Cambiare la scuola/7. In sala docenti
In sala docenti
Mentre all’ufficio scolastico regionale siciliano luminari con il pallottoliere in mano comprendono l’evidente impossibilità di far concludere l’anno scolastico solo due giorni prima dell’inizio dell’Esame di Stato e rettificano il calendario annullando i due giorni di sospensione dell’attività didattica prevista per Carnevale, nel girone infernale delle sale professori, disseminate in edifici scolastici più o meno fatiscenti, ci si interroga vicendevolmente sui contenuti dei programmi, su possibili percorsi tematici, sull’interesse dei ragazzi per questo o quell’autore. Improvvisamente una voce si distingue dalle altre e chiede, con ansia maldestramente celata, se qualcuno è a conoscenza del progetto di riforma del governo per la nuova scuola.
Comincia a diffondersi il panico, con fastidio qualcuno sottolinea che ricominceranno le solite critiche “alla prima vera riforma della scuola”. Nella caoticità delle opinioni, che si rincalzano e sovrappongono affermando con ostentata sicumera le proprie convinzioni, il più ottimista assicura che non cambierà nulla, e che, nella peggiore delle ipotesi, la riforma andrà a regime gradualmente e per quell’epoca i più fortunati potranno andare in pensione.
Mi guardo attorno straniata, negli occhi di alcuni colleghi colgo la mia stessa espressione di cane bastonato (ma non rassegnato). Qualcuno si è forse chiesto su quale riflessione pedagogica si basi la riforma? Quale scuola offriremo ai nostri giovani? Quale società stiamo preparando per i nostri figli? Ho sognato di insegnare in una scuola in cui la meta educativa fosse l’autonomia di giudizio dello studente. Eppure le mia aspirazioni vengono quotidianamente mortificate: la finalità della scuola del nuovo millennio sembra essere la formazione del consumatore passivo, capace di scrivere, leggere, riferire le opinioni di tutti, ma inadatto a pensare, a formulare ipotesi, a esprimere giudizi personali.
Riflessioni straniate
La riforma presentata dal ministro Giannini e dal premier Renzi non mi pare che contribuisca a modificare l’assetto strutturale della scuola. Piuttosto, ammaliando gli insegnanti con la promessa di assunzioni a tappeto e miglioramento delle condizioni di lavoro, burocratizza sempre più il sistema educativo e dimentica che gli elementi del sistema scolastico sono essere umani che vanno accompagnati nel loro processo di crescita e non oggetti in serie da plasmare come in una catena di montaggio.
Una riflessione ancora più amara va fatta sulle modifiche che il ministro propone alla prima prova dell’Esame di Stato. Cito testualmente la risposta del ministro a Eugenio Bruno tratta dall’intervista riportata da “Il sole 24 Ore” del 9-settembre:
non ho alcuna reticenza a dirle che nella prima prova trovo molto utile e quindi lascerò il saggio breve cioè la prova di interpretazione di una serie di materiali su uno spunto tematico e la capacità di sintetizzarli […] il cosiddetto tema di storia o di letteratura è sempre meno adeguato alle scelte dello studente.
Evidentemente l’ex rettore dell’università per stranieri di Perugia disconosce le finalità dell’insegnamento della letteratura italiana e rema proprio in direzione della massificazione degli studenti. La situazione della scuola italiana è, uso un eufemismo, disastrosa. Le classi sono sempre più numerose, le strutture fatiscenti le ore di lezione per singole materie esigue, i programmi più lunghi e i ragazzi sempre più demotivati, proiettati soltanto al conseguimento della fantomatica sufficienza che consenta loro di continuare a fluttuare verso l’ottenimento del diploma.
Verso la classe
Di fronte a tanta frustrazione bisognerebbe chiedersi se il modello di studente delineato non corrisponda alle reali aspettative della nuova “buona scuola”. La riforma parla ripetutamene di innovazione ma continua a non focalizzare il problema e considera il discente non un giovane dalla personalità in fieri che deve crescere e trovare se stesso anche attraverso il contributo dei testi su cui è invitato a riflettere, ma come un contenitore di nozioni che alla fine del percorso di studi deve dimostrare di possedere competenze spendibili nel mondo produttivo. Poco importa se abbia sviluppato senso critico, se abbia imparato ad osservare il mondo e scoprire cosa si nasconde dietro la vacuità delle apparenze, per questo troverà sempre un’ideologia preconfezionata, un parametro di valori standardizzati da cui giudicare la società.
Conoscere la letteratura e la storia potrebbe contribuire alla formazione di questi ragazzi e forse la prima prova dell’esame di stato va rivista, in tutte le sue tipologie non perché è difficile, ma perché non esorta adeguatamente i ragazzi a riflettere e formulare giudizi autonomi, piuttosto li spinge, come dice il ministro nell’intervista prima citata “a sintetizzare documenti proposti, in quello che un tempo avremmo chiamato riassunto a più fonti” e che, aggiungo io, è un esercizio completamento diverso da quello richiesto dal saggio breve.
In questo particolare momento storico, in cui la società civile, narcotizzata dall’imperativo categorico di avere piuttosto che di essere e dalla volontà di imporsi anche a dispetto del rispetto delle regole, non offre ai giovani chiavi corrette di interpretazioni del reale, la scuola dovrebbe preoccuparsi di fornire un’ottica straniante, augurandosi che la distanza fra l’omologazione culturale della società e la lettura dei testi più autorevoli offra ai discenti una chiave interpretativa più lucida e analitica della società. D’altronde, come afferma Luperini, che cosa è l’attualità di un testo se non quell’aspetto del presente che il presente non percepisce nella sua chiarità, ma che emerge dalle riflessioni su un testo altro, prodotto in un diverso contesto, in una spazio e in un tempo solo apparentemente lontani dal nostro?
Con queste riflessioni le mie speranze sul futuro della “buona scuola” vacillano, ma non le mie certezze sul valore formativo ed educativo della cultura. Con queste riflessioni esco dalla sala docenti e attendo il suono della campanella che mi riporterà in classe a intraprendere la quotidiana battaglia, impresa ardua ma sfida possibile, contro i disvalori di una società reificata.
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