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diretto da Romano Luperini

La crisi del genere lirico: Luzi da «Onore del vero» a «Nel magma»

Questo saggio riproduce la relazione svolta al convegno “L’ermetismo e Firenze”, in occasione del centenario della nascita di Mario Luzi. Essa sarà pubblicata negli Atti del Convegno a cura di Anna Dolfi.

Premessa

Questa nota vuole porsi come commento o semplice illustrazione della seguente affermazione di Luzi riferita a Nel magma: «Avevo a lungo sognato di spingere più oltre di quanto avessi fatto nell’Onore la captazione del reale e l’identità di prosa e poesia»1.

Siamo nella primavera del 1963 e Luzi sta rispondendo a Sereni, che, ricevuta per «Questo e altro» la prima serie di testi destinata a confluire appunto in Nel magma, gli aveva scritto che essi rappresentavano il «naturale sbocco» e addirittura la «conclusione» di quanto lui stesso aveva avviato in quegli anni (si riferisce ovviamente all’ormai prossimo Gi strumenti umani), infine attestando: «Siamo su terreni straordinariamente simili». Per spiegare tanto consenso e tanta concordanza di intenti Luzi osserva che entrambi stavano compiendo la stessa operazione poetica: «lasciar parlare le cose», senza sovrapporvi un proprio giudizio.

Il programma di lasciare che le cose parlino da sole può essere espressione, come si sa, di una intenzione tanto realista o naturalista quanto simbolista. Ma per Nel magma Luzi sembra pensare soprattutto a una prospettiva del primo tipo dato che parla di una «captazione del reale» e di «identità di prosa e poesia». Inoltre, sempre nella frase citata all’inizio, traccia una linea interessante di continuità e insieme di distinzione fra Onore del vero e Nel magma: si tratterebbe di un progetto comune, ma spinto nella nuova opera «più oltre» in direzione realistica e prosastica. Se ne potrebbe arguire che Onore del vero sia un primo passo verso questo obiettivo, ma che una svolta decisiva si produca solo con Nel magma. Non vi è dubbio insomma che risulti confermata una nozione critica e storiografica ormai consolidata, secondo la quale la nuova opera di Luzi, insieme con Gli strumenti umani, ma anche con La ragazza Carla, La vita in versi e Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, tutte opere uscite nella prima metà degli anni sessanta, si porrebbe al centro di un vero e proprio terremoto del genere lirico, già messo sottosopra, d’altronde, da un lato da Laborinthus e dai novissimi, dall’altro dai poemetti pasoliniani degli anni cinquanta.

Attraverso alcune rapide rubriche, forse anche troppo trancianti, vorrei mostrare sia la continuità sia, soprattutto, la rottura frale due opere, pur uscite a pochi anni di distanza l’una dall’altra, nel 1957 Onore del vero, nel 1963 (poi in edizione accresciuta nel 1966) Nel magma.

Titoli

Onore del vero è un titolo contraddittorio: da un lato pone l’accento sul «vero» e dunque rimanda, parrebbe, a una tematica di tipo realista («alla questione del realismo», ha scritto Marchi, mentre Quiriconi vi vede la conclusione di una «parabola di approssimazione ai dati dell’esistenza»)2, dall’altro il «vero» cui si riferisce viene subito nobilitato dall’«onore» che gli viene riconosciuto. Esso infatti porta in sé un’impronta trascendente che, lungi dal rivelarsi in un tempo «sospeso» mediante «un miracolo» o «un prodigio», può offrirsi invece in ciò «ch’è prossimo a noi umile e vero», in un paesaggio marino fatto di uomini che tirano le reti e di un pescatore che cerca i «pochi doni» che il mare gli lascia (Il pescatore). È comunque un fatto importante che ora la trascendenza venga avvertita e cercata nell’immanenza, e anzi nella immanenza più «umile». Se dal piano semantico ci volgiamo poi a quello formale e stilistico è evidente un’altra contraddizione: un titolo che celebra il vero e l’umile rivela qui quella marcata propensione per gli astratti e quella assolutizzazione del sostantivo unita all’eclissi dell’articolo determinativo che sono segni forti di una continuità con una tradizione di elezione poetica quale era quella ermetica.

Nel magma è invece un titolo più concreto e referenziale: rimanda all’indifferenziato dell’esistenza, al suo carattere caotico e difficilmente decifrabile, con una eco forse della palus putredinis sanguinetiana o del «passaggio per l’informità» di cui parla Zanzotto in IX Egloghe d’altronde uscite l’anno prima. Se si passa poi ai titoli dei singoli testi, questa impressione risulta ampiamente confermata. Sia in Onore del vero che in Nel magma essi si riferiscono soprattutto allo spazio e al tempo, ma nella prima opera si tratta di luoghi e momenti prevalentemente lirici e indefiniti, nella seconda prevalentemente concreti e definiti: da un lato Sulla riva, Lungo il fiume, Versi d’ottobre, Mezzogiorno, primavera, Cose estive, La notte lava la mente, dall’altro Presso il Bisenzio, Tra le cliniche, Nel caffè, Bureau, Terrazza, Nella hall, Tra quattro mura, Tra notte e giorno, Prima di sera. Nel secondo caso, l’accresciuta referenzialità è confermata dalla scelta di un lessico comune, che accoglie anche termini desunti dal francese (bureau) o dall’inglese (hall). A questo proposito non manca un titolo, Ménage, che sembra preludere al linguaggio del chiacchiericcio mondano caro al Montale di Satura e delle raccolte successive. Siamo ormai in un vocabolario poetico largamente sliricizzato e lontanissimo da quello del primo Luzi (in cui i titoli, ha osservato recentemente Damiano Frasca, alludevano perlopiù a «luoghi mitici, vaghi», ispirati a una sostanziale «elusività evocativa», come Cuma, Città lombarda, Olimpia, Eleusi)3. In alcuni titoli di Onore del vero è possibile cogliere un intento già realistico (per esempio Osteria o Il campo dei profughi), in altri, i più, la precisione dell’indicazione geografica o temporale viene sfumata e alleggerita con la creazione di una atmosfera allusiva ed evocativa (come in Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo, dove il riferimento puntuale al luogo geografico viene corretto dall’eco che nel’immaginario hanno la richiesta d’asilo e la figura del pellegrino) o con la scelta dell’assolutizzazione o dell’astrazione di uno o più sostantivi (Uccelli, Onde, Nero, Epifania, Mezzogiorno, primavera, in parte anche, Nell’imminenza dei quarant’anni).

Luoghi, persone, oggetti

I luoghi di Onore del vero sono prevalentemente lirici. Il riferimento realistico è subito controbilanciato in senso soggettivo ed evocativo: il mare si torce in cale livide, i pontili sono deserti, gli orti risecchiti, i borghi cupi, onnipresenti il fumo, la neve, la pioggia, il vento. Nelle vie di gatti percorse dalla tramontana, nelle viottole, fra baracche e casupole, lungo la riva dei fiumi o sulla spiaggia battuta dal mare si aggirano figure antiche, residue di una civiltà che sta scomparendo: l’uomo del faro, un vecchio lupo di mare, il pescatore d’anguille, un flautista o lanciatore di coltelli, venditori ambulanti, bracconieri, donne che prendono acqua alla fontana, osti di campagna, renaioli, vagabondi senza tetto. Si è detto spesso che si tratta di paesaggi allegorici4. In realtà sono sempre percorsi da un empito evocativo che presuppone le correspondances fra soggetto e oggetto della tradizione simbolista. Qui non abbiamo terre spoglie abbandonate dal senso, ma nella desolazione dell’ immanenza il soggetto ritrova costantemente una possibilità di trascendenza che può riscattarla. Invece in Nel magma i luoghi sono cittadini e appartengono alla modernità: caffè o bar, cliniche di un ospedale, l’ ufficio di una banca, la hall di un albergo, lo scompartimento di un treno sulla tratta Pisa-Firenze, l’abitacolo di una auto, un cinema; le case sono borghesi e agiate, con divani e terrazze sulla campagna; la città ha casamenti alti e anonimi, negozi di artigiani che stanno chiudendo perché senza lavoro, strade e tetti con pali della luce, fili e antenne. Il corso d’acqua può essere, realisticamente, «la gora della concia». Le persone sono borghesi ricchi, altezzosi e potenti, ma moralmente squallidi, donne che appartengono alla società mondana, talora più aperte e colte dei maschi, oppure impiegati di banca, camerieri e cameriere dei bar e dei caffè dove sono ambientati diversi testi. Anche gli oggetti cambiano: in Onore del vero incontriamo quelli campagnoli già inseriti nella lirica moderna da Pascoli: aratri, carri, tini, caminetti dove arde il fuoco, imposte sconficcate alle finestre, madie, zappe, il cercine delle donne, i cappucci e le pellegrine per proteggersi dalla pioggia, una chiatta e la pertica per spingerla; in Nel magma la radio, il transistor, il giradischi, la musica di un disco, un film in technicolor, la gomma da masticare, la maniglia che serve ad aprire la portiera dell’auto, la garza del forato nella gola, il volante, il cambio, il grembio della cameriera e la gabbana del suo collega, il ventilatore… Insomma dominano qui incontrastati gli oggetti della modernità, che lo stesso Pascoli e poi soprattutto Montale (assai meno d’Annunzio, che li nobilita appena li nomina) avevano cominciato a introdurre nel lessico poetico. Ma bisogna riconoscere che già Onore del vero, come d’altronde il precedente Primizie del deserto, avevano dato congedo al repertorio del simbolismo e del decadentismo internazionale del primo Luzi (avorio, basalti, chimere, porfidi ecc.).

Aggettivi

In Onore del vero l’aggettivo qualificativo riferito a un sostantivo immediatamente precedente ritorna con frequenza altissima. Un solo esempio: in Nell’imminenza dei miei quaranta anni questo stilema compare sette volte, e altrettante in Il piacere. Ma in quasi tutti i componimento esso è presente quattro, cinque, anche sei volte. Nel giro di pochissime pagine incontriamo: «grida acute», ««steli invisibili», «primavera strana», «nuvole rade», «cielo o umido o bruciato» (in Uccelli), «cale livide» (in Onde), «giorni chiari», «luce densa», «macchie dondolanti o ferme», «frutto splendido», «cuore gonfio» (Amanti), e poi, e di qui in avanti cietrò solo alcuni fra i moltissimi casi possibili, «marmi fiochi» (in Il vivo, il morto), «volo cieco» (Come deve), «fuoco triste» (Versi d’ottobre), «veglie tristi», «lumi/ fiochi» e «abissi neri e viola» (Nero), «aratri inerti» e «testimone muto» (Come tu vuoi), «vento terragno», «luoghi/ noti e ignoti» e «bufera eterna» (in In un punto), «valli/ nascoste», «libro aperto», «finestre vive» e «trofei lievi» (in Interno), «orridi felici», «vie/ ripide», «mestiere oscuro», «pensieri inquieti», «guadi limacciosi« , «cielo e terra indivisi» e «numi agresti» (in Il piacere), «sogni inaspettati» e «fiume rapido» (in Lungo il fiume), «gente muta», «incertezza luminosa», «rena umida», «tempo sospeso», «luoghi arcani» e «occhi ansiosi» (in Il pescatore), «nome effimero» e«terre avare» (in L’osteria), «vegliardi acuti» (in Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo), «borgo/ cupo», «filo/ sottile», «ilarità improvvise, rapide», «mondo/ opaco», «vie chiare», «cunicoli/ fitti», «incontri effimeri» (in Nell’imminenza dei quarant’anni), «ore lentissime» e di nuovo «terre avare» (in A mia madre dalla sua casa) eccetera. La esemplificazione, per quanto ampia, è stata tutt’altro che esaustiva, ma si può comunque da essa capire quanto la sequenza sostantivo+aggettivo qualificativo sia in Onore del vero uno stilema straordinariamente costante. Sono però quasi del tutto assenti gli accostamenti arditi dell’aggettivo al sostantivo frequenti in area ermetica (sul tipo di «oscuro/ e montuoso esulta il capriolo» del primo Luzi). Le eccezioni sono poche, se non mi sbaglio solo due: «orridi felici» e «incertezza luminosa». Però la sovrabbondanza stessa della aggettivazione e l’uso insistito di questo stilema costituiscono indubbiamente un tributo alla esperienza lirica del passato, a causa della valenza metaforica e talora sinestetica introdotta da un aggettivo che immediatamente fa trapassare il dato oggettivo in uno soggettivo, trasfigurando il primo in senso ora patetico, ora spiritualistico (si pensi a «marmi fiochi», «fuoco triste», «testimone muto», «luoghi arcani», «incertezza luminosa», «tempo sospeso» ecc.)5. La realtà insomma viene nominata e immediatamente allontanata, trasformata in evocazione e mito.

Il numero degli aggettivi si abbassa notevolmente in Nel magma. E muta radicalmente anche la loro funzione. L’aggettivo acquista una valenza fortemente semantica, in senso ora referenziale, ora espressionistico, e spesso combinando insieme entrambi questi aspetti, con una rinuncia quasi totale a tonalità patetiche. In Presso il Bisenzio, per esempio, hanno una funzione semantico-referenziale gli aggettivi che connotano il paesaggio («la terra fradicia dell’argine», «la pianta grassa dei fossati», «il ciglio erboso», la «traccia tortuosa», «i fili alti» sopra pali e antenne), mentre quelli che definiscono i personaggi ne deformano espressionisticamente i volti e i gesti («occhi vizzi, deboli», «tic convulso», «labbra tormentate»), facendo trasparire un implicito giudizio morale. E’ così anche in una serie di altri casi in Tra notte e giorno, Ménage, In due, testi in cui troviamo «sorriso colpevole», «viso servo e ghiotto», «viso/ disfatto», «labbra dure/ e secche», «occhi vuoti/ e bianchi», «labbra tormentose», «nuca scialba». Ma la esasperazione dei tratti fisiognomici può anche indicare solo una condizione fisica di sofferenza o un disagio spirituale, come nel caso del forato nella gola, una sorta di doppio o alter ego del soggetto in Nel caffè, rappresentato con «occhi grigi», «bocca vizza», «voce rauca», «voce afona/ e dura» e capace di un’«occhiata bianca» di rimprovero. In questo poemetto, l’aggettivo torna ad avere una funzione giudicante solo nei confronti della «moltitudine sorda» della folla anonima degli avventori, ma compare, qui e altrove, anche in espressioni quotidiane del parlato (come «tempi duri», mentre in In due troviamo «gelosia senile») o rientra nella mimesi descrittiva tipica di una narrazione in prosa (come nel sintagma «danzano al fruscio basso di un disco»). Anzi, la cattiveria stilistica di Luzi ricorre spesso ad aggettivi usuali del parlato per connotare un personaggio sgradevole, descrivendolo, per esempio, con«occhi stralunati» e con un «respiro forte di tabacco e d’alcool» (in Bureau).

Colloquialità e dialogicità

Una colloquialità è presente già in Primizie del deserto e in Onore del vero, ma, avverte giustamente Mengaldo, è «del tutto introvertita e declinata pateticamente»6. Il “tu” cui ci si rivolge è perlopiù l’io stesso o un suo doppio (si vedano «sai» in Onde, «Che fai, che fai? Resisti a questa lima» in Cose estive, «Dici, che m’ha portato questo giorno?», in Nero, «Che fai, che fai? Ti perdi in questo arcano», in Il campo dei profughi), mentre quello di Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo potrebbe essere il tu di un accompagnatore, che però resta in ombra, una evocazione, non un personaggio. Anche il tu della figura femminile di Se pure osi rimane sostanzialmente indeterminato perché evocato solo molto vagamente attraverso «la luce di gemma ch’è dell’Umbria/ di prima estate tra Foligno e Terni» (e lo stesso discorso si potrebbe ripetere per Amanti). Oppure il tu può essere quello della preghiera cristiana rivolta a Dio (in Las animas e in Nel mese di giugno). Così anche l’incontro (certificato dal titolo: L’incontro appunto) con una immagine femminile che sembra diventare per un attimo interlocutrice si risolve pateticamente in un turbine autunnale di foglie travolte dal vento e nella malinconia di una luce al tramonto che si spegne. Manca, in tutta la raccolta, un vero dialogo, almeno che non si consideri tale quello immaginato con un morto (in Il vivo, il morto).

Con Nel magma, invece, la colloquialità diventa aperta dialogicità. E’ stato detto giustamente che si assiste al passaggio dal poeta come voce al poeta come persona7, qui per di più chiamata apertamente per nome, Mario, quasi a cancellare la differenza fra l’io empirico e l’io trascendentale che parla nelle poesie. Il soggetto si confronta con i compagni che lo accusano di diserzione dalla lotta, con donne che gli suggeriscono una prospettiva trascendente o ne rimproverano l’egocentrismo o implorano il suo aiuto, con rivali d‘amore di un tempo, con antagonisti ideologici, con giudici che lo accusano sul piano morale e religioso, con un giovane deluso d’amore, con un opportunista dall’aspetto di «pretonzolo». Il personaggio che dice “io” non è più un «testimone muto» come in Onore del vero, ma partecipa a una controversia, è attiva ed eloquente parte in causa8. I dialoghi sono quasi sempre a due, anche quando si svolgono in presenza di più persone dopo l’incontro con un gruppo (come in Presso il Bisenzio) o nella folla di un ricevimento (come in Terrazza o in Dopo la festa). Le eccezioni sono poche: per esempio, il tema del triangolo, evocato dalla figura del rivale, si scioglie in un rapporto dialogico a tre fra il protagonista, una donna e il marito di lei in Ménage; oppure può accadere che il soggetto si rivolga a una coppia e dunque l’interlocuzione coinvolga ancora tre persone (in L’uno e l’altro), o, ancora, che il dialogo fra due interlocutori maschili avvenga in presenza di una donna che vi partecipa con l’espressione eloquente degli occhi (in Terrazza). E’ stato osservata giustamente da Frasca l’assenza di una dialogicità plurilinguistica in senso bachtiniano, in quanto il punto di vista dell’altro, se antagonista, è deprivato di valore e sottoposto al giudizio dominante e spesso sprezzante del soggetto e, se solidale, è immediatamente fatto proprio dall’io9. È evidente infatti che nel primo caso il punto di vista altrui è subito annientato e nel secondo è solo una proiezione del soggetto o l’espressione di un suo doppio (come in Nel caffè). Aggiungerei, a conferma, che una dialogicità forse più vera, e non meno fitta e conflittuale, va registrata all’interno del protagonista, colto spesso nel momento di una «disputa» con se stesso (il termine è in D’intesa), mentre riflette, si interroga, si accusa o si assolve. Ma con Frasca poi non concorderei nel ritenere tale fenomeno una conferma del rispetto luziano della postura tradizionale dell’io poetico e della continuità con la lirica postsimbolista: qui l’io trascendentale è drasticamente ridotto all’io empirico; i personaggi hanno una evidenza corposamente espressionistica; l’argomento della «disputa» riguarda il costume, la moralità e una religione vissuta non per allusioni mistiche ma come scelta concreta di vita (si veda l’attacco all’opportunismo del «pretonzolo» in Tra quattro mura); l’ambientazione è realistica, e di un realismo non più confinato al mondo contadino o artigiano caro a Betocchi o al neorealismo toscano (quello del primo Cassola, per esempio), come era in Onore del vero, ma verificato sui grandi temi dell’alienazione neocapitalistica che allora erano all’ordine del giorno nel dibattito culturale, nel cinema e nella letteratura, e declinato in modernissime forme oniriche e quasi visionarie (Presso il Bisenzio è un grande esempio di realismo onirico).

Metrica

La metrica di Onore del vero è endecasillabica, anche se l’endecasillabo è spesso alternato a quinari, settenari, doppi settenari, talora a ottonari e novenari, o, più raramente, a versi più lunghi (come il primo di Versi d’ottobre, forse un endecasillabo allungato da un quinario: «E’ qui dove vivendo si produce ombra, mistero»). Interessante è l’uso frequente di un novenario con accenti di quarta e ottava, in modo da risultare un endecasillabo a minore ipometro e confermare così il ritmo endecasillabico dominante. Ancora più interessante è la sperimentazione di un endecasillabo anomalo con accenti di terza e di ottava: tra i vari esempi possibili i due di seguito di Come tu vuoi («è il silenzio del testimone muto/ della neve, della pioggia, del fumo»), quello di Casa per casa («il distacco dalla mia pianta d’anime») e soprattutto l’ultimo di La notte lava la mente, che mi pare significativo per una doppia ragione: chiude l’intera raccolta e sarebbe stato facilmente variabile in modo da ricondurlo alla scansione tradizionale. Si tratta di «Raramente qualche gabbiano appare», al posto del più classico o più normale endecasillabo a minore “Qualche gabbiano raramente appare”. La soluzione scelta conferisce all’endecasillabo un andamento più prosastico, meno solenne e scandito. Sembra perciò anticipare la ben più ampia sperimentazione di Nel magma, opera che non rispetta se non saltuariamente la misura dei versi conosciuti e appare inoltre caratterizzata da un verso lungo spesso esorbitante largamente la misura dell’endecasillabo. Anche in questo caso la misura endecasillabica si può talora rintracciare o ricostruire: si possono individuare infatti versi lunghi formati da un endecasillabo e da un verso più breve (dal quinario al novenario, quest’ultimo spesso caratterizzato da accenti di quarta e ottava come in Onore del vero), o viceversa, da un verso breve seguito da un endecasillabo, e si può arrivare qualche volta persino alle ventidue sillabe del doppio endecasillabo (cfr. il v. 77 di Presso il Bisenzio o i vv. 15 o il 17 di Bureau, in cui il secondo endecasillabo presenta gli accenti di terza e ottava, anche questi sperimentati in Onore del vero). È possibile inoltre riconoscere soluzioni esametriche (settenario+novenario, ottonario+novenario, senario+novenario), mentre il settenario può non solo raddoppiarsi come già accadeva sporadicamente in Onore del vero, ma ripetersi anche tre volte sino a formare un verso di ventuno sillabe (cfr. v. 12 di Prima di sera). Ma bisogna poi subito aggiungere che in molti casi sembra prevalere un ritmo esclusivamente sintattico, non facilmente riconducibile a una scansione già nota e organizzato intorno a quattro, cinque, a volte persino sei ictus che potremmo definire logici10. In conclusione, con la nuova opera, Luzi non solo abbassa drasticamente la poesia al livello della prosa ma accetta pienamente il carattere discorsivo e narrativo del poemetto sperimentando soluzioni metriche nuove di falsa-prosa, sviluppando ambientazioni realistiche, intrecciando dialoghi, coniugando teatralità e narratività (con echi evidenti del dramma eliotiano) e ponendo sulla scena personaggi visibilmente altri e dunque del tutti distinti e autonomi rispetto all’io protagonista.

Dantismo

Il dantismo luziano è stato ampiamente considerato sia dalla critica, sia dai commenti testuali. Ma ci si è limitati a osservare i frequenti prestiti, le citazioni quasi letterali dalla Commedia (dalla «tratta d’anime e di spoglie» e «fila d’anime lungo la cornice/ chi pronto al balzo, chi quasi in catene» di Onore del vero al «forato nella gola» di Nel magma, ma i riferimenti possibili sono molto numerosi), i campi metaforici del fuoco e dell’ardore, e soprattutto le atmosfere purgatoriali, legate alla figura del pellegrino e al paesaggio brullo e desolato, ma intriso di dolente religiosità, di Onore del vero11. Minore attenzione è stata forse prestata al particolare, specifico dantismo di Nel magma. In Onore del vero Dante è presente nel clima malinconico e spirituale riecheggiato dal Purgatorio, negli stati d’animo, nel carattere fortemente emblematico del paesaggio; in Nel Magma in qualcosa di più sostanziale e decisivo: nella struttura stessa, nella costruzione, nell’andamento poematico, nel procedimento per stazioni successive e infine nella figurazione dell’io protagonista. Ben sette componimenti su diciotto (Presso il Bizenzio, Nel caffè, Ménage, Bureau, Nella hall, Dopo la festa, Accordo) si fondano su una componente strutturale del poema dantesco, l’incontro: un personaggio si muove o si è mosso nello spazio per giungere in un posto in cui s’imbatte in un gruppo di coetanei, in un amico fraterno, in un rivale d‘amore in gioventù, in una donna sposata con cui però mantiene una intesa particolare. L’incontro si verifica a volte senza che il soggetto lo voglia o se lo aspetti, dunque per caso, a volte invece in situazioni previste (un ricevimento, una festa, una visita, un viaggio in auto). Ma comunque non è mai un incontro privo di significato. Direi anzi che la tecnica dell’incontro, più volte ripetuta, è assunta, come nella Commedia dantesca, come struttura significante. Luzi la usa per rivelare un senso, ribadire una fede o una convinzione, cercare una verità ultraterrena o ribadire una norma di comportamento morale. L’atteggiamento ricorrente è quello dichiarato esplicitamente in Nel caffè, dove si legge: «penso a questo incontro/ se si può cavarne un senso». Come nella Commedia, il dialogo si risolve spesso in uno scontro, può diventare un «alterco» o un «diverbio», termini autorizzati dall’autore (in Tra quattro mura). La cattiveria stilistica e figurativa di Nel magma vorrebbe esibire la stessa necessità di quella dantesca (qui desunta, più che dal Purgatorio, dall’Inferno), e oscilla perciò fra una punta di sprezzo nei confronti dell’opportunismo e della grettezza altrui e lo scatto di orgoglio quasi superbo di chi si ritiene fra gli «eletti a cose più alte» (Dopo la festa) e rivendica una superiorità morale («sono io che pago tutto il debito», in Presso il Bisenzio). L’altra faccia di questa figurazione dell’io, anche questa ben dantesca, è la tendenza ad autoaccusarsi e ad autoprocessarsi, che può sfociare tanto in attestazioni di umiltà e in atteggiamenti penitenziali quanto, più frequentemente, in reazioni di sdegnosa fierezza. Storicamente è possibile e forse oggi necessario prendere le distanze da questa affermazione, assai datata, di eccezionalità di ruolo e di aristocrazia dello spirito che si collega alla tradizionale figura del poeta vate e profeta, ma nello stesso tempo bisogna riconoscere che in Nel magma essa si cala con coerenza in un disegno di ricongiunzione consapevole alla lezione dantesca che ne determina l’originalità nel panorama poetico degli anni sessanta.

Conclusione

Contemporaneamente alle poesie di Nel magma Luzi lavorava a quelle poi riunite in Dal fondo delle campagne, uscito due anni dopo, nel 1965. Nell’opera definitiva che comprende tutte le poesie questa raccolta è collocata significativamente dopo Onore del vero e prima di Nel magma. In effetti Dal fondo delle campagne si colloca in posizione intermedia: è una indubbia continuazione12 (linguistica, metrica, tematica) di Onore del vero, ma da un lato ne approfondisce l’aspetto interiore e, dall’altro, rivela le tracce della sperimentazione di Nel magma, evidenti, per esempio, nell’uso saltuario del verso lungo e in quello frequente dell’endecasillabo con accenti di terza e ottava. Ma il paesaggio e lo stato d’animo dominante sono ancora quelli di Onore del vero, benché qui risulti rafforzata – ed è indubbiamente un elemento di novità − la tendenza al diario lirico e al colloquio intimo fra sé e sé e con l’immagine della madre morta. Nella storia della poesia di Luzi, e anche in quella del secondo Novecento poetico, la vera partita si gioca fra Onore del vero e Nel magma, opera più uniformemente intensa e compatta la prima, più originale, moderna e sperimentale con punte forse più alte (spiccano Presso il Bisenzio, Nel caffè, Ménage), ma anche più discontinua, la seconda. Onore del vero cresce di testo in testo, per accumulo lirico, per insistenza e ripetizione di temi e di accenti; Nel magma è costruito in modo più frammentario, per stazioni successive, cosicché ogni volta bisogna ricominciare da capo. Se il primo libro avvolge il lettore col fascino – realistico e simbolico insieme – delle sue immagini, il secondo, più disgregato e diffuso, si sgrana in rappresentazioni, crudeli e pietose − e anzi spesso più crudeli che pietose − che offrono una potente allegoria del bisogno di senso nel non-senso quotidiano. In Onore del vero il senso sta lì, nelle segreti e pur evidenti correspondances fra il paesaggio e l’anima religiosa di chi lo osserva; in Onore del vero va “cavato” dagli episodi, va cercato, insomma, nelle pieghe degli incontri e dei dialoghi, e l’autore non si accontenta che «sia di rimorso e basta» (si ricordi: «penso a questo incontro/ se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta», in Nel caffè), ma vorrebbe che avesse un valore universale. Nella coincidenza fra cose e senso del primo libro e nello iato che si apre invece nel secondo fra poveri oggetti e povere parole della modernità da un lato e bisogno di un significato alto e nobile dall’altro si può leggere l’alterna vicenda del simbolismo e dell’allegorismo contemporanei. Ma si tratta comunque di due capolavori della poesia secondonovecentesca, vicini per la comune esigenza di interrompere una tradizione, ma anche lontani per temi e forme e per la maggiore capacità del secondo di determinare la storia della poesia successiva (dell’autore e altrui) e di dare una risposta originale alla crisi del genere lirico fra anni cinquanta e sessanta.

1 Lo scambio epistolare con Sereni è in Mario Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano Verdino,Milano, Mondadori 1998, pp.1529-31.

2 Mario Marchi, Invito alla lettura di Mario Luzi, Milano, Mursia 1998, p. 47 e Giancarlo Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi. La scommessa totale di Mario Luzi, Bologna, Cappelli 1980, p. 199..

3 Damiano Frasca, Posture dell’io. Luzi, Sereni, Giudici, Caproni, Rosselli, Pisa, Felici Pisa 2014, p. 64.

4 Per esempio, da Franco Fortini, Le poesie italiane di questi anni, in Saggi italiani, vol. I, Milano, Garzanti 1987, p. 121 e da Giacomo Debenedetti, Luzi, in Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti 1974, p. 116 (ma Debenedetti, pur parlando di allegorizzazione, qui sembra non distinguere simbolo e allegoria, dato che imposta il discorso al fine di dimostrare il carattere ermetico ed essenzialmente postsimbolista del paesaggio in Luzi).

5 Sull’aggettivo in Luzi, cfr. F. Fortini, Di Luzi, in Saggi italiani cit, pp, 42-43.

6 Pier Vincenzo Mengaldo, Storia della lingua italiana. Il Novecento, Bologna, Il Mulino 1994, p.405.

7 Aldo Rossi, «Nel Magma» di Mario Luzi, in «L’Approdo letterario», X, 1964, 26, p. 141.

8 Il dialogo – scrive giustamente Anna Panicali, Saggio su Luzi, Milano, Garzanti 1987, pp. 172-3 e p. 180 – si presenta in Nel magma come «colloquio disputativo che argomenta il discorso per via di ragionamento» e perciò si sviluppa «nella forma del diverbio»: insomma, è «un dialogo come contesa».

9 D. Frasca, Le posture dell’io cit., pp. 30-1.

10 Su questa problematica cfr., oltre a S. Verdino, Introduzione cit, p. XXXI, E. Esposito, Scrivere il magma e D. Puccini, La poesia di Luzi nel magma, in «Rivista di letteratura italiana», XXXII, 2014, 3, rispettivamente p. 152 e p 167.

11 Su questo punto si veda P.V. Mengaldo, Mario Luzi, in Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori 1978, p. 651.

12 S. Verdino, Introduzione cit., p. XXIX («i legami di continuità [di Dal fondo delle campagne] con l’ultima parte del precedente ciclo [quello di Nel giusto della vita,dunque con Onore del vero che lo chiude] risultano ancora molto tenaci»).

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