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diretto da Romano Luperini

Riflessioni sull’Esame di Stato /3. Valutazione finale e visione complessiva

Pubblichiamo la terza e ultima parte dell’intervento di Pietro Rosa sull’Esame di Stato. La prima e la seconda si possono leggere qui e qui.

Valutazione: lievitazioni e scandali

Due questioni, certo non nuove, suscitano polemiche e discussioni in merito alle valutazioni finali espresse dalle commissioni degli Esami di Stato: università e mondo del lavoro non si fidano delle valutazioni ottenute dagli studenti nella prova che conclude il loro percorso di studio, non le ritengono veritiere e corrispondenti al reale valore dei diplomati. Ancor più lamentano poi clamorose disparità tra le valutazioni espresse nelle regioni settentrionali e meridionali del Paese. Sul primo punto non mancano ragioni a sostegno delle critiche, ma neppure i fraintendimenti. Sul secondo fioccano le proposte di modifica dello status quo. Entrambi appaiono ancora meritevoli di qualche considerazione.

A partire dal 20101 il Miur ha stabilito regole molto rigide per l’attribuzione della lode finale ai candidati. Lo scopo è quello di arginare attribuzioni massicce, che in alcune regioni avevano raggiunto livelli francamente sospetti, finendo persino per gravare in modo imprevisto sul bilancio ministeriale2. La lode può essere assegnata soltanto a studenti che ottengono 100 punti nelle prove d’esame, senza bisogno di fruire del bonus integrativo a disposizione della commissione3. Ciò significa che tali candidati, oltre ad ottenere un perfetto en plein nelle quattro prove d’esame, cioè il punteggio massimo in tutte, devono partire da un credito scolastico di 25 su 25, totalizzandolo, nei tre anni finali del loro corso di studi, con la media almeno dell’ 8 in ciascun anno e senza che nelle loro pagelle finali compaia mai nemmeno un 7. Tale sistema costringe i docenti, già nello scrutinio conclusivo del terzo anno di scuola, a divinare quali studenti potrebbero – due anni dopo – meritare la lode all’esame. Come noto la crescita individuale e scolastica degli alunni non avviene sempre in maniera simmetrica e omogenea in tutte le discipline4, per cui, a pena di precludere loro una lode all’esame, che, invece, spesso, meriterebbero chiaramente per gli ultimi due anni o soprattutto per l’ultimo, i docenti, alla fine del terzo anno, sono “costretti” ad alzare la loro media per portarla almeno all’8 di legge, regalando qualche voto in alcune discipline, anche per evitare i 7. Naturalmente, per un elementare principio di equità all’interno delle classi, tale lievitazione dei voti genera un effetto di trascinamento verso l’alto anche nei confronti degli altri studenti, sebbene non candidabili alla futura lode.

A questo si aggiunge che il meccanismo di corrispondenza tra media dei voti e punti del portfolio, stabilito dalla legge 425/19975, prevede che l’alunno scrutinato rientri in una fascia di punteggio che contempla una forbice di oscillazione legata ai cosiddetti “crediti formativi” . Nel caso di uno studente che alla fine del terzo anno abbia una media del 7,25, la sua fascia prevede l’attribuzione di 5 o 6 punti. Se, poniamo, ha presentato crediti formativi valutati complessivamente dalla commissione di istituto come pari a 0,75 punti, gli viene attribuito il punteggio più alto della fascia (6 punti). Qui, però, scatta un’ulteriore lievitazione: calcolatrice alla mano, si osserva infatti che se lo studente avesse una media appena un po’ più alta, anche grazie ai crediti accumulati potrebbe saltare nella fascia successiva e racimolare un punto in più. Si genera così, spesso, una gara di generosità, che si trasforma in corsa al rialzo dei voti in più discipline, con un inevitabile effetto di moltiplicazione, se si considera che tale lievitazione si può ripetere per tre anni negli scrutini finali, nella migliore delle ipotesi per studenti magari non particolarmente brillanti, ma dalla condotta scolastica encomiabile per dedizione e impegno nello studio. Il processo di lievitazione giunge poi a compimento con l’attribuzione del voto nelle singole prove d’esame, in cui le soglie di sufficienza dei 10/15 negli scritti e 20/30 nel colloquio spingono verso l’alto tutte le votazioni positive.

Tutto ciò spiega, almeno in parte, la sfiducia nutrita da molti nella veridicità della votazione d’esame, che spesso non trova corrispondenza nei risultati che gli studenti ottengono negli esami universitari o in prove attitudinali di preselezione per accedere al mondo del lavoro. Va rilevato però che nel denunciare questa discrasia nessuno ricorda mai che la legge alla base dell’attuale Esame di Stato si fonda su una concezione pedagogica – corretta o meno che la si voglia considerare – secondo cui lo studente non va valutato unicamente per le proprie capacità e competenze disciplinari, ma anche per altre sue attitudini, che sono registrate per l’appunto dai famosi crediti formativi6, oltre che dalla considerazione complessiva, ovviamente non formalizzabile in termini numerici, che il docente ha della sua personalità. Si tratta di elementi non strettamente legati alle attività disciplinari e curricolari, che naturalmente non sono considerate dal datore di lavoro di un’azienda o dal docente universitario (e nemmeno gli possono interessare più di tanto) quando valutano lo studente in un contesto strettamente disciplinare. Che insomma uno studente bravissimo in fisica sia anche un abile pianista, un formidabile giocatore di pallavolo o un encomiabile volontario nel settore sociale può indubbiamente suscitare simpatia nei suoi confronti, ma non ne muta la valutazione ai fini dell’assunzione in azienda o dell’attribuzione del voto in un esame universitario di analisi o di statistica. Le modeste proposte di modifica di alcuni dettagli tecnici dell’attuale Esame di Stato avanzate in queste pagine potrebbero in parte attenuare la discrasia tra modelli valutativi differenti, ma come pare evidente agli osservatori più avvertiti7, molto più importante sarebbe avviare una riflessione approfondita sui modelli pedagogici su cui si regge il sistema educativo italiano, in un contesto di mondo globalizzato in cui non è possibile non tenere conto delle realtà che ci circondano. Di un ripensamento complessivo di tali modelli si avverte in particolare l’urgenza a fronte di problematiche come quella che ha sollevato anche recentemente particolari clamori, fino ad essere definita lo «scandalo delle lodi»8.

Lo scandalo delle lodi

I dati forniti dal Miur sull’attribuzione delle lodi d’esame fotografano chiaramente una situazione già nota da tempo: le regioni con maggior numero di diplomati con lode sono Puglia (2,3% dei candidati), Marche (1,7%), Umbria (1,6%), Calabria (1,3%), Emilia-Romagna e Sicilia (1%), Abruzzo, Molise e Campania (0,9%), Lazio e Sardegna (0,8%), anche se si apprezza una riduzione della distanza rispetto alle regioni settentrionali: Piemonte, Trentino, Liguria (0,7%), Veneto (0,6%), Lombardia e Friuli (0,4%). La riduzione della distanza è certamente in parte dovuta ad una «riflessione sulla valutazione, che richiede di utilizzare tutta la scala dei voti per poter riconoscere le eccellenze e arrivare al cento in quinta»9, ma le differenze appaiono ancora clamorose e non sembrano giustificate da motivazioni genericamente legate alla volontà di riscatto sociale o alla maggiore propensione allo studio degli studenti pugliesi rispetto a quelli friulani, come per altro dimostrano gli esiti delle prove Invalsi, estremamente negativi in alcune delle regioni che vantano invece il maggior numero di lodi.

Abravanel sostiene nei suoi studi che le clamorose differenze nord-sud siano dovute al fatto che anche le commissioni miste, i cui membri esterni provengono dalla stessa regione o città degli interni «tendono ad adeguare il proprio metro di valutazione al livello medio di preparazione degli studenti che hanno di fronte. Se gli studenti sono valutati dai loro stessi insegnanti, quelli di una buona classe saranno mediamente giudicati con un metro più severo di quelli di una classe meno buona»10 e chiedendosi perché non si riesca a cambiare una situazione del genere, conclude «Perché le famiglie italiane non capiscono il danno che questo reca ai loro figli», alludendo al fatto che va sempre più diffondendosi la considerazione per cui la lode al singolo studente, o il numero di lodi complessivo ottenuto da un istituto scolastico, rappresenta una sorta di status symbol e in quanto tale non c’è restrizione legislativa che tenga: non è difficile immaginare che cosa potrà accadere quando – come pare implicito nella «Buona scuola» – retribuzioni e gratifiche di docenti e dirigenti saranno legate ai risultati conseguiti dagli alunni.

L’unica soluzione a questo problema sembrerebbe l’idea che l’intero esame, o almeno una parte di esso, sia gestito da un organismo esterno, incaricato di valutare in modo anonimo, e con gli stessi parametri, tutti i candidati sul territorio nazionale. Abravanel suggerisce che tale compito sia svolto dall’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione), l’ente di ricerca che, sotto la vigilanza del Miur, gestisce il Sistema di valutazione nazionale e a cui spetta già il compito di allestire prove di misurazione nelle scuole medie inferiori e in alcune classi delle scuole superiori. In merito, però, non si può non esprimere qualche perplessità: a parte il fatto che affidare tutto l’Esame di Stato all’Invalsi costerebbe certamente di più rispetto alla somma attualmente impegnata per la retribuzione di presidenti e commissari di maturità, è da tempo noto che le tipologie di prova proposte dall’ente hanno suscitato non poche obiezioni, conformandosi pedissequamente a modelli di riferimento internazionali, lontani dai contesti didattici e culturali della nostra tradizione e sulla cui efficacia sono stati avanzati non pochi dubbi11. Senza poi considerare talune singolari modalità statische adottate dall’Invalsi, come il famigerato criterio del cheating (in italiano «copiatura»), per cui se qualche classe di un istituto ha ottenuto risultati troppo positivi rispetto alle medie nazionali, questi vengono automaticamente cancellati in quanto ritenuti sospetti di alterazione, con il triplice risultato di fornire dati non corretti, penalizzare alunni e istituti virtuosi e offenderne l’impegno con il marchio fasullo della disonestà.

Se dunque pare opportuno un esame (o una prova) gestita da terzi a livello nazionale, non si capisce davvero perché essa non possa essere almeno preparata da gruppi di docenti selezionati e addestrati dal Miur. Nel corpo docente italiano non mancano certo capacità, esperienze e forze numericamente sufficienti per un tale obiettivo, in grado di allestire verifiche rispondenti alla tradizione e ai modelli educativi e didattici praticati nelle nostre scuole. Tali gruppi potrebbero fornire anche le “chiavi” di correzione delle prove che, poi, il Miur potrebbe scegliere, affidando eventualmente la correzione a chi vuole e integrando il valore finale di questa prova con quello della commissione d’esame.

Modelli educativi

Come si è visto anche da questa rapida ricognizione le questioni legate all’Esame di Stato, ai suoi limiti, alle discussioni che solleva e alle proposte di modifica parziali o totali rimandano inevitabilmente tutte ad una problematica di più ampio respiro, cioè alla necessità che si discuta e si definisca una politica scolastica a tutto tondo, di cui non si ha traccia in Italia negli ultimi trent’anni a fronte di singoli, isolati e confusi provvedimenti di ogni parte politica, dettati da esigenze economiche o dalla necessità di ottemperare a sentenze giudiziare europee in materia di diritti dei lavoratori e spesso nobilitati col titolo di “riforme” .

Di fronte ad un mondo globalizzato e sempre più competitivo, dominato dalle leggi della concorrenza e della selezione naturale, urgerebbe invece soprattutto operare una scelta chiara tra modelli educativi, decidendo se puntare su una scuola sempre più in linea con la cosiddetta «cultura del piagnisteo»12, dominante oltreoceano, o guardare ai profili aggressivi e competitivi delle cosiddette «tigri asiatiche», nella speranza di risalire un po’ la china nelle classifiche internazionali degli studenti più bravi. O forse, piuttosto, avere il coraggio di imboccare una terza via, ripensando e aggiornando quel paradigma classico oggi così bistrattato, il cui equilibrio e il cui senso della misura può probabilmente suggerirci non poche soluzioni anche in ambito educativo.

1 D.M. 99/2009, ministro Gelmini.

2 Dal 2008 (legge 1/2007 ministro Fioroni) l’attribuzione della lode comporta un premio in denaro. Inizialmente la cifra conferita era pari a mille euro, progressivamente diminuiti fino agli attuali 450.

3 Tale bonus, al massimo 5 punti, può essere assegnato dalla commissione se lo studente vanta un credito scolastico di almeno 15 punti (sui 25 massimi) e nelle prove d’esame ha ottenuto almeno 70 punti (sui 75 massimi).

4 Senza considerare che spesso, soprattutto al terzo anno di studio, nel passaggio tra biennio e triennio, lo studente affronta difficoltà e adattamenti non indifferenti sul piano dei metodi e dei contenuti, che talora ne influenzano i risultati.

5 Cf. la tabella della nota 11.

6 Importante appare in tal senso il filtro che la commissione di istituto può esercitare sulla documentazione esterna presentata dagli studenti, relativa alle attività non curricolari da loro svolte.

7 Il presidente dell’“Associazione nazionale presidi”, G. Rembado, rilevando la mancata corrispondenza tra il voto dell’Esame di Stato e la preparazione finale degli studenti, ha affermato che «occorrerebbe rivedere completamente l’impianto della maturità, che al momento serve soltanto a garantire la norma costituzionale» (La Repubblica 17/7/2015).

8 R. Abravanel, Cambiamo l’esame di maturità: non funziona, Corriere della Sera 2/8/2015. Dello stesso autore cf. anche Meritocrazia, Milano 2008; La ricreazione è finita, Milano 2015.

9 M. Veladiano, Usare tutta la scala dei voti premia le eccellenze, La Repubblica 17/7/2015.

10 R. Abravanel, Cambiamo l’esame di maturità cit.

11 Senza alcuna intenzione di negare lacune e debolezze del nostro sistema scolastico, si ha infatti l’impressione che le ultime posizioni nelle graduatorie internazionali, occupate dagli studenti del nostro Paese in determinate discipline di riferimento, dipendano non in piccola parte dalle modalità di verifica con cui tali classifiche vengono compilate. Cambiando sistema di rilevazione probabilmente i nostri alunni risulterebbero un po’ meno deboli di quel che paiono, mentre i formidabili studenti della celebratissima scuola finlandese scenderebbero di parecchie posizioni rispetto ai vertici della graduatoria.

12 La definizione, dello storico e sociologo americano C. Lasch (1932-1994), è stata recentemente evocata da F. Rampini, Le parole per non dirlo, La Repubblica 17/8/2015, a proposito del dibattito sul dilagare del «politicamente corretto» nelle università statunitensi.

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