con Moravia, e prosegue nel Neorealismo e coinvolge il Calvino della Speculazione edilizia e di Una giornata; passando per Bassani, Cassola, Soldati e altri – finisce per essere letta come una negazione di quanto preceduto: per certi aspetti, visto da lontano, il periodo 1929-1963 (IndifferentiGiornata di uno scrutatore) sembra recepire la lezione modernista, per in qualche modo negarne la carica eversiva, e recuperare così la fiducia, che sembrava persa, nella parola narrativa. È una fase letteraria, insomma, che in qualche modo deve essere letta in contrapposizione ad un modello forte che è quello modernista; che proprio nel suo essere negato conferma la sua centralità. E lo stesso postmoderno, che si poneva come l’antagonista del primo Novecento, poiché volto a soppiantare il passato per aprire a un’epoca nuova, per certi aspetti può essere riassorbito in una dialettica del modernismo: è nel modernismo stesso infatti l’opzione della dissoluzione e dell’entropia distruttiva. Sia sufficiente aprire Finnegans Wake (di cui ho letto solo qualche decina di pagine, e oltretutto in traduzione; traduzione?) per toccare con mano come sia il modernismo stesso a travalicare i suoi limiti.

Ma il modernismo informa il XX secolo non solo nelle sue negazioni, ma anche in alcune ostinate e insopprimibili persistenze (per alludere al bel libro di Madelyn Detloff, Persistence of Modernism). Si pensi ad esempio a Fenoglio (non solo il Partigiano Johnny, mai certo delle sue riflessioni, ma anche a Una questione privata, la cui strada per la verità è sempre costantemente bloccata), a Volponi (qual è il nome del protagonista di Corporale? Gerolami Aspri o Joaquín Murieta?) o in tempi più recenti a Pecoraro: autori, questi, insieme ad altri, che al netto di differenze relative a coinvolgimento ideologico, azione sociale e istanze realistiche più esibite, continuano la rappresentazione del quotidiano, della vita psichica e del personaggio in genere nelle modalità suggerite e offerte dai “padri modernisti” (e un discorso simile si potrebbe proporre per la poesia: ad esempio il rapporto di Sereni e Zanzotto con Montale).

Se ne ricava che il Novecento è modernista, e che il modernismo può essere la categoria letteraria del Novecento. Paradossalmente questo si riscontra sia nelle continuità, che nelle fratture e nelle negazioni: ma non è certo questo che spaventa, poiché, com’è noto, proprio il paradosso, il compromesso, la mediazione sono istanze tipiche del modernismo occidentale.

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