Insegnare la letteratura oggi/5. Intervista a Clotilde Bertoni
A cura di Emanuela Annaloro
E.A: L’insegnamento della letteratura nelle nostre scuole su cosa poggia realmente? Su di un nucleo condiviso di contenuti e di valori negoziati dal canone della nostra tradizione? Sulle forme di un immaginario condiviso? Sulla ricerca di significati che lo studio letterario sa alimentare? O molto più prosaicamente su abitudini e rituali burocraticamente scanditi?
C. B: Naturalmente l’ultima ipotesi sarebbe la peggiore. E non è solo una possibilità dei giorni nostri: adesso i condizionamenti dell’apparato burocratico sono più forti; ma il rischio che la letteratura si riduca a una routine c’è da sempre, e va naturalmente combattuto. D’altra parte io non penso che la letteratura debba o possa veicolare un sistema di valori fissato una volta per tutte; né penso che l’insegnamento debba poggiare su un canone stabile, su un immaginario condiviso, su insiemi già avallati di significati. Credo che la letteratura vada concepita non come un patrimonio saldo e predefinito, da trasmettere sempre con le stesse modalità, ma invece come un agglomerato di interrogativi aperti, di sensi fitti di complessità, ambiguità, contraddizioni; e vedo l’insegnamento come un continuo confronto con la loro ricchezza e problematicità, dunque come una sfida da rinnovare di giorno in giorno.
E.A: Per precisare il senso della prima domanda, forse può essere utile introdurne una seconda: a cosa serve la letteratura? Quale può essere la sua funzione oggi?
C. B: La risposta si lega inevitabilmente alla prima. La letteratura non può più essere investita di classici mandati morali e pedagogici, non può più essere vista come roccaforte dell’umanesimo tradizionale, come baluardo di principi e certezze; né tantomeno può essere nuovamente trasformata in torre d’avorio, in ideale rifugio contro l’assalto della realtà. Come è stato sottolineato più volte, anche ultimamente, va invece concepita come discorso che interagisce costantemente con quello sociale: ricordando sempre, però, che questa interazione non è rispecchiamento meccanico ma rielaborazione polifonica e stratificata, capace di mettere in gioco prospettive diverse e anche contrastanti, di dar voce all’inconscio individuale e collettivo, di intrecciare il livello esplicito con quello implicito.
E.A: Noto che nelle tue risposte non hai parlato di letteratura italiana, ma di letterature. Mi sembra una scelta molto significativa.
C. B: Penso da sempre che non abbia senso – e che non ne abbia mai avuto – limitare l’insegnamento della letteratura all’ambito italiano: siamo tornati su questo problema proprio di recente, con il numero di Between sui problemi dell’insegnamento curato da Giulio Iacoli, da Niccolò Scaffai e dalla sottoscritta, e dedicato, non a caso, a Remo Ceserani. Come hanno messo in luce alcuni manuali e antologie recenti – a partire da quello straordinario strumento di cambiamento e svecchiamento che è stato appunto Il materiale e l’immaginario di Ceserani e De Federicis – la dimensione aperta, comparatistica della letteratura va compresa e valorizzata il più possibile. Eppure, malgrado il notevole impatto di queste opere, e malgrado le tante riforme che si sono susseguite, i nostri programmi scolastici sono rimasti chiusi in un canone letterario nazionale imbalsamato da tempi remoti, e palesemente asfittico.
La cosa è tanto più illogica se si considera che soprattutto dal Seicento in poi la letteratura italiana ha sempre tratto alimento dal rapporto con le culture straniere; e che gli stessi patrioti italiani dell’Ottocento vissero più o meno a lungo in altri paesi, formando anche grazie al rapporto con pensatori e scrittori francesi o inglesi la loro fisionomia intellettuale e la loro coscienza politica: l’immaginario, piattaforma dell’unificazione dell’Italia, era per così dire tutto nutrito di esterofilia. Limitare ai confini nazionali l’approccio delle generazioni successive alla letteratura è stato quindi un clamoroso controsenso.
E.A: Oggi la scuola è sottoposta ad una egemonia culturale performativa, valutativa, economicista. In essa i valori umanistici mediati dalla letteratura appaiono sempre più marginali e residuali. Tale egemonia è talmente forte che anche dal basso, presso gli studenti, vengono a mancare i principi basilari di legittimazione dell’azione di un docente di lettere. L’insegnante di letteratura italiana non mostra come si fa un mestiere, non spiega nulla di utile, parla di un mondo che non c’è più (o non c’è ancora), che senso ha il suo lavoro oggi?
C. B: Innanzitutto terrei a sottolineare che a mio avviso da un bel pezzo si tende sempre a idealizzare eccessivamente il tempo passato e a demonizzare quello presente. Certo, alcuni problemi della scuola sono innegabilmente recenti: come l’oppressione dell’apparato burocratico, l’ossessione sulla preparazione di competenze specifiche; e il più vergognoso, il precariato a cui sono state condannate generazioni intere di insegnanti. Altri problemi invece – come la mancanza di risorse, l’inadeguatezza delle strutture, gli stipendi insufficienti (specie se commisurati all’impegno durissimo che l’insegnamento comporta) – sono problemi secolari, che le epoche e i governi più diversi hanno continuato a trascinarsi: varrebbe la pena di rifletterci.
Anche lo scarso peso riconosciuto al docente di lettere non è poi una novità: certo, la società borghese di una volta riconosceva in astratto maggior valore alla cultura umanistica; ma da un lato non le accordava poi vera importanza in molte circostanze concrete, d’altro lato (torniamo a un punto già affrontato) la vedeva troppo spesso come patrimonio cristallizzato una volta per tutte, e non sapeva affatto renderla interessante per le giovani generazioni (difatti, la situazione dei ragazzi annoiati, insofferenti dei discorsi sempre uguali dei pedagoghi, è un vecchio classico, trasversale a periodi e a culture differenti, raffigurata nelle più disparate opere narrative otto-novecentesche). E per banale che sia, va pur ricordato che fino a un certo punto quella società concepì la cultura umanistica come patrimonio di privilegiati: l’istruzione dell’obbligo, il superamento della vecchia scuola d’élite sono state conquiste del Novecento, certo laboriose, strapiene di disfunzioni, ma nondimeno fondamentali, sufficienti a non far rimpiangere il troppo mitizzato mondo che non c’è più. Il cosiddetto ottuso progressismo medio, per quanto meriti i tanti attacchi che gli sono stati e gli sono rivolti, è a mio avviso comunque preferibile al rimpianto apocalittico di un’età dell’oro che non è mai esistita. Soprattutto perché c’è progressismo e progressismo: era progressista Giuseppe Di Vittorio, quando esortava i braccianti analfabeti a rivendicare il diritto alla cultura, quando ricordava loro che solo dalle parole avrebbero avuto la dignità: scusandomi ancora per la banalità, io sto sempre da quella parte.
Circa la funzione attuale dell’insegnante di letteratura, non posso che agganciarmi ancora a quanto ho già detto: ripetendo che l’insegnamento serve a rendere la letteratura qualcosa di vivo, a metterla continuamente a confronto con le domande e le esigenze poste dall’attualità e dalla politica, e d’altra parte a mettere in evidenza le sue irriducibili peculiarità e complessità. Evidentemente poi, oggi come ieri moltissimo dipende dal singolo insegnante, dalla sua preparazione, dal suo convincimento, dal suo slancio; e d’altra parte anche dalla sua capacità di agganciare il proprio impegno individuale ai problemi collettivi, di migliorare l’istituzione e di battersi contro le sue pecche, senza vedere e senza presentare il proprio lavoro come una sfida isolata, eccezionale e irripetibile. Anche nella sfera dell’istruzione, come in quella della politica, c’è il rischio di credere troppo al carisma del singolo, e soprattutto di usarlo per rendere irrilevante il peso delle idee. Mentre l’eroismo individuale può avere importanza solo se è sostenuto da piattaforme di idee consistenti: la battaglia solitaria, ancora memorabile, e non di rado misconosciuta di don Milani, faceva leva su persuasioni d’insieme, su un vero nuovo progetto di insegnamento; certo poi, restava ugualmente troppo legata alla personalità e all’esperienza specifica del personaggio, e infatti non gli è sopravvissuta. Modificare l’apparato senza risparmio di energie, ma al tempo stesso indicando obiettivi che vadano oltre le energie soggettive, resta un impegno arduo; ma è quello da perseguire.
Ho avuto già occasione di argomentare alcune di queste opinioni su Allegoria, e in un saggio compreso nel numero che già citavo di Between: mi permetto questi rinvii perché contengono riferimenti precisi che qui ho evitato per non appesantire il discorso: beninteso rimando anche a tutti gli altri interventi compresi nei numeri menzionati.
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