L’illuminismo mio e tuo. Il carteggio fra Italo Calvino e Leonardo Sciascia
Spesso leggendo quel che scrivono i critici mi viene da riflettere sull’«illuminismo» mio e tuo. Il mio chissà fino a che punto può definirsi tale, e non soltanto un elemento di gusto – stilistico e morale – che si somma a elementi diversissimi: racconto fantastico-romantico, non-sense, fumisteria. (…) Tu sei ben più rigorosamente illuminista di me, le tue opere hanno un carattere di battaglia civile che le mie non hanno mai avuto hanno una loro univocità sul piano del pamphlet, anche se sul piano della favola come ogni opera di poesia non possono essere ridotte a un solo tipo di lettura. (Calvino a Sciascia, 26 ottobre 1964)
Il carteggio
Pubblicato per i Cult degli Oscar Mondadori (2023), curato da Mario Barenghi e Paolo Squillacioti, L’illuminismo mio e tuo raccoglie il carteggio (1953-1985) fra Italo Calvino e Leonardo Sciascia e traccia la relazione fra i due dal suo nascere fino all’epilogo segnato dalla scomparsa prematura di Calvino. La prima lettera risale infatti al maggio del 1953: Sciascia invia a Calvino una copia della rivista “La Galleria” (che diresse fino al 1959) e gli chiede una collaborazione: «Spero perciò che la rivista non Le dispiaccia; e che almeno consideri lo sforzo che ci costa e la buona volontà di migliorarla»; l’ultima è datata 11.09.85: «Spero che quando ti arriverà questo biglietto sarai del tutto ristabilito. Te ne faccio l’augurio più affettuoso e fraternamente ti abbraccio»: sette giorni dopo Calvino si spegne per le complicazioni di un infarto cerebrale. Fraternamente è avverbio che potrebbe accompagnare la vicenda intellettuale che accomuna i due scrittori. È una fratellanza che non è fatta solo di somiglianze biografiche e affinità d’interessi: benché innegabili (quasi coetanei, laici, militanti a sinistra,collaboratori di riviste e quotidiani, lettori attenti di narrativa straniera e saggistica, ed essi stessi narratori per lo più di short stories), le somiglianze coesistono con cospicue differenze, a cominciare dalla prima e più vistosa e non sempre esteriore: l’uno vive nel Nord Italia, l’altro nel Sud. Ciò che,nonostante la distanza geografica e le opinioni spesso divergenti, li tiene uniti e vicini per oltre trent’anni e li fa sentire fratelli è «il senso di una responsabilità etico-storica» (p. VII), appreso anche dalla lezione più alta dell’illuminismo: tolleranza e inesauribile istanza di ricerca della verità:
Nella razionalità settecentesca potevano trovare alimento sia le invenzioni satiriche e le inchieste storiche di Sciascia, spesso intrise di acre drammaticità, sia la fantasia calviniana, con i suoi cortocircuiti fra distanze immense e minime, e il continuo alternarsi di astrazione formale e aderenza alle cose concrete. Se l’epoca dei lumi non era riproducibile per i nostri due scrittori (…), molto poteva insegnare a entrambi quanto a capacità di situarsi rispetto a una sorgente di luce. Assodata poi la disparità di interpretazione circa il piano di sfondo, cioè il contesto storico-politico, il diradarsi della corrispondenza – in parte, certo, dovuto, alle più rare occasioni di collaborazione professionale – potrebbe essere letto anche come una maniera di salvaguardare un rapporto personale al quale tutt’e due tenevano. A volte la manutenzione dell’amicizia passa attraverso fasi di relativo silenzio. (p. XXIII)
Così Mario Barenghi nella Prefazione (pp. V-XXIII), che è più di una semplice introduzione, piuttosto una chiave d’accesso all’universo etico e letterario tanto dell’uno quanto dell’altro scrittore e al «contesto» in cui entrambi si muovono, «quello dell’Italia della cosiddetta Prima Repubblica, nel periodo compreso tra il boom economico e l’insorgere dell’emergenza terroristica. Potremmo dire, in sintesi: dell’Italia democristiana» (p. VI). All’interno di tale contesto ognuno dei due porta la propria cifra inconfondibile: scettica e satirica quella di Sciascia, potenzialmente mitica quella di Calvino. Tuttavia, come osserva Paolo Squillacioti nella Postfazione (pp. 271-282), se «i temi civili e politici non mancano nel carteggio, (…) è di letteratura che soprattutto si discorre» (p. 276).
Che c’entrano i soldi con i libri?
Non a caso, dunque, all’interno del volume, la corrispondenza è per lo più organizzata per “argomenti letterari” (Libri di altri, I «Gettoni» difficili, Premi, racconti, zii, Il giorno della civetta, Sicilia senza misteri?, Congetture non confutate, Ultime). Tra gli aspetti più interessanti del carteggio c’è infatti il confronto serrato che si stabilisce fra i due intellettuali, soprattutto (ma non solo) negli anni compresi tra il 1961 e il 1974 – che, per intenderci, sono gli anni in cui Sciascia, dopo Il giorno della civetta,pubblica con Einaudi i suoi libri più noti (Il consiglio d’Egitto, A ciascuno il suo, Il contesto, Todo modo…) e Calvino, dopo la Gli antenati, si misura con l’equilibrio non sempre facile tra i due filoni della sua poetica, quello realista e quello fantastico (La giornata di uno scrutatore, La speculazione edilizia da un lato, Le cosmicomiche, Le città invisibili etc. dall’altro). Calvino, nella sua qualità di critico e consulente editoriale, intuisce immediatamente le potenzialità della scrittura di Sciascia:
Da anni punto su di te, ma non mi aspettavo di trovarti narratore, e un narratore sicuro come ti dimostri. (…) Il tuo libro (La zia d’America, ndr) ha l’interesse dell’ambiente meno solito, e questa felicissima vena caricaturale (…) così amara, così spontanea (02.03.1956), p. 17.
Non esita però a indicargliene i limiti («…in qualche parte – ne La morte di Stalin, ndr – c’è troppo la cronaca degli avvenimenti storici, il resoconto di quel che pubblicano i giornali, senza abbastanza controparte di narrazione»,12.09.1956, p. 25), con una franchezza che aumenta con gli anni e con la notorietà del narratore siciliano. Esemplare la lettera del 10.11.1965:
Ho letto il tuo giallo che non è un giallo (A ciascuno il suo, ndr), con la passione con cui si leggono i gialli, e in più il divertimento di vedere come il giallo viene smontato (…). È insomma un ottimo Sciascia, che si affianca al Giorno della civetta e lo supera, perché c’è più ironia, perché la presenza del nume tutelare Pirandello non è affatto marginale, perché si vede che viene dopo Il consiglio d’Egitto. La commedia di caratteri e la saggistica storico-letteraria-sociologica trovano un punto di fusione di cui tu solo, nella narrativa d’oggi, possiedi la formula. (…)
A vederti così bravo e solido, ho deciso, per adeguarmi ai tempi da lupi in cui stiamo vivendo, di propinarti qualche piccolo boccone amaro in ogni lettera. Se no, che gusto c’è? E stavolta ti dico questo: da un po’ di tempo m’accorgo che ogni cosa nuova che leggo sulla Sicilia è una divertente variazione su un tema di cui ormai mi sembra di sapere già tutto, assolutamente tutto punto (…). Tanto che speriamo ardentemente che nulla cambi, che la Sicilia resti perfettamente uguale a sé medesima, così potremo al termine della nostra vita dire che c’è almeno una cosa che abbiamo conosciuto a fondo. (pp. 165-166)
E tuttavia, nell’esercitare il suo mestiere di critico, ammette serenamente: «E io che predico tanto? Be’, parlo di te per cercar di veder chiaro in me» (26.10.1964).
Sciascia, perfettamente consapevole del dialogo privilegiato istauratosi con Calvino («Io scrivo a te come ad un amico che è anche dirigente della Einaudi», 05.07.1959, p.87), non solo non se la prende, ma cerca «di essere lucidamente cosciente» (p. 168), e di fare, di quelle osservazioni, lievito per la sua materia:
La tua lettera mi ha dato da pensare: poiché la giustezza della tua «frecciata» coincide con una mia inquietudine e insoddisfazione in progresso. Non sono per niente solido, come tu mi credi; al contrario, tra centro-sinistra e interne carenze di «ragioni», sono sul punto di cedere. (…) Quello che tu dici è molto vero: della Sicilia si sa ormai tutto, assolutamente tutto: la letteratura ne ha dato un’immagine nitida, compiuta (che è anche la gloria della letteratura siciliana, ma al passato). (…) Ormai c’è più Sicilia a Parigi che a Racalmuto, nella Torino razzista che nella Palermo mafiosa. Bisogna avere il coraggio di seguire questa Sicilia che sale verso il Nord, per trovare la ragione più valida (almeno per oggi) di scrivere. (p. 167)
A misurare la considerazione in cui Sciascia tiene Calvino, può essere utile la distanza tra questa reazione ragionevole e quella manifestata all’uscita di un articolo assai limitativo apparso su L’Unità a proposito del Giorno della civetta:
Ma hai visto L’Unità? Possibile che un libro simile – che affronta un vivo, tragico problema; e sia o no un bel racconto – interessi così poco il giornale del P.C. ? – Non ho sete di recensioni: scrivo per tutt’altre ragioni. Ma queste cose mi fanno cadere le braccia. (20.05.1961, p. 139)
È vero che Sciascia si trova, soprattutto all’inizio, nella posizione di dover chiedere – collaborazione, supporto, pubblicazioni, libri e anche i legittimi compensi –, ma non si tratta mai di un rapporto di dipendenza. Al contrario, ricambia l’amico con altrettanta franchezza; e alcuni scambi assomigliano a dei gustosi botta-e-risposta. Per esempio, quando Sciascia candidamente comunica a Calvino che il suo «editore ideale» non è Einaudi, ma Vito Laterza, «non solo perché paga i diritti con puntualità e scrupolo, ma perché diffonde il libro come meglio non si potrebbe» (25.06.1959, p. 84), Calvino risponde precipitosamente per espresso: «La tua lettera ci causa un grave allarme. Teniamo molto al tuo romanzo. Da mesi Einaudi mi chiede continuamente…» (30.06.1959, p. 86). O ancora: Sciascia scrive a Calvino sollecitando la pubblicazione de Gli zii di Sicilia: «mi occorre avere il libro subito, perché debbo avere dei soldi (e non li avrò, o ne avrò di meno, se il libro ritarda)» (02.07.1958, p. 69); Calvino, pur rassicurandolo, replica quasi con stralunata saccenteria: «Dici che devi avere dei soldi. Ma che c’entrano i soldi coi libri? Soldi e libri, purtroppo, appartengono a due universi diversi e non comunicanti» (04.07.1958, p. 70) e Sciascia ribatte asciutto, concreto e sornione: «I soldi che dovrei avere son quelli della presidenza del consiglio: e ci vuole un libro pubblicato nell’anno per averli. Come vedi, i soldi coi libri in un certo modo comunicano» (08.07.1958, p. 71). E naturalmente Sciascia non manca di esternare a Calvino cosa pensi del suo lavoro di narratore: recensore entusiasta del Barone rampante (Calvino, commosso, gli scrive «Mi sembra d’avere in te l’ottimo dei lettori», 18.01.1958, p. 56), all’occorrenza sa essere sincero in modo disarmante, come di fronte al volume calviniano dei Racconti: «Una sola cosa mi stona: quel pezzo [La signora Paulatim, ndr] già pubblicato sul “Caffè” e che avresti dovuto, mi pare, lasciarlo lì – come scherzo parodistico» (03.02.1959).
Scritti reciproci
Ad ogni modo, mai le divergenze di opinioni letterarie conducono i due a niente che anche lontanamente somigli a uno scontro. I rapporti si fanno più complessi (e, sotto il profilo epistolare, più radi, come s’è già detto) alla metà degli anni Settanta, quando, come ogni osservatore intelligente e sensibile, si trovano a fare i conti con la stagione del terrorismo. Anche per questo risulta di estremo interesse la sezione del volume intitolata Scritti reciproci: costituita da articoli, interviste, quarte di copertine (scritti anche molto noti), essa dialoga con il carteggio e lo integra, ma soprattutto restituisce lo spessore del dibattito pubblico di allora (con qualche malinconica considerazione nostra su quello di ora) e una lezione importante su cosa significhi essere intellettuali “impegnati” – per quanto a Calvino l’etichetta risulti urticante («Che barba queste interviste sull’impegno. Fortuna che l’Espresso ci ha tenuto un po’ nascosti, mettendo in vetrina solo i tromboni»i, 18.11.1972, p. 202). È un repertorio di grande valore, tutto; ma dovendo scegliere, per ragioni di brevità, un solo esempio di questa “reciprocità”, la nostra attenzione si ferma su due articoli inscindibilmente legati, che ancora parlano alle lettrici e ai lettori di oggi con la forza della loro urgenza e del loro portato politico:
( …) Ma vengo alle motivazioni più vicine, di oggi, per cui non vorrei entrare in una giuria – e specialmente in una giuria chiamata a giudicare quelli che si usano dire delitti contro le istituzioni, contro lo Stato. Così come non capisco che cosa polizia e magistratura difendano (…), ancora meno capirei che io, proprio io, fossi chiamato a fare da cariatide a questo crollo o disfacimento di cui in nessun modo è minimamente mi sento responsabile. Salvare la democrazia, difendere la libertà, non cedere, non arrendersi – e così, coi titoli che vediamo ad ogni avvenimento tragico accendersi sui giornali – sono soltanto parole. C’è una classe di potere che non muta e che non muterà se non suicidandosi. Non voglio per nulla distoglierla da questo proposito o contribuire a riconfortarla: che sarebbe come scegliere per sempre, per me, quella che i medici hanno diagnosticata ai giurati di Torino come «sindrome depressiva» (Leonardo Sciascia, Non voglio aiutarli in alcun modo, «Corriere della sera», 12 maggio 1977; pp. 257-258)
Se tante persone, soprattutto tanti giovani, non vogliono più stare a sentire i discorsi di nessuno, le ragioni ci sono e le sappiamo tutti troppo bene. Così come sappiamo che queste ragioni abbandonate all’esasperazione senza prospettive portano ad atteggiamenti suicidi. All’irresponsabilità, all’irrazionalità violenta, all’intolleranza, bisogna dire un no netto. Ma anche saper riconoscere la grande carica d’energia morale che spinge a non accettare il modo come vanno le cose e che vuole essere parte attiva nel cambiarle. Direi che il peggior delitto politico è di lasciare che questa spinta d’energia morale vada alla deriva, che si perda dietro a provocatori o a nichilisti da strapazzo, o diventi rapidamente rassegnazione e cinismo (…). Gli accordi tra partiti nasceranno male se verranno fatti in punta di piedi, cercando di minimizzarli. Al contrario è richiamando la drammaticità dell’ora (…) (il fallimento del centrosinistra insegni) che si può riuscire a dare a una situazione di necessità un contenuto positivo. L’unico passo avanti che ci si può attendere dalla crisi dello Stato è un maggiore peso dei cittadini – della base – (…). Questo è quanto non devono dimenticare oggi i partiti, nessuno escluso.
Sbaglia di grosso Leonardo Sciascia a credere al crollo o disfacimento o suicidio di un sistema di potere lasciato a se stesso. Se ciò avvenisse vorrebbe dire soltanto la creazione automatica di una versione peggiorata dello stesso potere, con le stesse storture (…). Anch’io sono uno di quegli ottimisti che credono che potrebbe andare molto peggio di come va adesso.
(Italo Calvino, Il paese non può attendere, «Corriere della sera», 15 maggio 1977; pp. 262-263).
iPer la cronaca: i “tromboni” sono Goffredo Parise, Giorgio Bocca e Alberto Moravia.
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