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diretto da Romano Luperini

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La riforma della scuola e la guerra dei tropi

Storytelling della scuola

Premetto che non sono riuscito a reggere fino alla fine il famoso messaggio di Renzi alla lavagna. Per un motivo molto semplice, ovvero perché ho realizzato subito che la scelta da parte del Presidente del Consiglio di fare una ‘lezione’ (al cittadino? all’insegnante? alla casalinga di Vigevano?) era un’immagine iconica di un modello relazionale e comunicativo che Stefano Rodotà, in una sua recente intervista su ‘il manifesto’ ha etichettato come tipico di una ‘pedagogia del capo’ . Dopo i primi minuti di ascolto, ho deciso così di sottrarmi a quello che mi sembrava un puro gioco di potere, in cui il ‘capo’ metteva in scena una relazione one-up cui lo spettatore non avrebbe potuto controbattere se non a partire da una posizione di debolezza e di inferiorità.

Non è dunque in risposta a quella messa in scena che il qui presente intervento è stato concepito. La mia convinzione ferma, del resto, è che il dibattito sulla scuola dovrebbe principalmente concentrarsi non tanto sulle strategie simboliche di comunicazione che supportano un progetto di legge, quanto sulla lettera del progetto stesso, sui suoi articoli, sui suoi commi e, soprattutto, sulle conseguenze pratiche che l’approvazione di essi comporta. Questo, in fondo, è quello che hanno già fatto giornalisti, docenti, blogger e (pochi) intellettuali. Penso ad esempio, oltre alle interviste rilasciate da Rodotà, alla lucida analisi di Andrea Zhok, pubblicata su “Scenari”. Ma penso anche ai collegi dei docenti di moltissime scuole italiane, che hanno elaborato documenti durissimi e ben argomentati che in pochi hanno letto, condiviso e ascoltato, e i cui punti sono stati derubricati, dalla retorica renziana, a semplici ‘slogan’ o – ancora peggio – a semplificazioni sindacali.

Troppi tropi

Resta comunque il fatto che il marketing e lo storytelling renziano, e più in generale le retoriche sulla scuola dell’ultimo ventennio, hanno mostrato di avere una forza e una pervasività tali che non ci si può esimere dal riflettere su di esse. E non è forse inopportuno analizzare alcune scelte stilistiche che stanno infettando il dibattito attuale.

Partiamo innanzitutto dal ‘brand’ che Renzi, su suggerimento di Marco Lodoli, ha deciso di usare per il suo ‘prodotto’: la ‘buona’ scuola (cfr. l’articolo di Lodoli su La Repubblica del 22. 5. 2015). La scelta di usare un aggettivo qualificativo per una riforma si configura già di per sé come una scelta separativa e disgregativa. Si parte dal presupposto implicito che esiste una ‘cattiva’ scuola che deve essere combattuta e sconfitta, che esiste, cioè, una lotta del bene contro il male, e che quest’ultimo è incarnato da tutta una serie di fantasmi – privi di referenza reale o comunque svuotati del loro corpo reale e ridotti a macchiette – che vengono evocati nel corso delle esternazioni mediatiche del premier e dei suoi portavoce (penso all’inesistente 6 politico di cui Renzi ha blaterato amabilmente assieme a Massimo Giletti su RAIUNO, alla mefitica ‘insegnante marxista’ tratteggiata caricaturalmente da Lodoli nel sopra citato articolo sulla Repubblica, o anche alla retorica degli ‘insegnanti scarsi’ contro i quali si è scagliata la renziana Mila Spicola in un suo contestatissimo post di facebook.

Alcuni commentatori hanno considerato manicheo il dibattito che infuria in questi giorni, senza però evidenziare come il manicheismo fosse già implicito nella formula scelta dal premier per denominare il suo disegno di legge. Chi potrebbe avversare un disegno denominato ‘la buona scuola’ se non ‘i cattivi’, le forze del male, Hannibal Lecter o l’imperatore Palpatine in persona?

Non ci sono però solo gli usi linguistici di Renzi a invadere il campo e ad orientarlo. In un suo articolo pubblicato sull’Huffington Post, Corrado Ocone ha provocatoriamente cercato di spiegare che quella della scuola-azienda non è da intendersi come una metafora. Le scuole, dice Ocone, sono di fatto aziende ‘civili’ che erogano servizi. Su questo, credo che nessuno avrebbe alcunché da eccepire. Ovviamente, tutti sanno che, come avviene per le aziende, le scuole hanno bisogno di fondi per funzionare e che, oltre che del dirigente scolastico, è per loro vitale il lavoro del dirigente amministrativo. Ocone, tuttavia, si spinge molto più in là e, a sorpresa, dopo avere mostrato che non si usa affatto una metafora quando si parla di scuola-azienda, introduce subito dopo, di soppiatto, una seconda metafora che propone implicitamente (e, a mio avviso, scorrettamente) di prendere alla lettera. Subito dopo avere spiegato che le aziende civili che erogano servizi per la società sono una ricchezza (cosa su cui non posso non concordare), continua dicendo che «in primo luogo, il cliente della scuola è lo studente» e che la scuola dovrebbe puntare alla sua «soddisfazione».

Premetto che, nella mia pratica quotidiana, cerco sempre di pormi, come obiettivo, il benessere dei miei alunni, proprio perché ritengo che quello dell’insegnante sia un mestiere relazionale e che, appunto, un percorso di crescita e di formazione può solo essere agevolato se il rapporto fra il professore e gli studenti funziona ed è improntato a rispetto reciproco. E in genere il rapporto funziona quando, oltre a mettere in campo la mia preparazione disciplinare, rifletto sulle strategie pedagogiche da adottare e sulle modalità nonviolente di interazione e di gestione dei potenziali conflitti che possono esplodere con il gruppo classe o con i singoli alunni.

Ora, posto che di tutto questo, il piano di Renzi per la scuola non si occupa né vuole occuparsi, mi chiedo che utilità abbia, a livello relazionale, considerare un alunno come un ‘cliente’. In fondo, anche le ASL o gli ospedali sono aziende; ma perché mai si dovrebbero chiamare ‘clienti’ i loro pazienti? Rimarrei poi un po’ spiazzato se, andando alle Poste, che sono una azienda che eroga un servizio pubblico, l’impiegato allo sportello mi chiamasse ‘gentile cliente’. Se ciò avvenisse, si attiverebbe in me un meccanismo di ‘straniamento’ dovuto ad un uso linguistico improprio. Peraltro, Ocone – che si professa filosofo e liberale – dovrebbe ben sapere che la relazione di domanda-offerta che si attiva fra un ‘cliente’ e un ‘venditore-erogatore di servizi’ è una relazione che implica la possibilità della exit (‘uscita’) e che impronta il rapporto nei termini della spersonalizzazione. Ma siamo sicuri che se un docente cominciasse a trattare il suo studente, alla lettera, come un ‘cliente’, quest’ultimo si sentirebbe soddisfatto? Non preferirebbe essere trattato, più semplicemente, come ‘persona’?

E più in generale, siamo sicuri che questa reductio ad unum contribuisca a migliorare realmente il livello e la qualità dei servizi erogati dalle scuole e non finisca invece per semplificare una realtà che è invece molto più complessa di come Ocone e Renzi pretendono di rappresentarla, banalizzandola?

La metafora del termometro e dell’ammalato

Un’altra metafora interessante, di taglio prettamente organicistico, è quella utilizzata dalla stampa italiana per difendere i test INVALSI. In una intervista rilasciata per il Corriere della Sera da Piero Cipollone, si dice che il boicottaggio delle prove operato dagli studenti e dai genitori il 6, il 7 e il 12 maggio è stato come la rottura di un termometro per un ammalato. Non mi dilungo su questo uso iperbolico e fuorviante della lingua, che è stato già contestato con argomenti che mi sembrano convincenti da Vincenzo Pascuzzi  e da Giorgio Israel. Mi limito soltanto a segnalare che, posto che il fine delle prove INVALSI sia unicamente quello di misurare il grado del ‘malessere’ scolastico, siamo sicuri che diano un contributo reale nell’individuarne le cause e i provvedimenti adatti a rimuoverlo (quello che gli appassionati del lessico metaforico chiamerebbero ‘le cure’)?

Il mio timore è che, ancora una volta, le cause del disagio, dell’arretratezza culturale, dei deficit nelle competenze analitiche siano complesse. Il punto invece è che i dati che l’INVALSI fa rilevare ai docenti (imponendo loro una prestazione non prevista dal contratto) si inquadrano all’interno di una visione a dir poco meccanicistica e positivistica della loro azione, proprio perché in genere si tende a presupporre che le défaillances degli studenti nei test siano determinate dall’intervento didattico dei loro insegnanti. Cosa, questa, che comporta un rischio molto grave, che è quello di ritenere la scuola in prima persona responsabile degli scenari funesti che emergono dai rilevamenti, quando invece – come suggerisce uno dei più bei film che siano mai stati girati sulla crisi dei sistemi scolastici occidentali, The Detachment, di Tony Kaye – la crisi della scuola, dell’insegnamento, del crollo delle competenze (e delle motivazioni) degli studenti è forse da collegare alla crisi sistemica di una società che i crimini finanziari, l’auto-referenzialità della politica e l’egemonia del pensiero unico neo-liberista hanno disarticolato e disgregato creando professioni e vite di scarto.

La guerra dei tropi

Gli esempi delle metafore messe in campo potrebbero continuare all’infinito. Quello che mi preme qui sottolineare è comunque che in questa guerra di tropi la scuola non viene mai riconosciuta, nella sua complessità, come tale. La scuola non è mai la scuola e basta. È sempre assimilata implicitamente a qualcos’altro. Essa è ora il corpo di un ammalato, ora un’azienda con i suoi clienti, ora, addirittura (come piace ripetere a Renzi), una squadra di calcio di cui il preside-mister sceglierà la formazione, o, anche, un comune in cui il preside-sindaco presenterà la sua giunta.

Ma perché queste remore nell’uso denotativo del linguaggio? Perché questo eccesso di connotazione?

E soprattutto, perché mai chi detta l’agenda simbolica del dibattito da un ventennio a questa parte ha avuto così tanto bisogno di mettere in campo questo esercito

di traslati e concettini barocchi, senza invece mai portare all’attenzione del dibattito pubblico i reali modelli economici ed educativi cui ci si è ispirati?

Per inciso, i modelli cui sia i governi di centro-destra che il governo Renzi fanno riferimento pur senza menzionarli sono, evidentemente, quelli del GERM, un acronimo di cui la stampa italiana sembra ancora ignorare l’esistenza e che indica il cosiddetto Global Education Reform Movement, ovvero quel modello di stampo ultra-liberistico che, a partire dagli anni ’80, ha cominciato a diffondere in tutto il mondo occidentale un’idea di scuola basata sulla competizione e la rendicontazione economica, in cui si pretende di ottenere il massimo dei risultati con il minimo dell’investimento (e dunque con tagli profondi dell’erogazione e dei finanziamenti pubblici) a discapito della funzione sociale dell’istruzione (a proposito del GERM vedi l’editoriale del numero speciale sulla scuola della rivista “Storia delle Donne”.

Un modello alternativo a quello del GERM di fatto esiste, ed è stato studiato, a partire dall’analisi del sistema educativo finlandese, da Pasi Sahlberg. Tale sistema contrappone a parole chiave come ‘competizione’ e ‘rendicontazione’ valori e termini come equità, cooperazione e prosperità. Ma forse tali termini sono troppo ardui e ostici – o magari troppo caricaturalmente ‘marxisti’ – per chi fa le lezioni alla lavagna con i gessetti sproloquiando di maestre, farmacisti, baristi ed evocando un anacronistico immaginario da libro Cuore per mascherare invece un’idea di scuola (e di società) tecnocratica, verticistica e iniqua. Parlare di equità, cooperazione e prosperità, in fondo costringerebbe i nostri politici e i nostri intellettuali sedicenti liberal a parlare di scuola-in-quanto-scuola, e quindi di corpi sociali, di sistemi educativi, di rapporto fra didattica e ricerca, di relazioni umane, di benessere dei docenti e di benessere degli studenti, di psicologia e di neurologia dell’apprendimento, di modelli cognitivi, di modelli pedagogici, di cittadinanza. In fondo, è molto più semplice parlare di corpi malati con la febbre, di aziendine, di competizione, di squadre di calcio, di ore di lavoro da tagliare con l’affettatrice come il prosciutto dal salumaio. Vuoi mettere?

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