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diretto da Romano Luperini

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Cambiare la scuola/2. L’ora dei professori

Il professore ieri e oggi

“C’era una volta il professore”… potrebbe essere l’incipit di una favola che racconta la storia di un adulto significativo che vive in una dimensione sociale e relazionale di riconoscimento il proprio ruolo di insegnante, ovvero il racconto di chi attraverso il proprio “docēre” guida le nuove generazioni all’incontro con la realtà, l’incontro con la vita, l’incontro con se stessi. Ma la realtà è un’altra. La realtà è quella di una figura (in prevalenza donna, del Sud, ultracinquantenne e spesso precaria, dicono i dati) che ha smarrito funzione e identità sociale.

Un tempo il professore era garante di competenze universalmente riconosciute, era un intellettuale che additava ai più giovani, attraverso insegnamenti impliciti ed espliciti, la strada dei significati e dei valori su cui costruire la società. A lui era riconosciuta autonomia di studio, insegnamento, ricerca, un forte senso di moralità, ma soprattutto a lui era richiesta una produzione (a volte un po’ retorica) di senso. La funzione del docente ha invece subito negli ultimi decenni uno schiacciamento sul ruolo, cioè sulla mansione specifica attribuita agli insegnanti dal sistema scolastico. Basti pensare alle proposte di questi giorni sull’aumento del carico lavorativo dei docenti, del tutto sbilanciate sul versante organizzativo del lavoro didattico a detrimento di funzioni sociali più ampie e non misurabili. Nessuno che dica “perché” o “cosa” insegnare, tutti che dicono “come”.

L’insegnante di oggi deve essere efficiente. Gli è richiesto di compilare e amministrare protocolli, progetti, piani didattici, prove; e ancora di tabulare risultati, di aggiornare registri elettronici e piattaforme multimediali. Nella scuola digitalizzata – quella in cui magicamente dovrebbero bastare una LIM e un tablet per ottenere il pieno successo formativo degli alunni- il professore ancor di più rassomiglia a un tecnocrate, la cui eccellenza è sancita dalla quantità di corsi frequentati sulle TIC, sui BES, dalla mole di lavoro svolta con PON, POR, incarichi da FS referenze e coordinamenti. Simile trasformazione non riguarda solo l’oggi e non travolge solo gli insegnanti: già agli inizi degli anni ’70 Franco Fortini sosteneva che gli intellettuali stavano scomparendo a favore di esperti e tecnici.

Innanzi a queste trasformazioni del nostro lavoro e della nostra funzione che cosa possiamo fare? Che cosa possiamo fare, cioè, per continuare a contribuire alla costruzione di un significato sociale, per essere nelle classi adulti “significativi”? Questa forse è la domanda più spontanea e pressante che, anche alla luce delle attuali proposte di riforma del ruolo docente, può sorgere. Di certo è necessario un impegno, oserei dire comune e condiviso, di riflessione sui temi oggi più scottanti. Ne enucleo quattro molto attuali, ben sapendo che a questi temi se ne possono affiancare altri:

  1. La valutazione dei processi di apprendimento;

  2. La scelta e la revisione dei contenuti disciplinari su cui esercitare l’insegnamento e su cui aggiornarsi. (Nell’ambito letterario, di cui mi occupo, questo tema coincide con la ristrutturazione del canone scolastico degli autori in prospettiva europea e mondiale);

  3. L’individuazione di didattiche comuni (e non solo di metodologie o di tecnologie) per favorire l’appropriazione dei temi e degli argomenti da parte degli studenti;

  4. Il tutto a partire da una serrata riflessione autocritica sulla nostra professionalità. 

La valutazione e l’interpretazione

La valutazione è il primo e più esplicito (se non unico) mandato sociale riconosciuto ai docenti dalle famiglie. Per queste ragioni, per ragioni etiche e di corresponsabilità educativa, la valutazione dovrebbe essere trasparente e comunicabile. La valutazione serve al processo di apprendimento e non viceversa. Ma su questo punto apparentemente ovvio si scontrano le opinioni e le ideologie più disparate, rendendo l’argomento assai spinoso. Nel dibattito rimangono sul tappeto questioni aperte come la difficoltà a misurare le competenze complesse, l’ineliminabile soggettività di ogni giudizio di valore, l’inutilità pedagogica di quantificare gli apprendimenti, la stigmatizzazione dei più piccoli con i voti numerici, l’inutile e infruttuosa corsa competitiva che la ricerca del risultato spesso ingenera nei più giovani, ma anche la valenza formativa dei processi valutativi e autovalutativi o l’utilità didattica della verifica e dell’autoverifica per correggere e migliorare gli insegnamenti e gli apprendimenti. In ogni caso la docimologia non è una scienza, è un’ermeneutica (lo presagiva già il suo fondatore Pieron) e richiede finezza interpretativa e possesso pieno dei contenuti per essere praticata. L’ermeneutica valutativa è poi un gesto sociale, non un processo tecnico. Si fonda su una tavola di valori, su un’attribuzione di significati, richiede che valori e significati siano negoziati e condivisi ed infine non può che essere autoriflessiva. Il docente è “coinvolto” nel processo valutativo, non è lo spettatore di performance altrui, e tanto più è bravo tanto più riconosce e disegna i margini del proprio autocoinvolgimento. Questo un docente come intellettuale lo sa, un tecnico somministratore di griglie e test purtroppo no.

Il canone e i contenuti

Il canone è l’altro grande scoglio su cui si incagliano le vele della programmazione e su cui il Miur inesorabilmente tace, interessato com’è solo agli aspetti economici e organizzativi del sistema. Prendiamo il caso della letteratura italiana. Le indicazioni ministeriali della Gelmini, non riviste dai ministri successivi, spingono verso una fruizione passiva della letteratura, intesa come insieme di nozioni neutrali e di competenze da impartire dall’alto che non prevedono alcun rapporto con i problemi del mondo contemporaneo e con l’immaginario degli studenti, ai quali, non diversamente dai loro docenti, non sono richieste capacità di critica e di rielaborazione personale. Il docente di lettere oggi deve fare scuola con un canone rigido che parte dagli albori della letteratura per arrivare a Zanzotto, in un accumulo quantitativo di autori maggiori e minori che inspiegabilmente, fatto salvo Baudelaire, esclude ogni autore straniero. Si tratta di una miopia sconsiderata, che non solo disconosce gli studi universitari sul canone dell’ultimo secolo, ma ignora anche quello che si fa nelle altre comunità nazionali dove gli autori scolastici, non fosse altro che per costruire un’etica della cittadinanza globale, non sono solo autori nazionali. Il nostro canone evidentemente non assegna alcuna importanza al lettore e alle sue domande di significato; è ossificato su una linea storicistica trasmissiva. Un insegnante come intellettuale saprebbe muoversi all’interno dei manuali scolastici sfoltendoli di autori oggi non più significativi e contribuirebbe con le sue scelte alla ridefinizione del canone. Un professore che sia anche un intellettuale saprebbe scegliere gli autori e le opere in grado di rispondere alle domande di significato degli alunni, di parlare al loro immaginario. Un impiegato, per 18 o 36 ore che siano, no.

Una didattica rinnovata, ad esempio per temi

Affinché gli insegnamenti e le valutazioni non vengano subiti passivamente e sterilmente dagli studenti sarebbe opportuno interrogarsi su quali strategie attivare per ottenere che gli alunni si riapproprino dei contenuti di studio e li integrino nelle loro esperienze di vita. Prendiamo sempre ad esempio la letteratura. Nell’insegnamento letterario l’analisi testuale è la base di ogni lavoro sui testi, mentre si analizza il testo però si osserva un crescente coinvolgimento degli studenti nell’indagine interpretativa. L’interpretazione nasce dalle domande poste ai testi, da queste domande, sovente, scaturiscono dibattiti, confronti fra le diverse interpretazioni. Il passaggio dal contenuto di fatto (ciò che il teso dice) al contenuto di verità (ciò che il testo significa) è spesso involontario: gli allievi, anche solo in forma dilettantesca, innanzi a un grande testo che li appassiona si ritrovano a cercare di capire, a discutere, a deciderne i significati. Ma per poter far si che questo avvenga, per fare in modo cioè che la classe diventi una piccola comunità democratica interpretante, non basta la guida attenta e rigorosa dell’insegnante, sono necessarie anche la curiosità intellettuale e la partecipazione emotiva degli studenti. In questo senso sono utili i temi letterari in didattica. Il tema rappresenta un ponte ideale che accosta due sponde fra loro distanti: il vissuto del lettore e il vissuto dell’opera.

In Italia la diffusione di una didattica per temi ha trovato numerosi ostacoli. La diffidenza incontrata nasce dal retroterra storicistico-marxista e storicistico-idealista che ha fatto temere un insegnamento destoricizzato. Le riserve sono poi state alimentate da una certa ostilità verso discipline avvertite come “intruse”, quali l’antropologia e la psicoanalisi ma anche dalla resistenza verso la nozione junghiana di inconscio collettivo. Oggi la tematologia vanta numerosi studi e un corposo dibattito teorico alle spalle, ma come lavorarci in classe senza perdere lo spessore stilistico e storico dei testi è ancora una volta questione da docenti-intellettuali, da mediatori cioè tra un sapere specialistico e l’immaginario contemporaneo, tra un corpus di opere tradizionale e un loro uso attualizzante.

Per una riflessione autocritica

Lo spontaneismo, il volontarismo e l’iniziativa personale a scuola non bastano più. Gli insegnanti non possono reggere le classi se non hanno spalle più che robuste. La formazione, una preparazione aggiornata e continua insieme alla consapevolezza – orgogliosa e dolente – di ciò che si è per mandato e funzione sociale possono sostenere gli insegnanti e rendere sopportabile il “peso” della responsabilità educativa. Per far questo più che introdurre meccanismi premiali (il cui rovescio è peraltro sempre punitivo) e di competizione tra colleghi sarebbe auspicabile creare una rete di “boni homines” che condividano le loro esperienze mettendole a servizio della comunità scolastica. Gli scopi collettivi che ci uniscono sono molto più importanti degli interessi particolari che possono dividerci.

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NOTA

Queste riflessioni sono frutto del confronto serrato e aperto che un gruppo di docenti ha avuto in un seminario di alta formazione del marzo scorso tenuto dal prof. Luperini. Le posizioni qui espresse, anche se ricadono sotto la responsabilità autoriale, sono debitrici nei confronti di Carmelo Tramontana, Isabella Tondo, Cinzia Gallo, Patrizia D’Arrigo, Ilenia Colomasi, Pierpalo Tripiano, Matilde Napoli, Roberto Oddo, Valentina Mangiaforte, Caterina Brigati, M. Rita Giansanti, Luisa Mirone, Maria A. Ferrarolo, Denise Lenzo, Maria Nicotra, Daniela Frittitta, Vito Chiaramonte, Paolo Sanfilippo, Claudia Carmina, Emanuela Annaloro. Un ringraziamento non formale anche all’Editore Palumbo che ha reso possibile l’incontro.  

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