Valutazione ed università, come riorientare i disorientati
Le dimensioni del problema della valutazione sono oggi note a chiunque frequenti le aule universitarie, si trovi esso nelle vesti di docente o di discente, tale è il numero e la rilevanza delle attività ad essa connesse, per non dire del tasso di malcontento e discussione che esse hanno suscitato. Il dibattito che è nato sin dai primi passi mossi dall’Agenzia di valutazione del sistema universitario (ANVUR) in relazione a procedure come la VQR, l’ASN, l’AVA, sembra muoversi tra due poli estremi, esemplificativamente individuabili da un lato, nelle posizioni di chi rifiuta la valutazione tout court, spesso per autodifesa e conservatorismo, ma anche in ragione dell’autorevolezza di parte della tradizione accademica italiana, finendo però col minimizzare i fenomeni diffusi di mala gestione, autoreferenzialità a tutti noti. C’è poi chi rifiuta la valutazione sulla base di una critica filosofico-politica al neoliberismo che individua i processi di valutazione come strumenti per imporre logiche aziendalistiche nell’università. Sul versante dei favorevoli alla valutazione è frequente l’utilizzo della retorica della meritocrazia e della promozione delle eccellenze come obiettivi primari del sistema universitario, nella prospettiva di evidenziare e sanzionare tramite i processi di valutazione le sacche di inefficienza ed improduttività. Si finisce col privilegiare così un atteggiamento punitivo, laddove l’analisi delle cause di tali problematiche, della loro distribuzione geografica o anche, nella geografia più complessa delle aree scientifiche al fine del loro superamento, parrebbe non rilevare come problema che i decisori in ambito universitario (Miur, Anvur, Crui) debbano porsi, o affrontare in qualche modo.
Concluso il primo quadriennio di attività dell’Anvur, è tempo per un primo bilancio delle attività e dei processi di valutazione che hanno interessato il sistema universitario anche se la parola finale potrà essere detta forse solo al termine dell’importante contenzioso che sta riguardando le procedure di abilitazione scientifica nazionale dei docenti (e aspiranti docenti) universitari.
In attesa di tale momento, per tutti coloro che si collocano nelle varie posizioni intermedie tra i due poli estremi del dibattito, resta il compito di dover fare i conti con la realtà, che pressantemente ci chiede di occuparci del problema della valutazione nell’ambito delle attività che svolgiamo quotidianamente. Il problema è poi fondamentale, non solo, di fatto, visto che la valutazione aleggia con la sua invasiva presenza nelle attività quotidianamente svolte negli atenei, ma molto di più, in relazione al futuro del sistema universitario. È da ritenere infatti che una buona valutazione possa essere centrale ai fini di un recupero di credibilità del sistema universitario e di riaffermazione del principio costituzionale dell’autonomia universitaria, severamente ridimensionata dalla cd Riforma Gelmini. Se in presenza di un’autonomia ridotta ai minimi termini, del resto, sembrerebbe rimanere poco da valutare, d’altro canto il residuo margine di autonomia può essere difeso e una maggiore autonomia potrà essere forse recuperata solo attraverso un rilancio del sistema universitario che passi attraverso una valutazione più razionale ed orientata a questo scopo.
Frequentemente la domanda sul chi-come-quando-perché valuta è legata alla presenza di risorse scarse, e alle scelte circa l’allocazione più razionale di tali risorse ai fini del buon funzionamento del sistema universitario e della ricerca. Il tema è quindi collegato a quello della contrazione delle risorse che lo Stato destina all’istruzione e alla ricerca, una scelta che l’esame comparato delle esperienze europee dimostra essere non obbligata. Tuttavia, il problema finanziario, anche dopo gli anni della crisi, non cesserà di essere attuale, anche in ragione dei vincoli derivanti per l’Italia dal Trattato sul Fiscal Compact, riversati negli artt. 81 e 97. Tali disposizioni, finché vigenti, non potranno che condizionare le scelte del finanziamento pubblico sia del sistema della ricerca e dell’istruzione che le scelte compiute all’interno dei singoli atenei
2. Prima di riflettere sulle norme costituzionali rilevanti e sul complesso disegno che emerge dalla lettura sistematica delle stesse, andrebbe sottolineato un aspetto che appare ineludibile, sebbene esso sia frequentemente trascurato nel dibattito su questo tema. Porsi la domanda su quali possano essere gli obiettivi legittimi della valutazione, in una prospettiva di politica del diritto in ambito universitario, può, infatti, aiutare ad inquadrare il tema di una regolazione più razionale del fenomeno. A cosa serve oggi e a cosa dovrebbe invece servire la valutazione sono i due corni del quesito che possiamo porci. Un punto di partenza può essere quello di considerare la valutazione come un’attività cognitiva di acquisizione di conoscenze utili all’amministrazione del sistema per il perseguimento più efficace dei suoi fini istituzionali e, più ampiamente, nell’interesse della collettività. Tra questi fini naturalmente avrà, per i motivi già ricordati, un rilievo prevalente quello di un’equa ed efficiente distribuzione delle risorse, ma naturalmente esso non potrà essere l’obiettivo esclusivo dell’amministrazione, alla luce dei principi costituzionali che pongono in capo allo Stato l’obbligo di promuovere il progresso della cultura e della ricerca scientifica, oltre a quello di garantire l’istruzione dei capaci e meritevoli fino ai più alti gradi degli studi, la libertà di ricerca e di insegnamento e l’autonomia universitaria ad esse funzionale.
Alla luce di questa banale riflessione, emerge subito un dato molto importante: la valutazione, come acquisizione ed elaborazione di informazioni sulle attività e sulle persone che le svolgono, sia essa ex post che ex ante, non può che essere servente e funzionale ad influenzare le determinazioni della pubblica amministrazione. La valutazione non può invece sostituirsi all’attività distinta rappresentata dalla decisione politica o amministrativa determinata da obiettivi di sistema, che chi valuta non ha peraltro le competenze per svolgere.
Da questo punto di vista, si deve rilevare come le procedure di valutazione che sono state attivate in questi anni così come il rapporto tra l’ANVUR e il MIUR, non paiono rispecchiare questo schema. La valutazione sembrerebbe aver infatti sostituito la decisione politica, nella quale la ragionevole ponderazione degli interessi in gioco, la visione di insieme e una prospettiva di lungo termine possono condurre al risultato di tante possibili decisioni diverse. Decisioni che saranno più facilmente accolte ed eseguite in presenza di una legittimazione chiara del soggetto che le assume, una legittimazione che tenga quindi conto del principio di legalità, di responsabilità politica, in ultima analisi del principio democratico.
Con la sovrapposizione e spesso la sostituzione della valutazione alla decisione politica, si assiste invece all’apparente soppressione del momento discrezionale, nell’ambito del procedimento nel quale dovrebbe avvenire la ponderazione tra tutti gli interessi rilevanti, con il risultato di mostrare la decisione che si assume come frutto di un’equazione, in un processo di neutralizzazione tecnocratica delle scelte politiche già ben noto agli studiosi del processo di integrazione europea.
3. Appurato che la valutazione serve ad orientare la decisione politica, con importanti ripercussioni sulla vita degli atenei e sull’evoluzione dell’attività ricerca, appare fondamentale evidenziare che nel testo costituzionale ci sono indicazioni utili ai fini della corretta impostazione delle attività di valutazione della ricerca e della didattica, e più ampiamente della gestione delle università. Posto che il legislatore e l’amministrazione non possono muovere che verso obiettivi compatibili con la disciplina costituzionale di università e ricerca, si deve sottolineare come le attività di valutazione riguardino ambiti ed oggetti molto diversi tra loro.
Innanzitutto va ricordato che si valutano le attività svolte sia dalle singole persone, che quelle imputabili alle strutture, di dimensioni molto distanti tra loro, quali i dipartimenti e gli atenei. Tra le attività valutate ci sono le attività didattiche, di singoli e di gruppi, oltre alle attività di ricerca, anche in questo caso, di singoli (ad es. nella ASN) e di gruppi (nella VQR), con l’aggiunta poi di casi in cui la valutazione ideata e disciplinata come valutazione di gruppi è stata utilizzata per la valutazione di singoli.
Alla valutazione delle attività didattiche, sin qui svolta in modo decentrato dai nuclei di valutazione degli atenei, si è aggiunta ora la valutazione dei dottorati e della sostenibilità dell’offerta didattica tramite la rigida predisposizione di canoni da parte dell’Anvur, principalmente attraverso la procedura di “Autovalutazione ed accreditamento dei corsi e delle sedi” (AVA), che ha comportato un aggravio burocratico non indifferente per i dipartimenti. L’introduzione di rigidi requisiti all’attivazione di corsi pare invero non adattarsi alle peculiarità di alcuni casi non valutabili in termini esclusivamente numerici o economicistici.
Rimanendo in questo ambito, peraltro, non si può che sottolineare come il buon andamento, l’efficienza e l’efficacia dell’amministrazione degli atenei non sembrano essere perseguiti quando, al termine del procedimento di programmazione dell’offerta formativa, venga pubblicato un decreto ministeriale che modifica i canoni di sostenibilità (cd. requisiti minimi) posti alla base della programmazione appena conclusa, con la quale si è magari giunti alla disattivazione di interi corsi di laurea per l’impossibilità di raggiungere requisiti che invece sono stati, nel mentre, allentati (DM 20 marzo 2015).
Analoghe considerazioni potrebbero essere svolte circa l’efficienza ed il buon andamento della gestione degli atenei in presenza di una distribuzione del Fondo di finanziamento ordinario che viene normalmente erogato a fine anno, anziché in tempo per definire un bilancio di previsione sulla base delle assegnazioni ministeriali. Il tema è chiaramente strettamente legato a quello della valutazione, sia perché il quantum dell’FFO è frutto della valutazione, ma anche in ragione del fatto che un’amministrazione che opera ignorando l’entità delle risorse su cui potrà fare affidamento, difficilmente potrà perseguire risultati di eccellenza, e ideare un progetto culturale e scientifico di un certo respiro.
4. Se si riflette su tutte queste attività, in relazione alle norme costituzionali rilevanti, non si può fare naturalmente a meno di chiedersi come si sia arrivati a questo punto. Il principio dell’autonomia universitaria, funzionale a costruire l’ambito ideale di esercizio delle libertà di ricerca ed insegnamento, pare invece ridotta a poca cosa da un susseguirsi di decreti ministeriali sempre più minuziosi in questi ambiti, in chiara violazione della riserva di legge di cui all’art. 33.
Come per la valutazione della didattica, anche e forse di più in merito alla valutazione della ricerca si sono palesati negli ultimi anni problemi di non poco conto. Naturalmente non si intende scendere nel merito delle complesse questioni scientometriche e bibliometriche che hanno in questi anni appassionato i fautori di una visione del mondo come diviso tra “settori bibliometrici e non bibliometrici”, ma non può che evidenziarsi come le richiamate condizioni di libertà che devono essere garantite a chi svolge l’attività di ricerca richiedono innanzitutto che la valutazione non deprima il finanziamento della ricerca, concentrandolo magari in pochi ambiti suscettibili di ricadute economiche. Il perseguimento dell’interesse generale, e il principio di cui all’art. 9 Cost. imporrebbe invece di garantire il pluralismo nella ricerca e la possibilità di indirizzare quote non irrisorie dei finanziamenti alla ricerca di base o alla ricerca cd. curiosity driven.
La valutazione non può quindi essere orientata esclusivamente in base a considerazioni economicistiche, così come non può rischiare di orientare la ricerca in relazione ai suoi contenuti.
I principi di autonomia e libertà del resto si abbracciano l’un l’altro, essendo funzionali a sottrarre alla possibile ingerenza, soprattutto del potere politico, l’attività di chi svolge la ricerca scientifica ed il progresso delle conoscenze. Da questo punto di vista è sempre più evidente l’ampiezza degli ambiti politicamente sensibili che rendono macroscopica la necessità di tutelare l’autonomia delle istituzioni in cui si svolge l’attività di ricerca, così come la posizione dei singoli in esse. In questo senso dovrebbe essere garantita una valutazione che non rischi di attentare a tali libertà.
5. Quanto alle attività gestionali e di indirizzo politico degli atenei, in questa vera e propria abbuffata di valutazione cui si è assistito a partire del 2010 può essere sottolineato un dato singolare. Nessuna delle procedure di valutazione previste coinvolge chi amministra le università. A partire dai Rettori, che hanno visto i propri compiti significativamente accresciuti dalla legge n. 240 del 2010, per giungere poi all’ANVUR. Riguardo all’operato dei Rettori la legge consente di riscontrare solo tardivamente, nell’eventuale momento patologico dell’intervento del giudice, sia esso contabile, amministrativo, o anche penale, un cattivo esercizio dei relativi poteri. Il rettore, forse in ragione dell’elettività della sua carica, non è insomma accompagnato nel suo mandato da processi di valutazione che consentano un miglioramento della sua “performance”, nonostante la sua non rieleggibilità basterebbe da sola ad escludere che la responsabilità politica possa bastare come deterrente ad una cattiva gestione, a fronte dell’allungamento del relativo mandato. Salendo ancora più su, in questo sguardo a volo di uccello sui diversi piani ove è possibile individuare i principali snodi decisionali del sistema universitario, si può rilevare in relazione al livello ministeriale, come i meccanismi della rappresentanza politica visibilmente “inceppati” nelle ultime legislature, sembrano oggi produrre una situazione in cui nessuno “valuta” il Ministro, ed esso non appare pienamente in grado di rispondere della politica governativa in materia di Scuola e Università.
Venendo al protagonista principale del sistema di valutazione, ci troviamo forse dinanzi agli interrogativi più importanti e alle critiche più nette nei confronti dell’attuale sistema di valutazione. Ci si riferisce innanzitutto alla natura ibrida dell’ANVUR, a cavallo tra un’agenzia e un’autorità indipendente per l’importanza delle funzioni che essa svolge ed il rilievo costituzionale dei diritti esercitati nel settore che le è affidato, ma la cui disciplina suscita seri dubbi di costituzionalità, vista la mancata garanzia di indipendenza e competenza dei suoi componenti. La legge istitutiva sottopone infatti l’operato dell’Agenzia agli indirizzi del ministero, mentre essa non risponde del proprio operato alle Camere, nonostante in base al regolamento che la disciplina essa sia investita di una serie di compiti davvero impressionante per ampiezza e complessità, mentre il sito dell’ENQA (European association for quality assurance in higher education) riporta come unico membro a pieno titolo dell’associazione degli enti di valutazione in territorio italiano l’Agenzia della Santa Sede per la Valutazione e la Promozione della Qualità delle Università e facoltà ecclesiastiche. L’Anvur non rientra ancora tra i “full members”, ma soltanto tra le agenzie affiliate.
Nel lungo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca presentato dall’Anvur al Ministro nel marzo 2014, solo pochi paragrafi sono dedicati alle attività di valutazione svolte, a fronte di attività come l’ASN, conclusasi in un contenzioso coinvolgente centinaia di ricorrenti in tutta Italia, o di una procedura faraonica quale la VQR, costata di gran lunga più della cifra esigua stanziata dal ministero per i PRIN (l’ultimo bando metteva a disposizione soli trentotto milioni che sono stati distribuiti nel 2013). Forse qualche riflessione almeno da parte della nuova ANVUR dovrà esser fatta.
Una versione più estesa e con note di questo articolo è in corso di pubblicazione nel volume La ricerca scientifica fra possibilità e limiti, Editoriale scientifica, Napoli, a cura di A. Iannuzzi, 2015
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