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Gadamer

Insegnare a essere umani. Bildung e umanesimo in un libro di Hans-Georg Gadamer

 Il libro preso in esame è H.-G. Gadamer, Bildung e umanesimo, a cura di G. Sola, Genova, Il melangolo, 2012. Si tratta di una raccolta di sette saggi, per lo più conferenze, che vanno dal 1944 alla fine degli anni Ottanta, mai tradotti prima in Italia. Spero che queste mie divagazioni su di esso facciano venire voglia a qualcuno, magari a qualche insegnante, di leggerlo. I titoli citati fra parentesi, salvo indicazioni diverse, sono i titoli dei suddetti saggi.

Ciò che spinge Hans Georg Gadamer a intervenire ripetutamente, tra il secondo dopoguerra e gli anni Ottanta, sui temi dell’educazione, della scuola, dell’università, a partire dal concetto di Bildung, è la constatazione di una «perdita della formazione umanistica dell’uomo» e di «un’ormai evidente crisi dell’educazione» (Introduzione di G. Sola, H.G. Gadamer sulla via della Bildung, corsivo originale). Ma se questa crisi – si potrebbe osservare – è in effetti una conseguenza, forse paradossale o forse no, della modernità e del principio di autodeterminazione individuale, per cui le istituzioni normative (la famiglia, la scuola, la tradizione culturale comunitaria) non possono più pretendere di educare in forme prescrittive ed eteronome, «è dunque l’uomo a doversi assumere il compito di educare se stesso» (ivi): e proprio la Bildung è l’ideale che più sarebbe capace di orientare questa autoeducazione.

Il concetto di Bildung, affine sotto certi aspetti a quello greco di paideia e a quello latino di humanitas, è caratteristico della cultura tedesca, ma, attraverso il modello dell’università prussiana riformata da Wilhelm von Humboldt, ha costituito un punto di riferimento per l’università europea a partire dall’Ottocento. Nelle prime pagine di Verità e metodo, il testo fondativo dell’ermeneutica filosofica moderna, Gadamer prende le mosse (non a caso, come si vedrà) proprio da questo concetto, definendolo come un «permanente processo di sviluppo e formazione ulteriore», che «sorge dall’intimo processo della formazione e della cultura» (H.-G. Gadamer, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 2004, 1a ed. 1983).

Il legame fra Bildung e cultura umanistica è costitutivo, ma tra i due termini non c’è una perfetta coincidenza. Quello di “cultura” è infatti un concetto statico: è un sapere, che può essere posseduto, ed è un risultato, ovvero l’aver conseguito quel sapere, tradizionalmente il sapere umanistico. Nella definizione di Gadamer, invece, la Bildung è caratterizzata da tre elementi: è un processo dinamico, non un obiettivo conseguibile o un contenuto da apprendere; consiste, perciò, in una condizione di apertura all’ulteriorità, di disponibilità all’evoluzione – potenza e non atto; implica, dunque, una partecipazione intima, essendo soprattutto un atteggiamento e una condizione spirituale, quella di chi non impara per ottenere semplicemente un sapere o per far qualcosa del proprio sapere, ma per autoformarsi e trasformarsi. È, in una parola, (auto)educazione dell’uomo.

Per questa sua complessità, la parola non è facilmente traducibile in italiano, anche se la parola «formazione» è quella che più le si avvicina. La forma-zioneforma all’uomo, attraverso un processo di tras-forma-zione intima. Ma in tedesco, precisamente, Bildung deriva da «bild», immagine: la formazione è perciò intesa come il riportare alla luce e concretizzare l’immagine più profonda di sé, la propria più intima natura, cui però si può accedere solo attraverso una trasformazione mediata dall’educazione, poiché quell’immagine non è in grado di emergere soltanto per spontaneo sviluppo (è, in qualche modo, quel che Nietzsche chiamava «diventare ciò che si è»).

Primo tema: doctrina e ricerca

In più d’un intervento, Gadamer appunta l’attenzione su quel delicato passaggio che, nel secondo dopoguerra, trasformò l’università europea da luogo di elitaria formazione delle classi dirigenti (così come era stata modellata appunto da Wilhelm von Humboldt) a università di massa. Questa trasformazione ebbe conseguenze rilevanti anche sulla metodologia didattica, ma, più in generale, sul modo di intendere il rapporto che gli studenti stabilivano con il sapere.

L’università humboldtiana era nata in esplicita polemica con il chiuso sapere accademico del suo tempo ed era fondata sul «passaggio dalla doctrina alla ricerca o, per definirlo con le parole di Humboldt, il passaggio alla “scienza che non è ancora del tutto scoperta”» (L’idea di università: ieri, oggi, domani).

La parola «ricerca», osserva però Gadamer, non ha quella connotazione specialistica di scienza applicata alla scoperta e alla produzione che ha oggi per noi, quanto di Bildung: l’insegnante e gli allievi costituivano una comunità in cui tutti “ricercano”, il maestro come gli allievi, una propria via al sapere, non limitandosi l’uno a trasmettere la doctrina e i secondi a riceverla. Gadamer ricorda come fosse solito chiedere agli studenti che riceveva di che cosa si stessero occupando in quel momento, in quale “ricerca” (personale ed intima) fossero assorbiti.

L’università di massa, a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta del XX secolo, mutò radicalmente il quadro: l’omogeneità culturale e sociale (borghese) fra docente e studenti andò persa, il numero degli studenti aumentò, con essa la richiesta di professionalizzazione del percorso di studi. Diventò così impossibile conservare la forma della piccola e affiatata comunità di ricerca e le lezioni presero una tipica frontalità, che finì, quasi preterintenzionalmente, per ricondurre di nuovo l’educazione “dalla ricerca alla doctrina”.

Quando la cultura umanistica cessa di essere un sapere, etimologicamente, congeniale al ristretto cenacolo, cui fornisce categorie, parole, forme mentali per pensare la propria esperienza del mondo, essa tende, ineluttabilmente, a diventare un corpus di saperi reificato, che si può tutt’al più tramandare e di cui ci si può tutt’al più impadronire come di un oggetto. Questo processo di reificazione, d’altra parte, è essenziale per impedirne il naufragio: identificati i pezzi del museo da conservare, si chiede a chi voglia entrarvi di imparare a descriverli uno per uno. Il rischio, naturalmente, è la mummificazione del sapere.

Al contatto con la scuola e l’università di massa, la cultura umanistica si è rivelata fragile, ma ha finito anche per essere identificata con un sapere eletto e classista. A farne le spese, però, è stata un’idea di formazione intesa come Bildung:

la parola Bildung certamente non è più molto amata e ha perso il suo vero significato, allorché ha iniziato a marcare una differenza di classe tra coloro che erano istruiti […] e coloro che non lo erano […]. [Ma] Humboldt stesso non mirava tanto al rendimento dell’insegnamento del professore o ai risultati del lavoro scientifico quando fondò l’università sull’idea della Bildung. Ciò che intendeva indicare con questa parola non era l’opposizione rispetto a chi non fosse istruito, bensì si pronunciò contro l’orientamento dell’università come scuola professionale: con quella parola intese quindi il contrario di specialista. Bildung indicava il distacco da ogni cosa utile e utilizzabile. Ciò che è riposto nel senso elevato di una “scienza che non è ancora del tutto scoperta”, “la vita delle idee” […] – vita che deve unire i giovani nell’università –, è caratterizzato da questo fine: attraverso il sapere schiudere ai giovani l’orizzonte della realtà nel suo insieme e con ciò anche rendere loro accessibile il superamento di questa stessa realtà. A tal fine bisognerebbe disporre di due cose: della solitudine e della libertà (L’idea di università: ieri, oggi, domani).

Per «schiudere ai giovani l’orizzonte della realtà nel suo insieme e con ciò anche rendere loro accessibile il superamento di questa stessa realtà», dice Gadamer, «bisognerebbe disporre di due cose: della solitudine e della libertà», cui, in un altro luogo, aggiunge lo stupore:

per prima cosa bisogna imparare a provare stupore. Chi non prova stupore non può affatto apprendere. La questione che preoccupa tutti è in che modo contribuiamo alla società e al mondo, che condividiamo con gli altri […], nel quale siamo posti, e – lo si dice in modo così autoglorificante – ci realizziamo. Questo vorremmo sapere; ma all’improvviso lo capiremo quando proveremo stupore. Ciò deve succedere da giovani (La professione quale esperienza creatrice)

In quest’ultimo passaggio si comprende chiaramente quale sia l’obiettivo dell’educazione: non la solitudine, la contemplazione, ma la socialità, l’azione, contribuire al consorzio umano e al mondo e “realizzarsi”. Ma questo “realizzarsi” (etimologicamente “diventare reali”, non va dimenticato), questo giungere ad occupare con pienezza una precisa posizione nel mondo, richiede, prima, un lungo tirocinio, una lenta maturazione, una faticosa ricerca di sé, nella quale soltanto si consegue una matura capacità di giudizio («osare un giudizio proprio e non […] condividere semplicemente delle opinioni precostituite»: L’idea di università: ieri, oggi, domani). Realizzazione di sé, maturità di giudizio, libertà, sono reciprocamente implicati:

è necessario il diventare liberi per formare un proprio giudizio. Per questo bisogna aver acquisito esperienza, ma anche sapere – vero sapere e non informazioni selezionate. Il sapere, ovviamente, non è quello scolastico per cui si assegnano dei voti, e nemmeno le esperienze che i genitori benpensanti vogliono preparare per i loro figli o risparmiare loro. Il sapere necessita apprendimento e necessita esperienze che nessuno può risparmiarci. Ciò che si apprende attraverso il sapere bisogna acquisirlo attraverso le esperienze: proprio quelle che non vengono risparmiate. L’esperienza necessita del sapere […] e del non sapere […]. Questo conferisce un nuovo impulso alla libertà» (La professione quale esperienza creatrice).

La libertà è insieme prerequisito e obiettivo: senza la libertà non si può fare esperienza (l’esperienza è il contenuto più vero del sapere), ma senza l’esperienza non si diventa liberi. Per fare esperienza «servono non tanto programmi didattici quanto dei veri insegnanti. Si parla però di insegnanti, che si sentano liberi rispetto a programmi troppo dettagliati; di insegnanti cui devono essere concessi ampi spazi per le proprie lezioni» (Umanesimo oggi?).

Non si tratta di un inno all’anarchia, tutt’altro. Infatti, come, circolarmente, la libertà è insieme prerequisito e obiettivo, così la disciplina e l’«autocoercizione» si trovano sia all’inizio che alla fine del percorso: alla fine, si è già visto, come realizzazione di sé in una forma, la propria, in una porzione di mondo (in senso specialistico anche in una professione); all’inizio, come fatica, dovere, applicazione (alle esperienze, ma anche, ovviamente, allo studio): conta il «saper fare […], che acquisiamo lentamente e con fatica. Non importa che cosa. […] Gli inizi richiedono una immensa autocoercizione […], fino a sperimentare da ultimo una crescente liberazione – il saper fare» (La professione quale esperienza creatrice).

La dialettica tra libertà e autocoercizione, ricerca aperta e applicazione ad un preciso fare è costitutiva della formazione dell’uomo. Ma il fatto che Gadamer parli di solitudine di chi apprende e di insegnanti cui sono concessi ampi spazi non lascia dubbi sul modello cui egli pensa: è ancora quello del (relativamente) spontaneo rapporto tra maestro e allievi, in cui la ricerca sul sapere può essere organizzata secondo le necessità dei membri del gruppo, non eterodiretta da vincoli istituzionali, programmi, verifiche esterne, che coarterebbero la dialettica tra libertà e coercizione interna al gruppo stesso. Solo attraverso questa dialettica si giunge a una libertà vera e consapevole di sé, una libertà che è felicità.

Infatti noi uomini abbiamo

percezione di qualcosa che chiamiamo soddisfazione [solo] quando abbiamo trovato il nostro stile, questa nuova, intima Bildung, all’interno di ciò che è predeterminato […] e che sperimentiamo forse come una specie di riconoscimento […] di noi stessi (ivi).

Gadamer suggerisce che questo modo di intendere la ricerca debba essere preservato in ogni contesto, anche in quello della scuola di massa e anche oltre la crisi dell’umanesimo come modello di sapere. Infatti la Bildung non è prerogativa delle sole discipline umanistiche: lo stupore per la ricerca e il sapere, nell’adolescenza, è trasversale alle discipline: «in questa fase iniziale non esiste quasi differenza tra le scienze della natura e le scienze dello spirito» (ivi).

Preservare l’educazione come Bildung, dunque, potrebbe non equivalere a preservare la cultura umanistica? Gadamer non pensa certamente a un superamento dell’umanesimo, ma la risposta non è scontata: in un luogo egli ammette, ad esempio, che sia impossibile capire il mondo contemporaneo senza studiare l’economia, a scapito magari di qualche disciplina tradizionale; in un altro, difende il valore formativo in sé di alcune discipline di base, la matematica, le lingue moderne, le lingue classiche (ma solo se volte alla traduzione), a prescindere dal loro valore immediato; in un altro ancora ricorda con nostalgia il padre che, pur avendo scelto la carriera dello scienziato, conosceva le Odi di Orazio a memoria e amava citarle.

Certo, dalle parole di Gadamer almeno un criterio per difendere la Bildung emerge chiaramente: l’antispecialismo, che per il filosofo è, più precisamente, un prespecialismo, giacché ciascuno di noi specialista di qualcosa diventerà, poi. Ma l’educazione “serve” «non per il fatto di aver appreso qualcosa per la professione, bensì per il fatto d’essere diventati qualcosa per la nostra professione» (Scuola e scuola superiore nella storia e nel presente, corsivo originale). Ma, proprio in relazione alla crisi della cultura umanistica, potremmo aggiungere che antispecialismo significa anche antieruditismo, perché oggi certe porzioni della cultura umanistica hanno cessato di valere come modello stesso della formazione dell’uomo e sono slittate nel campo di un sapere professionale accanto ad altri. Il dibattito doloroso è su quali e quanto ampie siano queste porzioni.

Secondo tema: teoria e pratica, «linguisticità» dell’uomo

Facciamo un esperimento mentale. Un ampio consesso di insegnanti e studiosi, dopo un lungo e proficuo dibattito, aggiorna il canone della cultura umanistica e ne recide con coraggio tutte le parti ormai morte o moribonde. La scuola si svecchia. Applausi dal mondo intorno? Sospetto di no. Infatti, pur immaginando una cultura umanistica “al passo coi tempi” (in via teorica: nella pratica resteranno sempre ampi margini di inefficienza e inattualità: la storia dell’uomo non è “efficientabile”), resterebbe sempre in essa quel cristallino residuo che ne rappresenta la più profonda vocazione: «non una preparazione ad una professione specifica, non un inserimento in una società funzionalizzata, non un esercizio di adattamento che, lo sa il cielo, è diventato oggi ovunque il destino del nostro mondo industrializzato» (Scuola e scuola superiore nella storia e nel presente). O postindustriale. Il sapere che forma l’uomo, in ogni caso, è “inutile”.

Ma si corre un rischio, oggi, quando si usa l’argomento della gratuità e dell’”inutilità” del sapere: spesso ci si attesta a un livello di semplice reazione dialettica, ovvero si ricorre, senza accorgersene, allo stesso quadro concettuale e di valori di chi sostiene la tesi contraria – della necessità che la cultura e l’educazione siano utili e spendibili –; e ciò perché è quest’ultimo, oggi, il quadro di riferimento per tutti. Basta, molto semplicemente, riflettere sul valore comune delle parole – positivo quello di utile, negativo quello di inutile – o pensare a quanto chi voglia sostenere la tesi dell’inutilità del sapere, oggi, non possa che farlo nel tono del paradosso. È perciò necessario tentare una risposta ad un livello di maggiore radicalità.

Gadamer osserva che alla radice della polemica contro l’astrattezza del sapere sta il secolare conflitto tra teoria e pratica, conflitto che egli vede ben esemplificato dal mito della caverna platonico: gli uomini che si sono liberati e che sono usciti a vedere il mondo delle idee – gli uomini dediti alla theoria –, una volta tornati dentro la caverna risultano come disadattati, faticando a riabituare gli occhi alla poca luce della caverna – il mondo della pratica, incatenato a parvenze che non è in grado di superare –. Gli emancipati, però, sono tornati giù per illuminare gli uomini mai usciti, ma vengono da questi derisi per la loro fumosa incomprensibilità.

In questo racconto fondativo della cultura occidentale è già contenuto questo eterno dissidio: la reciproca diffidenza e incomunicabilità tra uomini dediti alle arti liberali (gli “intellettuali”) e uomini dediti alle arti meccaniche; l’idea che una vita emancipata dalla conoscenza sia aristocraticamente superiore a quella inchiodata alla mera riproduzione dell’identico; il disadattamento pratico di chi si è assuefatto alle alternative controfattuali del pensiero.

La marginalizzazione della cultura umanistica – quando coincide con la marginalizzazione della Bildung – è, secondo Gadamer, la causa di «una mancata intesa tra i livelli alti del nostro saper fare, del nostro lavoro scientifico e tecnico da un lato e la gestione della nostra vita societaria, politica e privata dall’altro» (Umanesimo oggi?): quest’ultima sembra esserci sfuggita di mano, ormai governata dalla tecnica e dall’economia, che, inesorabilmente e meccanicamente fedeli alla propria logica interna di funzionalizzazione totale, riducono ad essa anche l’umano, che sarebbe per sua costitutiva condizione ad essa irriducibile. Gadamer nota come l’umanesimo oggi dovrebbe essere una forma di ecologia del progresso e della conoscenza, se «l’umanità non è destinata a trasformarsi in un formicaio o una tana di termiti, ma vivrà, invece, in un mondo umano» (Scuola e scuola superiore nella storia e nel presente):

l’intero problema ecologico è e deve essere visto in quanto da noi causato; anche qualora trovassimo vie d’uscita e soluzioni attraverso la ricerca e l’abilità pratica, non sarà comunque compito della ricerca arrivare, mediante limitazioni e rinunce, al ristabilimento di rapporti d’equilibrio turbati: questo è piuttosto il compito di una nuova coscienza della responsabilità e di una nuova solidarietà tra gli uomini, unitamente alle coalizioni di potere in cui essa è organizzata (L’uomo come essere di natura e portatore di cultura).

La tecnica procede per accumulo e superamento di conoscenze. In questo processo crea dei problemi, che però essa stessa può in seguito risolvere (la chimica inventa la plastica, successivamente inventa il Mater-Bi, per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica). Ma la vita dell’uomo non si esaurisce in questo solo processo, poiché egli ha la responsabilità, in quanto uomo, di osservarlo, giudicarlo, guidarlo. E può farlo perché egli è capace di theoria, di conoscenza pura, non solo di conoscenza applicata (téchnē).

La theoria è, secondo Gadamer, proprio quel sapere che qualifica specificamente l’essere umano, in quanto fondato sulla sua «linguisticità».

Come sa bene la linguistica, diverse specie animali possiedono un linguaggio, inteso come possibilità di comunicare, ma il linguaggio umano è unico nel suo genere (poiché possiede una sintassi, cioè, semplificando molto, una struttura logica). Gadamer reperisce l’origine di questa specificità nei racconti mitici della cacciata dall’Eden e della fine dell’Età dell’oro, a causa delle quali finisce la spontanea armonia tra essere umano e natura.

È per mezzo del linguaggio che l’uomo si distacca dallo sfondo dell’immediatezza di un eterno presente, nel quale continuano a vivere gli altri animali, e si ritrova in una perenne differenza rispetto a se stesso, grazie alla quale egli è in grado di percepirsi nella propria stessa temporalità – provenire da un passato, essere destinato a un futuro, essere destinato alla morte – e impara a conoscere l’alterità, il desiderio, il dialogo: l’alterità, poiché l’uomo, guardando anche se stesso da fuori, percependosi vivere, comprende che esistono altri soggetti a lui irriducibili; il desiderio, poiché l’uomo sa immaginare delle alternative e può dunque desiderare qualcosa di differente da ciò che gli è offerto (imposto) dalle condizioni ambientali; il dialogo, poiché l’uomo comprende che la costruzione di quel futuro immaginato dal suo desiderio presuppone un accordo con l’autonoma volontà degli altri soggetti. In virtù di questa linguisticità, di questa differenza dalla mera natura, l’uomo è essere sia culturale che naturale, come recita il titolo di uno dei saggi del volume.

Nella cultura e nella linguisticità dell’uomo risiede anche la sua libertà dalla mera natura. L’uomo è certamente un essere naturale e, come tale, ha la necessità di adattarsi all’ambiente (e alla società, in quanto organizzata secondo la tecnica, che consente all’uomo di dominare la natura e migliorare le condizioni della propria vita materiale), ma è anche un essere che ha la «capacità di vedere delle possibilità»:

Credo che questa capacità […] sia connessa veramente a una forza originaria dell’uomo […], con la sua strana posizione trasversale rispetto ai comportamenti vitali legati all’istinto propri di tutti gli altri esseri viventi. Noi siamo esseri che si pongono domande […] e, come tali, capaci di formularle (La professione quale esperienza creatrice).

Quella alla theoria, alla non immediata applicabilità del sapere (la sua “inutilità”), è perciò una vocazione inscritta nella stessa condizione umana, non un lusso per i tempi morti strappati alle necessità della produzione, né una distinzione o un privilegio di casta: tutti gli uomini sono aperti alla dimensione della domanda, dell’ipotesi, della possibilità, non vincolati al semplice adattamento alla natura.

Conclusione. Bildung ed ermeneutica: fare domande

Se la Bildung è la forma che un sapere realmente umano assume, la via per arrivare ad esso è, per Gadamer, l’ermeneutica (l’arte dell’interpretazione). Nata come disciplina tecnico-specialistica legata all’esegesi dei testi biblici e giuridici, essa diventa, almeno per l’ermeneutica filosofica novecentesca, la forma stessa del sapere umanistico, distinto dal metodo della scienza. La sua caratteristica principale, che la rende così interessante proprio a fini pedagogici, è quell’antispecialismo di cui si è già parlato.

L’ermeneutica è, infatti, «un aspetto dell’umana esperienza del mondo nel suo insieme» (H.-G. Gadamer, Verità e metodo), intendendo qui esperienza come esperienza quotidiana, comune, quella che ciascuno di noi fa semplicemente venendo al mondo e dovendo, in quanto essere umano e a differenza degli altri animali, costruirsi anche un’idea di quel mondo.

Prima di nominare la realtà circostante e la propria esperienza con le parole di una qualche disciplina (oggi maggioritarie sono la psicologia, la sociologia, l’economia, che forniscono lessico e concetti che ci rendono pensabili per noi stessi), l’uomo tenta di dare loro forma in un modo più diretto e spontaneo. In altri termini, non abbiamo bisogno di leggere in qualche manuale una definizione di noi e del nostro mondo: già prima di aprirlo, siamo in possesso di un’idea della nostra interiorità, della società intorno, delle relazioni umane, dei desideri che ci muovono, del nostro progetto esistenziale. Già da sempre, l’uomo interpreta e si interpreta, comprende e si comprende. Le discipline non sono altro che più compiute formalizzazioni di questo sapere pratico e ancora legato all’esperienza quotidiana da un primitivo cordone ombelicale.

Nemmeno la cultura umanistica in sé, oggi, può probabilmente vantare un più profondo contatto con l’umanità dell’uomo, se dimentica di essere solo un mezzo per la Bildung, per la formazione dell’essere umano.

Questa, dunque, avviene attraverso l’educazione della naturale propensione umana all’interpretazione: per questa ragione l’ermeneutica diventa non una disciplina tra le altre, ma la forma stessa dell’apprendimento. Si educa attraverso l’interpretazione: di testi, di testi letterari, di opere d’arte, di esperienze umane. «Tra ermeneutica e Bildung s’instaura dunque una circolarità virtuosa, in ragione della quale all’interpretazione si rende necessaria la Bildung, che a sua volta abbisogna dell’interpretazione per essere autenticamente compresa» (G. Sola, Introduzione).

Questa è, per Gadamer, la ragione irrinunciabile per la quale difendere la Bildung (e con essa, comunque, la cultura umanistica) nel mondo moderno: solo educando all’interpretazione si formano uomini e donne capaci di un giudizio adulto e critico sulla realtà e sul proprio presente.

Insegnare è insegnare a porsi domande, apprendere è apprendere come porle, considerando però che

la cosiddetta domanda pedagogica non è una vera domanda, la domanda d’esame è addirittura la forma ridicola di un domandare apparente. Il professore domanda qualcosa pur sapendo la risposta. Questa certo non è una domanda. […] La domanda che ci dispone autenticamente alla risposta deve essere invece posta in un modo che colui che domanda debba ponderare le possibili risposte. Non è una pretesa inattuabile. Anche nella vita quotidiana bisogna, in pratica, ponderare continuamente delle domande. Se l’unica risposta che si riesce a dare al fatto che si agisce in un determinato modo è perché si è sempre agito così, allora questa è una scusa per non pensare (Umanesimo oggi?).

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