
The Knick: i turbamenti dell’uomo moderno
[Avvertenza: contiene spoiler]
L’otto agosto 2014 sul canale Cinemax (di proprietà HBO) viene mandata in onda The Knick. Creata da Jack Amiel e Michael Beglel e diretta dal regista Steven Soderbergh, The Knick si è imposta da subito nello sterminato panorama televisivo, ottenendo un grande successo di pubblico e critica.
La prima stagione, di dieci episodi della canonica durata di circa cinquanta minuti, è ambientata al Knickerbocker Hospital, situato nei bassifondi di New York, nell’anno 1900. L’episodio pilota si apre con due sequenze opposte: al Knick, nomignolo dell’ospedale, allo scattare del secolo arriva l’illuminazione elettrica, e parallelamente, però, si spegne un’altra luce. Al contempo il primario, il luminare J. M. Christiansen, si suicida dopo l’ennesimo fallimento di un’operazione. Il suo posto è occupato da John Thackery, interpretato da un eccezionale e baffuto Clive Owen, che si trova a fare i conti con l’eredità (professionale ed esistenziale) del mentore e con una dipendenza da cocaina e da oppio. Thackery ricorda dr. House, di cento anni prima, drogato e razzista (ma non fino in fondo), che come lo Sherlock di Cumberbatch riesce a sublimare metodo e pazzia. Accanto a lui troviamo numerosi personaggi interni all’ospedale: il Dr. Edwards medico nero che tenta di emergere in una società xenofoba, Cornelia donna emancipata e progressista, l’infermiera Lucy credente e “provincialotta”, l’amministratore Barrow emblema del connubio tra sanità e speculazioni finanziarie, e così via.
Al Knick, recita lo slogan della locandina, è iniziata la medicina moderna, ma la strada è lastricata di tormenti: «il lavoro sarà duro, le ore saranno lunghe, i risultati saranno lenti e altalenanti e dovremmo assistere a non pochi decessi sotto i ferri», avverte Christiansen. I luoghi cardine dell’ospedale sono il laboratorio patologie, in cui si sperimenta senza limite etico («lo studio dei morti è l’unico modo per progredire nella conoscenza dei vivi»), e il “teatro”, la sala operatoria dove Thackery mette in scena le sue operazioni-spettacolo. Risolvere i misteri del corpo umano è la porta d’accesso per il nuovo secolo, ma allo stesso tempo si collega al desiderio di apparire, alla spettacolarizzazione dell’individuo, ad un narcisismo del soggetto. Questo è il primo sintomo della malattia sociale messa in scena, ma la serie non si ferma qui. The Knick viviseziona una società ossessionata dal progresso, in cui tutto si muove velocemente, forse troppo. La corsa verso il futuro assume le caratteristiche di una droga, dal cui contagio nessuno dei personaggi può sottrarsi: gli effetti collaterali sono molti. Il progresso nasconde quindi ansie, mancanze e fratture: una forma di schizofrenia che ondeggia tra euforia e insoddisfazione.
Ma «benché sia pazzia, c’è del metodo in essa». Come Amleto, i personaggi cavalcano l’onda della pazzia alla costante ricerca della realizzazione esistenziale, di una “procedura” che possa salvarli. Tuttavia il ritmo diventa sempre più incalzante di episodio in episodio, facendo intuire che il crack è dietro l’angolo. Come ogni finale di stagione necessita, le storie dei personaggi devono essere spinte fino a un punto di rottura (forse un po’ prevedibile, ma che nella realizzazione funziona). È significativo che, prima dei personaggi, sia New York stessa a esplodere, nella puntata sette Get the Rope, in un tumulto razziale: segno che la crisi coinvolge tutti.
Insoddisfazione, narcisismo e mancanza di controllo danno una visione cinica e disincantata dell’America di ieri e anche di oggi. Tra lotte razziali, sifilide, tifo, navi cariche di migranti, speculazioni economiche e criminalità la serie ricostruisce il primo anno del ventesimo secolo nella città emblema della modernità. Siamo quindi agli esordi di un nuovo mondo, nello specifico quello americano, che cambia sempre più rapidamente sotto le spinte propulsive della tecnologia e delle rivoluzioni socio-economiche. Attraverso un’accurata ricostruzione storica, la serie ci porta nel cuore della creazione dell’uomo moderno: la medicina è il mezzo per mettere in scena tutto questo.
In queste settimane è in corso la seconda stagione. Dopo una prima puntata abbastanza deludente (viene utilizzato il cliché di ricreare il vecchio intreccio senza un’adeguata profondità psicologica) le storie dei personaggio continuano la loro corsa. Ancora una volta è Thackery il direttore del «circo», immerso tra sangue e cocaina; ma in questa fase la ricerca si fa più intima: sferruzzare cadaveri e uomini vivi ha l’obiettivo di trovare l’origine delle sue ossessioni. Dipendenza e velocità sono sempre le costanti di una serie che mette al centro il corpo dell’uomo, terreno di pulsioni profonde, ma anche oggetto per l’autocelebrarsi e per accumulare profitto («il momento di investire è quando il sangue scorre per le strade»).
Rimane da analizzare la regia di Soderbergh, “pezzo forte” della serie. Non è certo la prima volta che un regista famoso si presta al mondo della tv. Da Lynch in poi, passando per Fincher e Scorsese, le nuove modalità narrative hanno convogliato sempre di più l’attenzione verso l’universo televisivo. Soderbergh però, dirigendo tutti e dieci gli episodi, porta a compimento il percorso che vede gli scambi tra film e serie tv farsi sempre più stretti, approdando a un estetica cinematografica coesa e di qualità. Un’impostazione autoriale quindi che, attraverso il connubio tra musiche elettroniche (di Cliff Martinez, compositore di fiducia del regista), angolazioni sghembe e un movimento altalenante della telecamera (si alterna quella a spalla con la steadicam), dà vita a una visione adrenalinica e vertiginosa. La cinepresa sembra seguire, se non addirittura spiare, l’attore, riproducendo atmosfere documentaristiche. L’utilizzo della luce naturale (la fotografia è curata sempre dallo stesso regista) completa il processo di creazione di un’immagine realistica e perturbante che rimane distante e vicina allo stesso tempo.
Per concludere merita di essere notata la cura con cui Soderbergh esplica il contrasto tra l’oggetto e il corpo. In moltissime scene bottiglie, lampade e porte occludono la vista, si frappongono tra l’attore e lo spettatore. Questa prepotenza dell’oggetto definisce la prospettiva della scena, rappresentandone il punto focale. L’oggetto quindi per Soderbergh diventa la chiave di accesso alla realtà. Ad esempio nella puntata cinque, They capture the heat, la bicicletta dell’infermiera Lucy diventa il mezzo per entrare in contatto con lo spazio circostante («adoro guidare in città, mi fa sentire parte di essa»). Di contro si propone la crudezza del corpo esposto nella sala operatoria, che senza censure viene tagliato, sfregiato, e infine rischia di essere mercificato. L’immagine finale della prima stagione corona il distopico rapporto tra l’uomo e l’oggetto: il primo piano di Thackery viene sfocato, e accanto a lui compare la boccetta di eroina, ovvero la medicina della Bayer che elimina i dolori.
In definitiva The Knick si inserisce nella scia di film e serie tv che negli ultimi anni ridiscutono, interpretano e criticano la modernità americana. Avvalendosi di cast, regia e tecnici d’eccellenza la serie regala allo spettatore un ottimo prodotto, oserei dire uno dei migliori degli ultimi anni. Rimane da finire di vedere la seconda stagione e aspettare fiduciosi una terza.
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