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diretto da Romano Luperini

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Su «Ma quale rivoluzione»

Pubblichiamo la replica di Ennio Abate all’intervento di Francesco Pecoraro, dal titolo “Ma quale Rivoluzione”, uscito qualche giorno fa sul blog Le parole e le cose. L’intervento di Abate è già apparso sul blog Poliscritture.

 

 

Quando spolveri il sacro ripostiglio
che chiamiamo “memoria”
scegli una scopa molto rispettosa
e fallo in gran silenzio.

Sarà un lavoro pieno di sorprese –
oltre all’identità
potrebbe darsi
che altri interlocutori si presentino –

Di quel regno la polvere è solenne –
sfidarla non conviene –
tu non puoi sopraffarla – invece lei
può ammutolire te –

(Emily Dickinson, Tutte le poesie, 1273, pagg.1277-1279, Mondadori, Milano 1997)

Gentile Francesco Pecoraro,
sono quasi un suo coetaneo (4 anni più di lei, credo) e pure io in quegli anni (non più “formidabili” ma appannatissimi e vituperati) ho parlato assieme a tanti di Rivoluzione (a Milano e dintorni, dal 1968 al 1976, in Avanguardia Operaia). Mi permetterò perciò, sulla falsariga del suo scritto, di dirle con massima sincerità e analiticamente cosa penso del modo in cui ha trattato il tema.

1. Non ha senso stabilire se fummo o no rivoluzionari. La Rivoluzione (intesa come mutamento radicale della vita quotidiana o dei rapporti sociali di produzione) non è avvenuta. E allora come si fa a controllare se uno è stato un «vero rivoluzionario»? O a misurare quanti fossero «disposti alla Rivoluzione»? O ad escludere che nello stesso PCI ci fossero persone implicabili in un processo rivoluzionario? Sono cose quasi insondabili. Lei, secondo me, dà troppo peso alla soggettività, alla volontà, all’intenzione. Ma l’animo umano è ambivalente. In esso c’è la spinta a ribellarsi e c’è quella a rassegnarsi. La partecipazione ad avvenimenti che potrebbero portare a una Rivoluzione non nasce, credo, da un DNA. Si è in certe condizioni, si è coinvolti in certi fatti della storia; e allora ci si trasforma. Alla fine, solo alla fine, altri potranno dire (forse) di noi se fummo dei rivoluzionari o dei reazionari o rimanemmo a mezza strada, troppo amletici.

2. Comunque, adottando provvisoriamente la sua espressione, di gente – minoranze senz’altro – *disposta a fare la Rivoluzione* sembrava che ce ne fosse un bel po’ in quegli anni e non solo in Italia. La partecipazione straordinaria a momenti concreti di lotta fino a quelli estremi del “lottarmatismo” è documentabile. Non fu, dunque, uno scherzo. Non si giocò a «fare la guerra» (D. Brogi). Ma le rivoluzioni maturano come *possibilità* dall’addensarsi di molteplici fattori. Che, solo se interpretati correttamente e prontamente da individui e collettività, possono permettere con un po’ di fortuna di *farle*, di guidarle. Almeno in parte. E non a caso Machiavelli accortamente parlò della necessità nell’agire politico di una particolare combinazione di virtù e fortuna. Ma alla fine, da noi, non ci fu Rivoluzione. Perché avvenisse una cosa del genere bisognava (come nell’amore?) incontrarsi in due: i rivoluzionari e la realtà che offra l’occasione giusta. Questo non avvenne.

3. Mi pare un errore da parte sua riconoscere il titolo di rivoluzionario solo a chi commette o è disposto a commettere atrocità, a costruire gulag, etc. Cioè, di fatto, soltanto a quelli che in quegli anni hanno fatto in Italia le scelte più azzardate e risultate poi politicamente sbagliate: illudendosi di poter trascinare un numero sufficiente di altri nella loro avventura; azzittendo con gesta clamorose quelle in apparenza più modeste di molti altri; smorzando a colpi di rapimenti e uccisioni le migliaia di fiammelle di rivolta organizzata che si era riusciti a costruire un po’ ovunque; e che – forse, eh! – avrebbero potuto consolidarsi e permettere di delineare una strategia più adatta alla situazione reale. E, dunque, davvero “rivoluzionaria” (nel senso di inedita, di impensata, di originale, di imprevedibile nei suoi sviluppi). Perché, credo, sì, che le rivoluzioni si misurino in relazione ad altre precedenti, ma anche che non hanno un copione obbligato da ripetere o rispettare diligentemente o miopamente. E, dunque, non mi pare che tra le caratteristiche dei rivoluzionari debba essere essenziale la disposizione a commettere “atrocità”. Queste, ammesso che in circoscritte situazioni vadano definite tali, se manca una teoria, una strategia, in cui iscriverle, vanno definite atti di mera bestialità. (E forse – ma è solo una mia opinione -se avessimo avuto il tempo, la pazienza e le capacità di costruire un partito veramente alternativo a PCI e Psi, saremmo arrivati a vivere la nuova situazione (la “globalizzazione”) con occhi più lucidi e *rivoluzionari*).

4. Ma perché in quegli anni parlò/parlammo tanto di Rivoluzione? Le due sue risposte, in cui vengono presentate «le vere cause del nostro parlare di Rivoluzione» non mi convincono. Mi paiono paradossali e contraddittorie. Perché « stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano»? Oh, bella. Ma allora tutto fu solo un delirio e per giunta collettivo? Possibile che tante menti, forti e abbastanza lucide, contribuirono a un delirio collettivo tanto cieco e prolungato – roba da Anno Mille, insomma. E pensare che ci fu gente che ci spese persino la vita! Secondo me, chi *stava bene* non partecipò. O partecipò in modi marginali, calcolati, strumentali. Annusò esteticamente il buon vento della rivolta giovanile. Andò magari a caccia di belle fighe. Fece il flaneur. Si divertì. Gli altri, molti altri – ed è quel che conta e che distingue quei nostri comportamenti d’allora dal delirio o dal sogno – si misero in vari modi in gioco: manifestazioni, assemblee, scontri fisici con la polizia, rotture con le famiglie, ecc. Credo che l’idea di Rivoluzione funzionò da ideologia e fece fibrillare i nostri immaginari. In parte servì a rafforzare e a modellare sentimenti oscuri di ribellione, di disagio, di voglia di felicità. In parte occultò processi sociali e politici complicatissimi, che non sapevamo dire in modi più lucidi o “scientifici”. In molti, comunque, non stavamo «abbastanza bene». E la fuoriuscita dal «vetero-cattolicesimo autoritario» (ma anche dalla «Chiesa rossa» del PCI) non fu indolore ma faticosa, spesso confusa. Solo dopo la sconfitta (o profilandosi la sconfitta) quel «ribellarsi è giusto», che non poteva – ma lo sappiamo oggi! – diventare Rivoluzione, quel pullulare di ribellioni disordinate s’incanalò (o fu incanalato abilmente da chi aveva strumenti per influire) verso lo sbocco della modernizzazione del mercato e si accomodò nelle seduzioni della «laicità consumista». Però, non era stabilito da una Legge che dovesse finire proprio così. Ci furono spinte e controspinte. Non tutti nel movimento erano in preda alla fregola consumistica. Anzi erano forti le contestazioni di quella tendenza. Solo per bacchettonismo residuale, per savonarolismo? No, perché si sperava, si sentiva ( almeno da parte di alcuni) che c’era una posta in gioco più alta. E la sconfitta non era certa. Erano semmai quelli del PCI – ostili da subito a quei movimenti, attaccati da quei movimenti – a pensare che lo sbocco non poteva essere che quello della cooptazione della solita fetta “intelligente” e “preparata” nelle istituzioni. O che si trattasse soltanto – opinione oggi divenuta canonica! – di una rivolta della “piccola borghesia” o di una ”rivoluzione da figli di papà”. (Pasolini contro gli studenti, etc.). Ma se il PCI si fosse spaccato allora (e non, farsescamente e obbrobriosamente, dopo Berlinguer), come sarebbe finita la faccenda? E se si fosse riusciti davvero a fare un altro partito “a sinistra del PCI”? Il Barbone Tedesco diceva che «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni. (da L’ideologia tedesca). Non c’è bisogno di essere “ideologici” per dargli ancora ragione, non le pare? Quella nostra ipotesi non era allora del tutto campata in aria. E in tanti ci scommettemmo. Ma non resse.

5. Oggi che tutti si vantano di essere “anti ideologici”, perché non chiedersi: sotto il grande cappello ideologico della Rivoluzione, di cosa si parlava allora più in concreto: davanti alle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, nelle famiglie? E vale ancora la pena di ripensarle? Si dissero cose giuste e sbagliate. Si fecero cose giuste e sbagliate. Ma è su di esse che si dovrebbe riflettere, invece di restare, come lei fa, sulle generali. Occultare in qualche modo (e in fondo liquidare) tutto quel *parlatorio* – caotico, scomposto ma indispensabile e non tutto di vuote chiacchiere – è cancellare semplicemente la storia da cui veniamo. (Lo stesso discorso, credo, si potrebbe fare oggi per il *parlatorio* del Web). E poi: perché non si sarebbe dovuto parlare di Rivoluzione (e del resto, delle cose concrete della vita di tanti)? Era parlando con gli altri, con molti altri, che ci si poteva chiarire le idee su quella “cosa” (la Rivoluzione appunto). Per intendere cosa fosse stata (altrove, e in altri tempi). E cosa poteva essere e se era possibile o no da noi; e come prepararla o prepararsi ad essa. Io avevo capito che, per tentarla (o semplicemente avviarsi verso di essa), bisognasse essere in molti. E mi pareva che parlarne servisse a riconoscere in quella confusa nebulosa (ricorda la folla di certe manifestazioni, di certe assemblee?) i *compagni con cui stare*, e coi quali costruire il *noi* (il ‘partito’ si diceva allora) di cui fidarsi e a cui affidarsi. Mi pareva che, se in tanti si parlava di Rivoluzione, qualche buon motivo ci fosse. Che è meglio puntare al cielo, a «egregie cose» invece di voltolarsi nel fango in cui ci vogliono mantenere. E che, come diceva il Vecchio Scriba, bisognasse «cercare i nostri eguali osare riconoscerli/ lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati/ con loro volere il bene fare con loro il male/ e il bene la realtà servire negare mutare». Perciò scrivere come fa lei: « stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano» o « non esisteva uno stato di ingiustizia sociale estrema e di massa, ma solo un normale sfruttamento, con tassi di disoccupazione accettabili» mi pare irresponsabile. Da chi erano accettabili quelle condizioni? Dai disoccupati, dagli operai, dagli studenti o dai manager del PCI?

6. «Il secondo motivo di ripulsa della Rivoluzione, probabilmente derivato dalle condizioni di civiltà raggiunte, fu la silenziosa non accettabilità di una implicita conseguenza dell’insurrezione: lo scorrere del sangue». Ma che argomento catto-comunista è questo? Forse solo la Rivoluzione fa scorrere il sangue? Ammesso che lei e una parte di noi (non tutti gli italiani) abbiamo potuto stare « abbastanza bene nel capitalismo italiano» del dopoguerra, questo “benessere” fu dovuto anche al sangue versato durante la Resistenza. Il sangue scorre purtroppo sempre. Ora qui ora là. Anche negli anni Settanta il sangue « scorreva abbondante». E non solo «nello scontro tra terroristi […] e Stato». Scorreva a Piazza Fontana, in Piazza della Loggi a Brescia, alla stazione di Bologna. E oggi continua a scorrere in vari modi da noi; e in modi più atroci non lontano da noi. «Senza atrocità, purghe e gulag non c’è Rivoluzione»? E c’è forse democrazia senza sangue (o con meno sangue della Rivoluzione), senza guerre (umanitarie e non)? E ci fu forse socialdemocrazia senza colonialismo, che al sangue (siccome versato dai colonizzati) non faceva troppo caso. Come i democratici d’oggi non fanno troppo caso a quello versato nella ex Jugoslavia, in Irak, Afghanistan, Libia, ecc.?

7. Trovo sbagliata anche l’altra sua affermazione: «il comunismo era quello che si vedeva là dove si era realizzato». Ma perché far passare un tentativo rivoluzionario di “costruzione del socialismo in Urss” come costruzione del tutto compiuta (starei per dire: una bozza per un’opera compiuta)? No, né in Urss né in Cina si era «realizzato» il comunismo. Era una delle poche cose chiare a una parte dei giovani che allora “parlavano” di Rivoluzione. Ci si era accorti che quel processo, iniziatosi rompendo con la socialdemocrazia (una sorta di PCI d’allora?), la quale sosteneva non ci fossero le condizioni per la Rivoluzione, e poi interrotto, deviato, stravolto, aveva prodotto « tutt’altra cosa»: un ibrido difficile da decifrare, una mostruosità se si vuole. Che però da subito – già ai tempi di Lenin – era stata criticata, vista con sospetto, contrastata da molti degli stessi militanti comunisti d’allora. (Trotsky le dice ancora qualcosa?). Un *qualcosa* su cui le menti più oneste intellettualmente e politicamente hanno continuato a interrogarsi. Se vogliamo ragionare su quella storia (su quei pezzi della *nostra storia*), evitiamo le semplificazioni ( le «oscenità») giornalistiche e, prima di aprire bocca, studiamoci la «Storia del comunismo» di Luigi Cortesi o «L’esperimento profano» di Rita di Leo o la più recente raccolta di saggi, “L’altro Novecento. Comunismo eretico e pensiero critico» a cura di P.P. Poggio.

8. Detto questo, a me non pare più possibile oggi tornare semplicemente al porto sicuro di Marx o al marxismo come unica teoria che «ci fornisce ancora la possibilità di mantenere una qualche lucidità di sguardo sul presente». Dobbiamo intendere anche la storia venuta dopo Marx, la “storia inquinata e tragica”. Non si può fingere che non ci sia stata. Ma neppure, come è stato in genere fatto, si può accantonarla e ripartire da “altro” (ecologia, anarchismo, socialdemocrazia, liberalismo, femminismo, ecc.). Proprio da lì, dal riconoscimento del fallimento di quell’esperimento, nacquero tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta le dissidenze e le riviste-samizdat pre-68 – Quaderni rossi, Quaderni Piacentini, Vento dell’Est, ecc. Ma non è bastato. Bisogna capire perché. È dura ma non si può aggirare la montagna che si è parata davanti a noi.

9. ««Non ci sono le condizioni», si diceva in continuazione». E in un certo senso non era sempre e solo una scusa. Ma diciamocelo: quando mai *a tavolino* ci sono le condizioni – sicure, certe, tali da convincere tutti: l’operaio, il ragioniere, la massaia, l’intellettuale, ecc. – per una Rivoluzione (o anche per un più semplice “cambiamento”)? Il grande rompicapo dei rivoluzionari è proprio quello di stabilire che fare e quando fare. Se non ci fosse stato Lenin nel 1917 in Russia le condizioni per provarci *non ci sarebbero mai state*. (I suoi stessi compagni di partito dicevano che non c’erano). E se non ci fossero stati nell’Italia dell’Ottocento Mazzini, Pisacane o Garibaldi mai avremmo visto il Risorgimento. E se non ci fossero stati i partigiani, mai avremmo avuto la Resistenza. Quando lei scrive: «L’Italia faceva parte della metà del mondo occidentale che nella spartizione di Yalta si assegnava all’impero americano, era nella Nato: non solo non ci sarebbe stata consentita la rivoluzione proletaria, ma era impossibile anche l’ingresso del PCI in una coalizione di governo, per non parlare di una maggioranza parlamentare e conseguentemente di un governo a conduzione comunista» non s’accorge (se ho ben capito) di fare l’apologia dell’immobilità e della rassegnazione? Questa era la posizione di quel PCI che lei votava. Di quel PCI che, come ricordava a suo tempo il Vecchio Scriba, negli anni Settanta era riuscito a raccogliere il consenso «di una massa imponente di operatori intellettuali» (Disobbedienze I, p. 172) oltre a quello «di milioni e milioni di filistei, fra i quali i milioni di lavoratori che la [sua] politica trentennale, al governo o all’opposizione, [aveva]ha trasformato in piccoli borghesi assetati di ordine e desiderosi di farla finita con quei lazzaroni dei giovani che non rispettano il lavoro»( Disobbedienze I, p. 170). E che –aggiungo io – partorì soltanto il topolino del “compromesso storico”.

10. Eppure, pur non essendoci le condizioni, masse di giovani (e non solo) trovarono giusto ribellarsi e minoranze – certo – anche di pensare ad un “assalto al cielo”. Fallito sì, ma chi poteva dire allora con assoluta certezza che non ci fossero le condizioni? Solo quelli del PCI. Noi allora – solo pedine? solo manovrati, solo estremisti, solo diciannovisti? -, ribellandoci, avevamo imboccato un’altra strada. Cercammo di fare cose diverse. Abbiamo fallito. Siamo stati sconfitti. Lei però con questo scritto getta solo sale nelle ferite. Credo in tutta sincerità che lei sputi troppo su se stesso e su noi di allora e sui sopravvissuti di allora. E questo non va. Turbi pure la sua e la nostra vecchiaia con i più atroci dubbi sulla possibilità o meno di fare la Rivoluzione in quegli anni o di guidare verso una qualche più riformistica terra promessa quel movimento reale di militanti ed elettori, sugli errori che facemmo, sulle meschinità commesse dagli “stronzetti rivoluzionari”, che ci furono anche tra noi. Ma alla fine di questa sua visita nel «ripostiglio che chiamiamo “memoria”» può proporre – non dico a noi vecchi ma ai giovani – soltanto una «coltivazione interiore dell’idea socialista»? Che è secondo me un invito alla autoclausura. Ed è proprio la cosa che non dovrebbero fare gli sconfitti. Riconoscerla, sì, la sconfitta, ma perché murarsi in essa? Perché mettersi «in formaldeide» come dice qui un commentatore. Vecchi e sconfitti abbiamo, come diceva ancora il Vecchio Scriba, da proteggere «le nostre verità», rivedere di continuo la *nostra* storia, passarla a contrappelo, selezionare e conservare le «buone macerie» (non le cattive) e non farcela riscrivere o spiegare o liquidare dai vincitori e dai loro servi consapevoli e inconsapevoli o dai giovanotti a memoria piatta e orgogliosi di esibirla. È comunque dalle buone rovine, dai momenti alti della nostra storia – dalla Comune di Parigi, dal 1917, dalla Lunga marcia; e qui in Italia: da un certo Risorgimento, da una certa Resistenza e un po’ anche da un certo ’68-’69 – che si potrà ripartire per qualcosa che non so se si chiamerà più socialismo o comunismo. No, non dobbiamo coltivare il nostro masochismo.

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