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Sciascia e il “silenzio” delle donne

Silenzio ed omertà

Il bigliettaio guardò il morto e poi i viaggiatori. C’erano anche donne sull’autobus, vecchie che ogni mattina portavano sacchi di tela bianca, pesantissimi, e ceste piene di uova; le loro vesti stingevano odore di trigonella, di stallatico, di legna bruciata; di solito lastimavano e imprecavano, ora stavano in silenzio, le facce come dissepolte da un silenzio di secoli. 

 

‹‹Chi è?›› domandò il bigliettaio indicando il morto.

Nessuno rispose.

(L. Sciascia, Il giorno della civetta, in Opere 1956.1971, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 2000², p. 392)

È il silenzio dell’omertà. Da qui, dal cuore di questa tenebra, prende le mosse la narrazione del Giorno della civetta, puntando lo sguardo sull’opacità di una verità schermata di silenzi, che sarà compito della scrittura esprimere, decifrare, portare a chiarezza. Il silenzio delle vecchie replica e amplifica il silenzio della piazza antistante, deserta ‹‹nel grigio dell’alba››, che domina nelle righe d’apertura del romanzo. Come antiche divinità indecifrabili, ‹‹le facce […] dissepolte da un silenzio di secoli››, le anziane donne assistono alla tragica messa in scena del delitto. È un coro muto. Il loro silenzio tematizza il senso di un turbamento che oltraggia l’ordine delle cose, che ne disgrega e corrompe la razionalità. Al contempo, però, questo stesso silenzio dà legittimazione all’oltraggio. Un nodo di complicità stringe nel suo viluppo inestricabile artefici e testimoni del delitto. Così l’omertà, che Sciascia condanna senza remissione, nasce da un’identificazione emotiva, dalla compromissione con una ideologia condivisa, in cui la violenza è così introiettata e pervasiva da essere accettata come un dato di realtà contro cui è inutile ribellarsi. L’opacità è allora tanto fitta da farsi alla lettera oscurità, silenzio.

Il ‹‹tremendo›› matriarcato delle donne del Mezzogiorno

La differenza tra dire e non dire segna il discrimine tra rivolta e accettazione, dove l’accettazione diventa solidarietà alle regole di un universo costituzionalmente maschile. Vittime e dominatrici, rinchiuse tra le mura domestiche e insieme regine dei ‹‹vecchi focolari tirannici›› (La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Mondadori, Milano 1979, p. 14), le donne siciliane descritte da Sciascia sono le vestali di una cultura arcaica e feroce. Quanto più rinunciano ad agire sulla scena pubblica, tanto più accrescono il loro potere nella sfera del privato, sulla famiglia, sui figli. Un potere enorme, anche se non codificato. ‹‹Molte disgrazie, molte tragedie del Sud ci sono venute dalle donne, soprattutto quando diventano madri››, sostiene Sciascia nella Sicilia come metafora, e continua: ‹‹Le donne del Mezzogiorno hanno questo di terribile. Quanti delitti d’onore sono stati provocati, istigati o incoraggiati dalle donne! Dalle donne madri, dalle donne suocere!››. Da queste dichiarazioni intonate ad un pessimismo antropologico e civile emerge l’immagine di una società statica, governata da quel matriarcato contro cui lo scrittore polemizza dalle pagine dell’‹‹Espresso›› del 27 gennaio 1974. Un matriarcato ‹‹tremendo››, ma sommerso, dissimulato, quasi invisibile, perché in questo contesto la donna è tanto più rispettabile quanto più sa rendersi invisibile. Il silenzio dunque non solo è imposto da un sentimento di connivenza, ma diventa una patente di onorabilità.

Tra silenzio e cicaleccio

Talvolta, all’opposto, il mutismo, nel quale si trincerano i personaggi femminili di Sciascia, ha una radice polemica, è un’arma di protesta e di affermazione di sé e, per assurdo, costituisce un’ambigua, problematica, provocatoria forma di risentimento linguistico. È quanto si verifica, ad esempio, nel Quarantotto e in Candido, quando Donna Concettina e Maria Grazia scelgono di tacere per punire i rispettivi mariti: la loro rivolta muta non produce – non vuole produrre – nessuna reale destabilizzazione dei rapporti di forza all’interno della coppia e paradossalmente finisce per rafforzare la staticità dell’istituzione matrimoniale, che viene messa alla prova e poi riconfermata, anche in mancanza di una legittimazione sentimentale. Con l’arguta ironia che lo contraddistingue, Sciascia descrive queste velleitarie impuntature femminili; e tuttavia, nel prosieguo della narrazione, l’intraprendente Maria Grazia saprà servirsi di mezzi ben più concreti del silenzio per liberarsi dell’avvocato Munafò, senza rinunciare per questo ad un prudente rispetto delle convenzioni.

Accanto alle donne che non parlano ci sono però le donne che parlano troppo. Parlano di tutto ma non dicono nulla. Il loro eccesso di parole serve a riempire e a prevenire il silenzio, a nascondere un’assenza di contenuti. Così, se i discorsi delle cinque ospiti dell’eremo di Zafer si confondono fra loro ‹‹come acqua che da cinque bocche sgorgasse in una fontana›› (Id., Todo modo, Einaudi, Torino 1974, p. 15), nel Cavaliere e la morte lo scrittore paragona ‹‹il parlare›› della signora Zorni alla ‹‹fontana di Trevi – cascate, cascatelle, acquatici veli, rivoli›› (Id., Il cavaliere e la morte, Adelphi, Milano 19985, p. 50): è tutta un’effervescenza di parole che si rivela funzionale ad una logica del “non dire”. Un rumore di fondo: ecco a cosa si riduce il suo cicaleccio senza significato. Come ciarliere Sheherazad, queste narratrici loquaci rimandano sine die il momento della verità, intessendo un ininterrotto discorso che si nutre della sua intrinseca vacuità. In entrambi i casi l’esuberanza della conversazione, il chiacchiericcio gratuito non costituiscono un’alternativa al silenzio, ma sono paradossali modi di tacere.

Un universo costitutivamente maschile

Queste che ho elencato sono solo alcune delle diverse varianti di una vera e propria strategia del silenzio che marca con un sigillo di grande intensità metaforica la catena delle apparizioni femminili. Nella produzione di Sciascia, soprattutto in quella che precede gli anni Sessanta, i personaggi femminili hanno però una presenza, in fin dei conti, tacita e marginale. Sciascia indaga prioritariamente la grande questione del potere, dei suoi meccanismi, dei suoi linguaggi che nulla hanno a che vedere con la donna in un orizzonte tradizionalmente strutturato secondo le leggi del predominio maschile. Rarissimi, nelle sue opere, gli esempi di protagonismo femminile; rarissimi sono anche i casi in cui le donne compaiono sulla scena del romanzo poliziesco nel ruolo di vittime – e questo è un dato tanto più sorprendente se solo si pensa ai pietosi cadaveri di donne che affollano le pagine di tanti gialli del secondo Novecento (uno per tutti, il corpo straziato di Liliana nel Pasticciaccio di Gadda). Ma c’è di più. Come ha notato acutamente Di Grado, i suoi protagonisti più innocenti e umani sono ‹‹privi di certezze rassicuranti, “uomini della fine”, orfani›› (A. Di Grado, ‹‹Quale in lui stesso alfine l’eternità lo muta…››. Per Sciascia, dieci anni dopo, Sciascia editore, Caltanissetta-Roma 1999, p. 95). Come Candido, che, nella conclusione del romanzo, sente di essere ‹‹figlio della fortuna; e felice››. L’orfanità qui non è una ferita immedicabile, né una lacerazione dolorosa: è una conquista felice. Il personaggio maschile afferma consapevolmente la propria identità nel momento in cui si affranca dalla stretta della donna-madre, o anche dall’abbraccio della donna-amante. Così nell’Antimonio l’emancipazione ideologica dell’io narrante dal fascismo passa attraverso il graduale distacco dalla moglie, dalla sua frivola avidità, fino all’acquisita consapevolezza ‹‹di non avere amore››:

L’amore dovrebbe nascere […] dalla serena scoperta che insieme, un uomo e una donna, stanno bene per affrontare la pena, soprattutto la pena, della vita: insieme per la vita, e nella conoscenza del dolore, e per aiutarci in questa conoscenza; e insieme nel piacere, che è un momento, e ci lascia col nostro cuore nudo, ad intenderci meglio nel cuore. Così mi si illuminava il significato dell’amore, e scoprivo di non avere amore per mia moglie (L. Sciascia, L’antimonio, in Opere 1956.1971, cit., pp. 354-355).

Tra i personaggi creati dalla penna di Sciascia, solo Candido sa attingere alla dimensione dell’amore autentico, per come è tratteggiata in questa pagina dell’Antimonio; ma Candido Munafò è una figura unica nell’opera sciasciana, radicalmente “diversa” e antagonista, che con suprema noncuranza ignora le lusinghe del potere e i ricatti del sentimento. Per gli altri suoi personaggi affrancarsi dal ‹‹matriarcato›› è invece una scelta che va perseguita con fatica, con dolore, e tuttavia si rende necessaria per accedere ad una condizione di virile maturità. Chi, come in parte fa Laurana, resta legato ad una ‹‹religione della famiglia›› ed è ‹‹vittima dell’affetto esclusivo e geloso della madre›› (Id., A ciascuno il suo, in Opere 1956.1971, cit., p. 807), finisce per chiudersi in quella trincea difficilmente disertabile che è la sfera del privato e della sopravvivenza individuale. La famiglia è un moloch che divora le altre istituzioni sociali: giocoforza il culto della famiglia implica una qualche ambiguità nel rapporto con lo Stato.

‹‹“Vado di là: mi farai chiamare, se avrai bisogno di me”. Si voltò per uscire. “Grazie” disse il figlio››: un solo scambio di battute caratterizza invece la scena veramente esemplare dell’addio di Di Blasi alla madre nel Consiglio d’Egitto. È un distacco sobrio, senza clamore. Scortato dalle guardie, subito dopo l’arresto, Di Blasi entra in casa e si dirige verso lo studio. Qui c’è sua madre, muta, ‹‹ferma al centro della stanza, la mano sul cuore; una statua di cenere che di vivo aveva la febbrile ansietà dello sguardo››. Dallo studio proviene un odore di bruciato: la madre ha dato fuoco a tutte le carte temendo che possano compromettere il figlio. È un gesto inutile che contribuisce solo ad alimentare i sospetti del Damiani. Di Blasi ne ha irritazione: ‹‹Le nostre mamme che hanno presentimento di tutto››, riflette tra sé, ‹‹che sanno tutto: e non fanno che complicare le cose››. Il risentimento gli permette di mantenere un contegno freddo e distaccato. La madre allora capisce. Capisce ‹‹che il figlio voleva in quel momento allontanarla, che un uomo ha diritto di star solo quando è di fronte al proprio destino; quand’è di fronte al tradimento, allo sbirro, alla morte›› (Id., Il consiglio d’Egitto, in Opere 1956.1971, cit., p. 601). È un commiato senza parole, in cui il silenzio dà espressione ad una scelta di libertà, di amore. Inevitabilmente, il racconto della perquisizione si interrompe appena un attimo per far posto al ‹‹silenzio dell’eroe tragico››, imposto alla narrazione da un’angoscia pervasiva ed inespressa, perché, come scrive Benjamin, ‹‹c’è in ogni lutto una tendenza al mutismo›› (W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, pp. 83 e 199).

Il nuovo protagonismo femminile nelle opere degli anni Sessanta: la donna“moderna”

Nella Notizia che apre Occhio di capra Sciascia distingue due diverse forme di silenzio: a un silenzio ‹‹della prudenza e dell’omertà›› contrappone un ‹‹silenzio memore e, sulla realtà effettuale, intelligente››. Una ‹‹prescrizione del silenzio››, precisa l’autore, ‹‹si è come introvertita, per lungo ordine d’anni, nella gente [siciliana], in ciascuno; è diventata una qualità, una peculiarità, un elemento distintivo del carattere. Si ama più tacere che parlare. E quasi che i lunghi silenzi davvero servano a fortificare il raro parlare, quando si parla si sa essere precisi, affilati, acuti e arguti›› (Id., Occhio di capra, in Opere 1984.1989, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1991, vol. III, p. 9). Ebbene, a partire dalla pubblicazione dell’Onorevole nel 1965, nelle sue opere con frequenza sempre maggiore le donne, dopo ‹‹lunghi silenzi››, prendono la parola e sanno essere ‹‹precise, affilate, acute, argute››. A volte anche spietate. Nel giro di pochi anni è cambiata la società e, di conseguenza, cambia necessariamente anche la letteratura che la rispecchia e la interpreta. Ecco allora che le donne non si accontentano di tacere restando ai margini della scena romanzesca, ma guadagnano prepotentemente una posizione di primo piano. Il personaggio femminile acquista una più peculiare e sfaccettata identità, partecipando all’azione narrativa ora nelle vesti di vittima incolpevole di una società che espelle il diverso (ed è il caso della povera Rosetta o di Caterina della Strega e il Capitano), ora in quelle di ideatrice dell’intrigo delittuoso (si pensi alla vedova Roscio di A ciascuno il suo e alla contessa Tiepolo di 1912+1).

Nel racconto Gioco di società, Sciascia registra i segni di una rivoluzione antropologica che ha modificato profondamente il ruolo sociale della donna. Protagonista della vicenda è proprio una donna che, questa volta, però parla il linguaggio degli uomini, si muove con sicurezza in un orizzonte mondano, smaschera le trame del marito e allestisce a sua volta una nuova macchinazione. Di fatto, si rivela molto più con che contro il potere, tanto da affermare la sua egemonia nel crudele “gioco di società” che coinvolge la vita e la morte in una girandola turbinosa di sopraffazione e di abusi. ‹‹Adoriamo le cose, abbiamo messo le cose al posto di Dio dell’universo dell’amore››, spiega la protagonista al suo confuso ascoltatore, ‹‹le vetrine sono il nostro firmamento, gli armadi a muro e le cucine americane contengono l’universo. Le cucine in cui non si cucina, abitate dal Dio dei caroselli televisivi…» (Id., Il mare colore del vino, Einaudi, Torino 1973, p. 107). ‹‹Ci somigliamo tutte oggi, questo è il guaio››: questo è il punto di arrivo di un discorso polemico che suggella la trasformazione della donna nella società del benessere da domina della famiglia a ‘padrona di casa’. La religione della famiglia cede il passo al culto delle cose: in quest’ultima metamorfosi novecentesca, l’epopea verghiana della roba si trasforma nell’epica abietta del consumismo, che, nella sua frivola meschinità, è la spinta motrice che aziona e omologa le ambizioni femminili.

Il ‹‹lungo silenzio›› di Assunta e la salutare follia della letteratura

Se in Gioco di società l’immagine della donna “moderna” assume una valenza emblematica perché contribuisce a rappresentare il livellamento della società del consumo e della produzione di massa, in questi stessi anni la tematizzazione sciasciana del femminile è però problematizzata da un ulteriore elemento di complicazione. Il fatto è che nella narrativa di Sciascia sta maturando un cambiamento che si preannuncia già nell’Onorevole, anche se apparirà in tutta la sua evidenza nelle opere dei decenni successivi. Sciascia sta cominciando ad esplorare per gradi un territorio nuovo e scosceso, dove la verità non è più necessariamente il prodotto di una connessione analitica tra le idee, di un’indagine razionale e verificabile, ma può nascere da un’epifania, da un salto logico, da un ardimentoso paradosso. Dalla mimesi della realtà all’inchiesta sulla verità, dall’esigenza di inquadrare razionalmente i fatti alle domande radicali sul senso del vivere: questo slittamento del campo d’indagine si alimenta di una rinnovata fede nella letteratura, nella sua verità scandalosa che è ‹‹la più assoluta forma che la verità possa assumere›› (L. Sciascia, Nero su nero, in Opere 1971.1983, cit., p. 834). Tocca al personaggio femminile il compito di farsi portavoce della verità della letteratura che scaturisce dal soprassalto dell’intuizione, dal cortocircuito di ragione e immaginazione e porta con sé una straordinaria spinta di contestazione, di critica, di opposizione. L’esempio più rigoroso di questo nuovo protagonismo femminile è rappresentato da Assunta, la moglie di Frangipane, nell’Onorevole del 1965. Sprovvista di intelligenza sociale, Assunta è però dotata di una superiore intelligenza morale e non si lascia allettare dalla tentazione del potere. Una salutare follia la spinge a leggere e rileggere il Don Chisciotte, il libro che il marito aveva amato più di ogni altro prima di scendere in politica, quando era ancora un incorrotto maestro di scuola. A connotare il personaggio è ancora una volta il ‹‹lungo silenzio››: la donna appare a Frangipane ‹‹silenziosa, lontana, con quegli occhi scasati che lo spiano, che lo frugano…››. Ma all’improvviso il suo tenace mutismo è rotto da una domanda insistente, ossessiva: ‹‹Perché non leggi più il Don Chisciotte?›› (Id., L’onorevole, in Opere 1956-1971, cit., p. 756). Una domanda che suona come un monito, come un richiamo ad una dimensione di moralità perduta. Assunta è una figura emblematica nel percorso letterario di Sciascia e assolve una funzione di controcanto, di critica dissacrante rispetto alle brame egoistiche che irretiscono gli altri personaggi. In questo senso, la sua follia, mettendo a nudo la follia della vita sociale, è lucidità e chiaroveggenza. Osservando il mondo con le lenti ingenue e insieme demistificanti della letteratura, da una prospettiva allegorica di silenzio ed estraneità, Assunta finisce per indossare i panni di un don Chisciotte in gonnella. Tuttavia, nel finale dell’opera, Sciascia fa un passo indietro. La finzione scenica viene infranta: in uno schermo sono proiettate le “vere” immagini della signora Frangipane che, visibilmente compiaciuta, affianca il marito in visita al festival del cinema di Venezia, concedendosi ai flash dei fotografi. Il messaggio è esplicito: neanche la donna è immune dai contagi e dagli allettamenti del potere; nel contesto di una modernità guasta, la radicale diversità della sua voce non è che un sogno o un fantasma dell’immaginazione.

Il parlare ‹‹leggero›› della De Matis nel Cavaliere e la morte

Qualche anno ancora e la consegna di verità che è stata di Assunta verrà raccolta dalla signora De Matis del Cavaliere e la morte, un’altra donna che si lascia guidare ‹‹da impressioni vaghe e imprecisabili›› e ‹‹non sbaglia mai›› (Id., , Il cavaliere e la morte, cit. p. 41). Qui il silenzio diventa suono, si fa voce ‹‹ironica e divertita››. La signora de Matis parla ed il suo è un parlare ‹‹leggero››, come ‹‹leggero, di vibratile leggerezza, era il suo muoversi, il suo gestire››. La sua intelligenza altra, sottile non viene compresa da Sandoz e Aurispa, uomini invischiati nelle reti del potere, che – ci dice l’autore – ‹‹hanno per la bellezza femminile un gusto poco sottile, da acquirente che non vuole essere frodato sul peso›› (Ivi, p. 40). Anche il Vice stesso è preso da ‹‹un senso di panico›› di fronte alle sue intuizioni. Oltre la ragione, quella della De Matis è la ragionevole chiaroveggenza della letteratura: così, in questo romanzo testamentario e intriso di autobiografismo, l’autore rispecchia una grande parte di sé in un personaggio femminile aereo e insieme profondo, al quale affida anche il racconto delle sua personale esperienza di lettore che legge e rilegge le Anime morte di Gogol.

Per questa via la donna porta nella letteratura di Sciascia il punto di vista agonistico dell’outsider, dando espressione ad una visione del mondo soggettiva e spesso polemica nei confronti delle logiche ufficiali e delle mitologie dominanti. Emergendo da un lungo silenzio, la sua è la voce della differenza e dell’alterità, come radicalmente altra e differente è la voce della letteratura.

NOTE

Questo intervento è in corso di pubblicazione nel volume miscellaneo La donna, le donne nell’opera (e nella Sicilia) di Leonardo Sciascia. Atti del Convegno di Studi Racalmuto, 3-4 dicembre 2010, a cura di A. Amaduri e A. Carta, Acireale-Roma, Bonanno.

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