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Esserci e non esserci. Il caso Elena Ferrante/3

Velarsi/Svelarsi

Per capire chi è Elena Ferrante bisogna abbandonare le ricerche sul mistero del suo vero nome e leggere le sue opere, dietro le quali si vela, ma soprattutto si svela. Si potrebbe dire che il principio per il quale sono le opere a parlare per lo scrittore e non lo scrittore a parlare della sua opera è una tautologia. Quindi non sarebbe necessario che fosse la stessa Ferrante a dichiararlo: «Io credo che i miei libri, non abbiano bisogno del loro autore, una volta che siano stati scritti. Se hanno qualcosa da raccontare, troveranno presto o tardi lettori; se no, no». Questo ne Il dono della Befana (la mattina dell’Epifania «i doni c’erano, ma la Befana nessuno l’aveva vista», 1993), lettera che l’autrice spedisce all’editore nel 1991, l’anno prima della pubblicazione de L’amore molesto, e contenuta ne La frantumaglia, collettanea di scritti e scambi epistolari, uscita nel 2003 per rispondere alle domande degli intervistatori e soddisfare le curiosità dei lettori. Lascio dunque da parte le bizzarre elucubrazioni formulate sulle ragioni di questa scelta per seguire le tracce che la stessa autrice ha disseminato sulle sue pagine.

«In Totem e tabù Freud racconta di una donna che si era imposta di non scrivere il proprio nome. Temeva che qualcuno se ne servisse per impadronirsi della sua personalità. La donna cominciò col rifiuto di scrivere il proprio nome e poi, per estensione, smise di scrivere. Ma devo confessare che la vicenda di quella malattia, quando ne lessi, mi sembrò subito sanamente significativa. Ciò che scelgo di mettere fuori di me non può e non deve diventare una calamita che mi risucchi tutta. Un individuo ha il diritto di tenere separata, se vuole, la sua persona, persino la sua immagine, dagli effetti pubblici del suo operato […] Non credo che l’autore abbia da aggiungere mai alcunché di decisivo alla sua opera: considero il testo un organismo autosufficiente, che ha in sé, nella sua fattura, tutte le domande e tutte le risposte».

La citazione di Elena Ferrante è tratta da La frantumaglia. Racconta di una decisione presa a priori, che precede di un anno la pubblicazione del suo primo romanzo. Decisione poi coerentemente mantenuta nei decenni successivi, a fronte di un crescente successo e di una conseguente pressione mediatica sempre più forte. Quella volontà di tenere separati la persona di chi scrive dalla sua opera, considerata da Ferrante non “malata”, come aveva fatto Freud, ma “significativa”, si declina in diversi passaggi e in altri testi di interviste che l’autrice ha concesso successivamente per lettera o via mail. Quando il giornalista insiste, Ferrante ricorre a un esempio e cita Italo Calvino che nel 1964 scriveva a una studiosa dei suoi libri: «[…] dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quel che vuol sapere e glielo dirò, ma non le dirò mai la verità, di questo può star sicura». (cit. in La frantumaglia).

Equilibri fragili

Può darsi che Ferrante appartenga a quel novero di autori che per scrivere hanno bisogno di tranquillità, di anonimato e d’altra parte temano che i fragili e misteriosi equilibri della scrittura possano essere turbati o snaturati dall’esposizione mediatica, corollario necessario del successo. Questa la spiegazione da lei stessa fornita: «Oggi la cosa che temo di più è la perdita dello spazio creativo del tutto anomalo che mi pare di aver scoperto. Non è poco scrivere sapendo di poter orchestrare per i lettori non solo una storia, personaggi, sentimenti, paesaggi, ma la propria figura di autrice, la più vera perché fatta di sola scrittura, di pura esplorazione tecnica di una possibilità. Ecco perché resto Ferrante o non pubblico più». (Intervista di Simonetta Fiori a «La Repubblica», 5.12.2014). Ma a questo motivo dicibile potrebbero aggiungersene altri difficili da immaginare e impossibili da dire. Recentemente alcuni contemporanei di notevole visibilità hanno espresso condivisione e solidarietà con la decisione di Elena Ferrante. Roberto Saviano amaramente ammette: «Con il tempo ho scoperto che metterci la faccia e il corpo – accanto alla scrittura – vuol dire anche offrire carne e sangue ai nemici perché possano farne brandelli. Ho scoperto che esistono verità difficili da scrivere senza l’anonimato, ho scoperto che esistono verità che prediligono che il volto si smaterializzi, che resti nell’ombra, perché le cose dette sono talmente personali che aggiungere carne e sangue vorrebbe dire due cose: rinunciare all’autenticità del racconto o morirne» (Roberto Saviano, «La Repubblica», 21.2.2015). E Daniel Pennac osserva: «A volte mi piacerebbe poter fare come la Ferrante: scrivere e scomparire, non essere riconosciuto e far parlare solo i miei libri […] Il fatto che non sappiamo chi sia questa autrice o questo autore – ma sono sicuro che si tratti di una donna – crea una frustrazione tale in tutti noi che ci riduce a leggere intelligentemente i suoi libri […] Non è affatto una furba e non cerca di essere spettacolare: tutto questo me la fa apprezzare sempre di più» (Intervista di Giuseppe Fantasia in «The Huffington Post», 19.3.2015). Ma numerosi sono gli esempi che si potrebbero trarre dalla storia della letteratura e dalle biografie di coloro che hanno tentato di preservare la propria persona dall’assalto dei media, dei lettori o dei curiosi. A fronte di scrittori vanitosi, egocentrici, malati di protagonismo, ce ne sono altri che si nascondono, che si negano, che non vogliono essere disturbati o che si ritirano in luoghi segreti o eremitici dopo aver assaggiato il morso del successo.

Scrittori e personaggi

Tuttavia chi pensa che Elena Ferrante si neghi o si sottragga si sbaglia. Scrivere e pubblicare un romanzo significa esporsi ai lettori e al pubblico nel modo più intimo che si possa immaginare. Perciò posso affermare che dal 1992 so chi è Elena Ferrante. So più di lei di quanto non sappia su certi autori che si offrono ossessivamente al pubblico, senza che la lettura dei loro romanzi abbia lasciato traccia nella mia memoria. O meglio, da quell’anno, dopo la lettura de L’amore molesto sono venuta a conoscenza di un’autrice solida, che aveva parecchio da dire, capace di dominare la scrittura e di dare un nome alle cose. Tanto autentica da diventare per me un’interlocutrice ideale, con la quale confrontarmi e alla quale porre domande, in un meccanismo di interazione – Ferrante lo chiama “patto coi lettori” – che mi pare il più augurabile dei rapporti con un autore, quello costituito appunto dalla mediazione del romanzo. Ho atteso la pubblicazione di altre opere e ho seguito con interesse crescente l’evoluzione della sua scrittura e del suo pensiero fino all’uscita della quadrilogia L’amica geniale. In quell’ultimo “dono della Befana” – per me, lettrice tra i lettori, un dono vero, atteso ma inaspettato, del quale le sono grata – ho trovato molte delle risposte alle domande che avrei voluto farle. Ormai quando leggo le sue righe riconosco la sua “voce”, un ritmo arioso e meditativo, un modo inconfondibile di usare il lessico e di reinventarlo, di usare il dialetto senza quasi nominarlo, riconosco la sintassi, le frasi idiomatiche, persino la punteggiatura. Nel 1993 confesso di aver cercato notizie su di lei e, dopo il primo momento di sconcerto, non trovandone, mi sono detta: vediamo cosa vuol dire avere a che fare con una scrittrice che si mostra esclusivamente per quel che sa fare. Mi è venuto da riflettere sul fatto che sono pochi gli autori che hanno avuto successo in Italia nella seconda metà del Novecento senza ricorrere alle “premure” di un padre, di un coniuge, di un amico, di un amante, o senza avvalersi di uno status sociale o accademico privilegiato, contando esclusivamente sul merito del proprio lavoro. Un vizio molto italiano quello di occuparsi più dell’autore o di chi “fuor li maggior suoi” piuttosto che dell’opera, spiegare tutto con il biografismo, leggere alla comoda e riposante ombra della vita. In una lettera a Francesco Erbani, che le aveva chiesto un’intervista dopo l’uscita del film di Mario Martone tratto da L’amore molesto, Ferrante risponde con una serie di domande affatto retoriche e decisamente pungenti: «[…] se il mio libro non le avesse detto nulla e il mio nome le avesse detto qualcosa, avrebbe impiegato meno tempo a chiedermi un’intervista? […] un libro è, dal punto di vista mediatico, innanzitutto il nome di chi lo scrive?” E conclude: «Penso che persino gli autori dei classici siano solo un grumo di lettere morte, se accostati alla vita che avvampa nelle loro pagine, […] persino Tolstoj è un’ombra insignificante se va a passeggio con Anna Karenina» (La frantumaglia). Tutti noi sappiamo che, quando un autore è grande, è la sua opera che rimane e la sua sostanza immortale viene decretata nel tempo da chi continua a leggerla. Nell’ultima intervista a Sandra Ozzola e Sandro Ferri, i suoi editori, comparsa a marzo su «Paris Review», leggiamo che nei primi tempi la sua era timidezza ma «Later, it was hostility towards the media, which doesn’t pay attention to books themselves and which values a work according to the authors reputation. It’s surprising, for example, how the most widely admired Italian writers and poets also known as scholars or are employed in high-level editorial jobs or in other pretigious fields. It’s as if literature were non capable of demonstrating its seriousness simply through texts but required ‘external’ credentials».

Identità autoriale

L’identità di Ferrante non è nascosta, anzi è più che palese. Forse bisognerebbe mettersi d’accordo sui significati di una coppia di apparenti contrari come mostrarsi/sottrarsi, sull’ambiguità dei quali tutto il Novecento ha tentato di confrontarsi. Chi scrive per pubblicare si offre, appunto, a un pubblico tramite un suo prodotto che è un libro. Per definizione chi pubblica si rende pubblico, o almeno rende pubblica una parte di sé, quella parte cospicua di sé che si stacca da lui e necessariamente si mostra. Quindi sappiamo moltissimo di Ferrante, perché la sua opera, soprattutto L’amica geniale, parla di lei e per lei. Sappiamo cosa pensa e come lo pensa, sappiamo parecchio della sua concezione della letteratura, quasi tutto delle sue idee sulla scrittura, abbiamo cognizione della sua poetica dell’amicizia, conosciamo le sue letture e le sue preferenze letterarie, siamo informati sull’evoluzione o sugli attraversamenti dell’ultimo mezzo secolo di storia, politica, femminismo, per fare solo pochi esempi. Viceversa possiamo dire senza esagerare che è poco ciò che Ferrante sottrae alla nostra conoscenza: il suo viso, i suoi affetti e le sue parentele, la sua vita quotidiana, in una parola, la sua privacy. Come lei stessa dice, è più che lecito che chi scrive un romanzo tenga «separata […] la sua persona, persino la sua immagine, dagli effetti pubblici del suo operato». Tutto qui.

Inoltre il modo di “sottrarsi” di Ferrante è molto particolare. In ultima analisi solo il suo nome manca davvero all’appello. Perché si tratta di una scrittrice che accondiscende all’interazione con la critica. In lei emerge prepotentemente un desiderio di spiegare e di spiegarsi, di chiosare le parole dei suoi romanzi con altre parole. Tendenza che ha raggiunto dimensioni ipertrofiche con La frantumaglia e con le numerose interviste via mail e ultimamente vis à vis con gli editori («Paris Review»). Lei stessa racconta che, nel tentativo di rispondere alle domande di due intervistatrici dell’«Indice» è «finita in una sorta di smania sistematrice» e aggiunge: «Potrei tenermi tutte queste pagine per me ma mi è piaciuto molto scriverle e chi scrive con passione poi ha sempre bisogno di almeno un lettore» (La frantumaglia) Dopo tutto, pur conservando il segreto del suo nome, Ferrante paradossalmente dice anche troppo di sé. Recupera pagine che aveva sottratto ai suoi romanzi, fornisce versioni cancellate o poi modificate nell’edizione data alle stampe o del tutto inedite. Racconta episodi della sua infanzia che qualche volta sono finiti riveduti e corretti nei suoi libri, oppure che le sembrano significativi di certe sue scelte letterarie. Dissemina le pagine di elementi autobiografici (a meno che non abbia deciso di condurci fuori strada, come faceva Italo Calvino). Parla addirittura dei suoi romanzi e a volte ne propone delle interpretazioni, come accade nella bella intervista a Paolo di Stefano sul «Corriere della Sera» a proposito della relazione di amicizia fra le due protagoniste de L’amica geniale, Elena e Lila (Ferrante: felice di non esserci, Il Club de La Lettura, 20.9.2014). Atteggiamento contraddittorio, che la porta a volte ad allontanarsi dai suoi stessi propositi.

D’altra parte ci sono diversi modi e parecchie gradazioni del sottrarsi. Emily Dikinson non pubblica nulla in vita, ma ripiega e cuce con ago e filo i fogli che contengono le sue liriche, affinché esse possano essere custodite come in uno scrigno. Marguerite Yorcenaur, dopo aver conosciuto il successo e averne goduto i frutti, si ritira su un’isola nell’Atlantico, fa il pane tutte le mattine e finisce per frequentare solo i pochi isolani. C’è il modo di sottrarsi di Italo Calvino che giocosamente si vela e si svela dietro al famoso paradosso di Epimenide e concede sì interviste, ma afferma di dire solo il falso.

Soggiogati dalla mistica della “trasparenza”, presi nella rete del “metterci la faccia” dimentichiamo che uno scrittore si riconosce per e in ciò che scrive. E poi siamo certi che mostrarsi sia far vedere il proprio volto, rilasciare interviste, scrivere per tabloid e quotidiani, essere protagonisti di convegni e festival, presentarsi in tv con l’ultimo libro in mano, lasciarsi cannibalizzare dai mezzi di comunicazione? A me sembra questo un modo per sottrarsi e qualche volta per presentarsi con una maschera che svia e che comunque risulta più opaca rispetto alla fulgida conoscenza offerta dai libri di chi ha qualcosa da dire. Dar spettacolo di sé è cosa diversa dallo scrivere, ha più a che fare col gioco delle apparenze, col recitare una parte o, se è consapevole, con la raffinata “sprezzatura” del Cortegiano di Baldassar Castiglione oppure con la spietata dissimulazione delle Liaisons dangereuses di Laclos. Più che un mostrarsi, è un apparire, un sembrare. Di fatto un celarsi.

Se proprio vogliamo servirci del termine dissimulazione a proposito di Ferrante, dobbiamo ricorrere a Tommaso Accetto, la cui dissimulazione onesta era una forma di prudenza, di difesa da qualsivoglia potere, di salvaguardia del proprio spazio di libertà individuale. Nessuno può impedire a lettori e critici di continuare a indagare sull’identità dell’autrice, si tratta di una curiosità legittima, così come è legittimo che Elena Ferrante cerchi a tutti i costi di proteggerla. Ma l’identità autoriale è sotto ai nostri occhi e Ferrante dice anche troppo di sé, specie nei suoi libri. Perciò lasciamola in pace e speriamo che dalla sua penna possano ancora uscire pagine che ci sorprendano. Noi, che abbiamo letto le sue opere, sappiamo chi è. Sappiamo che – come Elisabeth Strout – anche Ferrante nella sua quadrilogia afferma con forza: «la mia vita è tutto ciò che possiedo». Sappiamo che – come Gustave Flaubert per la sua Emma Bovary – in ogni pagina de L’amica geniale, la cui protagonista porta il suo nom de plume, Ferrante ci suggerisce “Elena c’est moi”.

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