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diretto da Romano Luperini

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Nel cantiere del testo: dalla ricezione alla produzione

Pubblichiamo la relazione di Davide Racca al convegno “Lingua e letteratura nella scuola secondaria di II grado, nuovi bisogni educativi e ridefinizione del canone” del 22 ottobre 2015, organizzato dal Gruppo di lavoro scuola/università di Torino. La settimana scorsa abbiamo pubblicato la relazione di Giuseppe Noto.

Premessa

Il mio contributo ha l’intenzione di inscriversi nel quadro tracciato da quello precedente, in cui Giuseppe Noto ci invita a considerare il testo letterario quale luogo di intersezione tra l’educazione linguistica e l’educazione letteraria, cercando di aprire alcuni ulteriori sviluppi e circoscrivere in proposito alcuni nodi problematici.

Rimanendo al titolo: dalla ricezione alla produzione, dal momento che, se il contributo precedente pone al centro dell’attenzione soprattutto la ricezione del testo, qui lo scopo sarà vedere se possa esserci un rapporto tra l’ambito della ricezione del testo e quello della produzione scritta; nel cantiere del testo, nel senso che, in linea con il contributo precedente, ma tenendo appunto conto anche dell’ambito della produzione, il testo si configurerà qui come luogo di lavoro, in cui ci si trova ad operare con quello strano materiale da costruzione che è la lingua.

I. «Scrivono male»

Proponendo questo contributo in qualità di insegnante, e a nome di quella che nel Gruppo di lavoro Scuola/Università organizzatore di questa giornata di studi è la parte degli insegnanti, avrei piacere di avvicinare l’argomento a partire dal più comune, e direi quasi banale, vissuto scolastico.

Nella mia esperienza di supplente, arrivando in una scuola ad anno ormai cominciato, quasi sempre mi sono sentito dire: «Scrivono male». Era il collega di Italiano, che mi accoglieva con spirito di solidarietà disciplinare, o magari quello di un’altra disciplina, che mi presentava una classe che si aveva in comune, ma il ritornello, proferito con tono di scoramento, era sempre lo stesso: «Eh, scrivono male». Ritornello in genere seguito da un altro, proferito con lo stesso tono ma volto a indicare la causa del male: «Eh, non leggono».

Una sequenza logica, “non leggono” dunque “scrivono male”, in cui è facile riconoscere un antico luogo comune dell’insegnamento linguistico, quello cioè che instaura un rapporto di causa ed effetto tra la lettura e la scrittura, secondo il quale chi legge molto saprebbe anche scrivere bene, quantomeno meglio di chi legge poco. Luogo comune peraltro largamente diffuso anche tra i non addetti ai lavori, tant’è che più volte, parlando dei problemi di scrittura di un allievo con un genitore, anche da quest’ultimo mi è capitato di sentire: «Eh, non legge».

Da parte mia, ho sempre ritenuto da escludere che il punto sia quanto si legge. Per qualche tempo, ho pensato che consistesse piuttosto in cosa si legge, in quanto ovviamente altro è leggere Fabio Volo, altro leggere Petrarca, Manzoni, Pascoli o De Roberto. Tuttavia, presto mi sono reso conto di come anche questa ipotesi sia fuorviante: sperare che un allievo, magari di una classe prima di un tecnico o di un professionale, impari a scrivere leggendo De Roberto, non solo è illusorio, in quanto non ne ha gli strumenti, ma anche discutibile sul piano della metodologia didattica, in quanto significa partire non da lui, da quella che Vygotzkij chiama la sua “zona di sviluppo prossimale”, ma da noi stessi, lettori di De Roberto.

Nondimeno, posto che il punto non sia il quanto o il cosa si legge, credo che il vecchio adagio un fondo di verità lo abbia, che una qualche relazione tra la lettura e la scrittura ci sia; e l’intenzione qui, come si diceva, è appunto quella di interrogare questa relazione.

Volendo anticipare, potrei avanzare fin da subito l’ipotesi che a contare, ai fini della produzione scritta, più che il quanto o il cosa, sia il come si legge. In luogo però di saltare alle conclusioni, è forse meglio ripartire dal problema.

II. Il problema: la struttura

È evidente a tutti: salvo eccezioni, scrivono male. Tuttavia, quando diciamo questo, cosa intendiamo? Perché diciamo che i nostri allievi scrivono male?

Nella mia esperienza, parlando della questione tra colleghi, a parte il lamento relativo alla povertà del lessico e al suo uso improprio, ho perlopiù sentito fare esempi tra ortografia e morfosintassi: un accento, un apostrofo, un digramma in luogo di un trigramma o viceversa, l’a senz’h quando ci vorrebbe o con l’h quando non ci vorrebbe, l’e con l’accento quando congiunzione o senza accento quando verbo, concordanze sbagliate nel genere o nel numero. Tutt’al più qualche esempio di punteggiatura: qualche virgola o punto e virgola qua e là.

Ora, se volessi lanciare una provocazione, direi che si tratta di inezie. Fuori invece da ogni provocazione, dico che gli esempi in questione sono da considerarsi inezie se presi di per sé, nella misura in cui non vengano considerati nella loro natura sistemica e studiati nel quadro di un problema ben più ampio e profondo. Problema, quest’ultimo, di cui essi non sono che le emergenze più evidenti e superficiali; e in quanto tali, ammettiamolo, per noi anche più facili da circoscrivere e correggere. Ma qual è dunque questo problema più ampio e profondo?

A mio avviso, questo problema è la struttura. Nei testi dei nostri allievi, è la struttura che non regge. Non regge sul piano formale, dalla suddivisione in capoversi alla sintassi dei periodi e delle singole proposizioni. Non regge sul piano contenutistico, in quanto va da sé, o almeno dovrebbe andar da sé, che forma e contenuto sono intimamente correlati. E non regge, spesso, al punto da risultare di fatto non correggibile, in quanto correggerla richiederebbe di riscrivere il testo da capo a fondo a quattro mani con l’interessato. Lavoro per il quale, in classi di 20, 25 e magari 30 allievi, a meno che non si voglia dedicarvi l’intero monte ore della disciplina, non si può nemmeno lontanamente pensare di trovare il tempo.

C’è però di più: a ben vedere, il punto non è solo che la struttura non regge, ma anche, a monte, la mancanza di consapevolezza, in primo luogo, del fatto che un testo è una struttura, in secondo luogo del fatto che in tale struttura forma e contenuto si corrispondono. Mancanza, questa, che rende il problema ancor più difficile da affrontare, in quanto è ovvio: solo se sono consapevole del fatto che un testo è una struttura, potrò capire di aver scritto un testo che non regge e prendere attivamente parte a un suo miglioramento, mentre invece, se non ne sono consapevole, ogni sollecitazione in questa direzione non sarà per me altro che un’oziosa pretesa dell’insegnante. Quanto poi alla corrispondenza di forma e contenuto, ne verrà la più classica delle domande: «Ma il contenuto va bene?».

L’impressione è che il problema sia generalizzato. L’esperienza direbbe che riguarda, in diversa misura, lo studente medio di tutti gli ordini di scuola. Non solo: nell’ambito di uno stesso ordine, lo studente medio di una qualsiasi classe, dalla prima alla quinta. Aspetto quest’ultimo tanto più inquietante, in quanto sembra testimoniare, oltre che il problema, anche l’inefficacia del nostro lavoro, il fatto che noi insegnanti o non lo vediamo o, pur vedendolo, non sappiamo mettere in campo strategie capaci di affrontarlo. Inefficacia in merito alla quale, d’altra parte, le stesse linee guida e indicazioni nazionali non sembra aiutino, in quanto relegano lo studio della proposizione e del periodo al solo biennio, avvalorando così un’idea piuttosto “scolastica” della grammatica, come se si trattasse di una disciplina a sé, con una serie di argomenti, e relativi esercizi, da fare per antica tradizione e archiviare, quando invece dovrebbe ormai essere acquisito che fare grammatica ha un senso nella misura in cui: 1) si operi “in situazione”, in contesti comunicativi reali; 2) si adotti una strategia ricorsiva, che torni continuamente su quanto si è già visto, per correggere o anche solo per consolidare e approfondire, fino alla quinta compresa.

Certo, dal momento che i nostri allievi non vengono dal nulla, il problema non riguarda solo la scuola. È infatti forse la nostra stessa società, presa nel frenetico e seriale rincorrersi di testi della più disparata natura, ad aver smarrito il senso della struttura, tanto che non sarebbe forse fuori luogo parlare, applicando all’ambito della testualità la nozione di “liquidità” di Bauman, di testi liquidi: una società liquida che produce testi liquidi, trascurati sul piano della forma e inconsistenti su quello del contenuto, di cui l’sms, il post e il tweet possono considerarsi gli esempi più rappresentativi. Se così fosse, la domanda che ne verrebbe sarebbe scoraggiante: come può la scuola promuovere negli allievi il senso della struttura, quando la società in cui opera va in direzione contraria? Lavorare alla struttura di un testo richiede cura, attenzione e concentrazione, vale a dire cose che nella società del tweet e della distrazione di massa pare non siano di casa.

Lasciando però da parte la sociologia, anche perché non vorremmo mai passar per gufi, soprattutto non per nostalgici dei bei tempi andati, siamo costruttivi e chiediamoci piuttosto cosa fare.

III. L’esemplarità del testo letterario

Cosa fare dunque? Le ipotesi possono essere le più diverse. In linea generale, per promuovere negli allievi il senso della struttura, può tornare utile ogni tentativo di far emergere il carattere strutturale di quanto si prende in esame: da un quadro a una formula matematica, da un fenomeno storico a un software informatico.

Restando però nell’ambito di nostra competenza, è proprio a questo proposito che, a mio avviso, può entrare in gioco, ed entrarvi con un ruolo decisivo, la letteratura. Premesso che, quando si dice letteratura, si vuole qui intendere più propriamente il testo letterario: non l’io storico di Leopardi, non l’io poetico di Leopardi, relativamente ai quali sarebbe peraltro bene tener presente il rischio che non siano in fondo altro che una proiezione a posteriori dell’insegnante, ma appunto i testi di Leopardi. Ed ecco dunque, più precisamente, la nostra domanda: in che senso la letteratura, intesa come testo letterario, può giocare un ruolo decisivo per la produzione testuale dei nostri allievi?

Per il problema che prima si è detto stare a monte, la mancanza di consapevolezza del fatto che un testo è una struttura, e una struttura in cui forma e contenuto si corrispondono, la risposta è presto data: il testo letterario può giocare un ruolo decisivo in quanto possiede in tal senso un valore esemplare. Non è certo necessario scomodare Jakobson, per riconoscere nel testo letterario il testo che per eccellenza si concentra sulla propria forma e struttura, esattamente come non è necessario scomodare il nostro De Sanctis, per riconoscere nel testo letterario il testo in cui per eccellenza forma e contenuto si corrispondono. Il punto, semmai, è vedere come far sì che i nostri allievi lo percepiscano in questo suo valore esemplare. Dunque vedere in che modo affrontarlo, in classe, il testo letterario.

Questo modo non può che essere la sua analisi, così come viene prospettata nel contributo di Giuseppe Noto, nel contesto del quale già si può presagire, dal punto di vista della ricezione, l’idea del testo come cantiere. Tuttavia, in prospettiva di un passaggio dalla ricezione alla produzione scritta, porrei più fortemente l’accento qui sull’analisi degli aspetti sintattici del testo, relativi alla costruzione delle proposizioni e dei periodi, vale a dire proprio a quanto nei testi dei nostri allievi, come si diceva all’inizio, non regge. Questo peraltro anche tenendo conto del fatto che, se prima si lamentava una grammatica relegata al solo biennio e trattata come disciplina a sé, sottolineando come invece la si dovrebbe affrontare in contesti comunicativi reali e in prospettiva ricorsiva, un’occasione in tal senso può essere offerta proprio dal particolare contesto comunicativo rappresentato da un’analisi del testo letterario così intesa, tanto nel biennio, quando la si dovrebbe introdurre, quanto poi soprattutto nel triennio, quando la si dovrebbe utilizzare in modo più sistematico.

In questo quadro, a essere chiamato in causa è il vecchio statuto della parafrasi, troppo spesso ridotta a un semplice esercizio mnemonico, in cui l’allievo si disinteressa del testo e manda a memoria quello che trova in nota o che gli è stato sostanzialmente dettato. Per quanto mi riguarda, se fare letteratura si limitasse a questo, per poi magari abbandonarsi a più o meno improbabili divagazioni sul contenuto, in cui peraltro a farla da padrone, più che il testo, rischia di essere il frustrato narcisismo dell’insegnante, si potrebbe benissimo non farla più. Ovviamente però la questione è un’altra: se letteratura è anzitutto il testo letterario, allora anche la parafrasi dovrà essere affrontata con altre modalità, entrando nel tessuto sintattico del testo attraverso un paziente lavoro di scomposizione, analisi e ricomposizione delle sue parti costituenti, che faccia del testo, appunto, un cantiere. Un lavoro, questo, che potrà avere effetti immediati: sul piano della letteratura, l’acquisizione di una più salda padronanza dello specifico testo letterario affrontato; sul piano della lingua, lo sviluppo o il consolidamento di specifiche conoscenze e abilità grammaticali, secondo la strategia ricorsiva di cui abbiamo sottolineato l’importanza. Ma un lavoro soprattutto che, se intrapreso sistematicamente, potrà avere ben più importanti effetti a lungo termine, relativi non solo a specifiche conoscenze e abilità, ma anche al quadro generale delle competenze: in primo luogo, a partire dall’esemplarità del testo letterario, l’acquisizione della consapevolezza che abbiamo più volte detto stare a monte; in secondo luogo, su questo sfondo, l’acquisizione di un metodo di lettura, che appunti l’attenzione sulle strutture formali e sulle relazioni che intercorrono tra queste ultime e i contenuti, da applicare poi autonomamente a qualsiasi testo, letterario e non; in ultimo, ma non ultimo, in quanto decisivo per il nostro discorso, la possibilità di una trasposizione di questa consapevolezza dall’ambito della ricezione del testo a quello della produzione scritta e di una conversione di questo metodo di lettura in un metodo di scrittura. In breve, dal cantiere in cui si scompone, analizza e ricompone, a quello in cui si costruisce.

Per tornare al punto da cui siamo partiti, è a mio avviso solo in questa prospettiva che si può ancora parlare di una relazione tra lettura e scrittura. Solo se i nostri allievi avranno fatto proprio questo metodo di lettura, al punto di applicarlo autonomamente, potranno: 1) leggere De Roberto; 2) imparare a scrivere dalla lettura di De Roberto. Come già si era anticipato, non il quanto o il cosa, ma il come si legge.

Ed è peraltro in questa prospettiva che può tornare utile ogni tipo di testo. È in questa prospettiva che, per esempio, può vedersi sotto nuova luce anche il tweet: se è vero che la brevità non richiede meno sforzi di quanti ne richieda la prolissità, ecco allora che proprio il tweet potrebbe esserne una palestra.

IV. Ridefinizione del canone e programmazione

Inevitabilmente, da quanto detto fin qui, emerge una questione, relativa a uno dei temi indicati nel titolo di questa giornata di studi, anch’essa già toccata nel contributo precedente: la ridefinizione del canone.

La questione è semplice: il metodo di lettura di cui abbiamo parlato richiede moltissimo tempo, ragion per cui, se lo si vuole adottare in modo sistematico, e perché abbia effetti a lungo termine non si può che adottarlo sistematicamente, sarà necessario “tagliare”, ma di molto, i programmi che per lunga tradizione siamo abituati a seguire. Esigenza che riguarda singole opere, in primo luogo ovviamente la Commedia, ma che chiama in causa anzitutto la storia della letteratura per autori.

In proposito, se sull’esigenza di “tagliare” ormai un po’ tutti concordano, grande è poi la confusione quando si tratta di decidere cosa “tagliare”. A titolo di esempio, ricordo una riunione di Dipartimento dedicata alla questione, in cui si finì per discutere per tutto il tempo sull’opportunità di fare o meno Tasso, con immancabile collega che, di fronte all’ipotesi di “tagliarlo”, contestava: «Ma Tasso è sublime! Non si può non farlo!». Come se a essere in questione fosse la grandezza di Tasso. Non una parola però sul come, eventualmente, farlo.

Ora, a mio avviso, è la prospettiva stessa che non funziona. L’ipotesi di “tagliare” presuppone via sia un elenco di autori per ordine di importanza, quasi la storia della letteratura fosse riducibile a una sorta di campionato con relativa classifica, da utilizzarsi poi appunto per praticare i “tagli” resi inevitabili dalla mancanza di tempo, per cui, se Montale è quinto e Saba decimo, via Saba. Una simile impresa, a parte il suo fondarsi su un modo piuttosto banale di concepire il canone, avrebbe forse un qualche senso se il nostro obiettivo fosse quello di somministrare agli allievi il più ampio numero di autori e testi consentito dal tempo a nostra disposizione, in modo da farli andare per il mondo con un bagaglio letterario quanto più possibile di peso, ma non credo che il nostro obiettivo possa semplicemente considerarsi questo, anche solo perché sappiamo bene che del bagaglio volta per volta accumulato, superata la prova e portata a casa la valutazione di turno, non resta loro che un vago ricordo.

Nostro obiettivo, se si vuole prendere sul serio la nozione di competenza, dovrebbe certo essere, per un verso, quello di far acquisire agli allievi un quadro storico-letterario di riferimento, ma soprattutto, per altro verso, quello di fare in modo che maturino un approccio consapevole alla letteratura e un metodo di lettura, da applicarsi poi autonomamente a quanto incontreranno nel loro percorso di studi successivo, in ambito lavorativo e nel tempo libero. D’altra parte, immagino che gli stessi docenti universitari di letteratura italiana non ci chiedano di preparare studenti che abbiano il ricordo più o meno vago del maggior numero di testi e autori possibile, ma studenti che sappiano porsi di fronte a un testo, anche e soprattutto a un testo mai visto prima; e che magari, tornando al nostro tema, sappiano anche strutturare un discorso. Ma allora, se questo è l’obiettivo, più che seguire un canone predefinito, pensato come una classifica e da “tagliare” a seconda del tempo di cui si dispone, la programmazione dovrebbe essere “cucita” sulla specifica situazione in cui ci si trova ad operare, su ogni singola scuola e ogni singola classe. Ragion per cui, posto che Tasso non lo si potrà non toccare nel quadro storico-letterario, alla domanda relativa al fare o meno dei suoi testi, inseparabile da quella relativa al come farli, non si potrà rispondere a priori, ma solo alla luce di quanto, in vista dell’obiettivo, richiede il contesto.

In questo senso, sarebbe forse utile che il canone, invece che come un elenco di autori per ordine di importanza, fosse pensato come un repertorio di testi, che possano considerarsi chiave per gli snodi del quadro storico-letterario e al contempo funzionali all’obiettivo di cui si è detto, da cui attingere a seconda delle esigenze della situazione, fatta poi salva la possibilità di utilizzare al caso anche testi che da un simile canone sarebbero comunque esclusi. Prospettiva, questa, in cui peraltro può forse trovare nuova declinazione anche la famosa libertà di insegnamento, appunto in quanto scelta da operare in situazione, sulla base di un canone pensato come repertorio ed eventualmente di quanto a vario titolo prolifera ai suoi margini.

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