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Una scrittrice tra parentesi. Note sulle ‘Rime’ di Isabella Morra a cura di Gianni Palumbo

Isabella Morra, poetessa lucana tragicamente scomparsa nel 1546, è stata una delle voci più originali del Rinascimento italiano, eppure non ha ancora ricevuto un’adeguata considerazione critica. Con il volume di Rime (Stilo 2019) da lui curato, Gianni Palumbo offre un importante tassello per colmare questa lacuna attraverso un lavoro di agevole lettura, ma al tempo stesso criticamente denso, che si compone di un intenso saggio introduttivo seguito dalla ricostruzione filologica del ‘Canzoniere’ di Isabella Morra.

Una scrittrice tra parentesi: questioni di genere e questioni di canone

Il fenomeno della scrittura femminile gode, verso la metà del Cinquecento, di una fioritura anomala, senza precedenti e destinata a restare a lungo senza paragoni. Tra il 1541 e il 1560 si contano ben trentatré edizioni caratterizzate dalla presenza di poetesse, pronte a cimentarsi nella riscrittura di un modello lirico forgiato da e sull’io autoriale maschile. Ne resta scarsa traccia nel canone contemporaneo, anche se il recente proliferare di studi volti alla riscoperta e alla rivalorizzazione di queste esperienze poetiche – a partire dal caso emblematico di Gaspara Stampa, oggi quasi unanimemente considerata la maggiore petrarchista italiana –, suggerisce che il nostro presente sia pronto ad accettare la sfida, ormai percepita come urgente, di colmare il buco nero della critica.

In questo contesto si colloca l’ancor più problematico «caso Morra». Il femminicidio della giovanissima Isabella Morra a Valsinni a opera dei familiari, seguito a poca distanza dall’uccisione anche del suo presunto amante Diego Sandoval de Castro, ha nutrito per secoli l’immaginario collettivo. Intorno alla figura della poetessa assassinata è nata una vera e propria leggenda romantica, che riecheggia in vari adattamenti letterari e teatrali del ‘mito’, fra cui spicca il dramma di Dacia Maraini. Ma se da un lato l’interesse per la triste vicenda ha contribuito a sottrarla almeno in parte all’oblio, dall’altro di certo non ha fugato il rischio di appiattire la voce della poetessa sul profilo della vittima. Tra gli altri obiettivi, il saggio di Gianni Palumbo si propone di offrire le coordinate storiche e critiche necessarie per inquadrare correttamente la personalità artistica di Morra, in modo che il lettore possa orientarsi, oltre che nella ‘leggenda morriana’, in primis nella produzione della scrittrice.

Che Isabella non fosse solo una vittima di violenza di genere ma anche una poetessa, del resto, non era chiaro nemmeno in tempi a lei molto più vicini. La sua storia è nota grazie a un libro di memorie familiari scritto dal nipote (il Familiae nobilissimae de Morra Historia a Marco Antonio de Morra regio consiliario conscripta, pubblicato nel 1629), nel quale l’autore concede ampio spazio al racconto del delitto d’onore in cui la zia trovò la morte, ma dedica alla di lei attività poetica soltanto una parentesi. Un ultimo sberleffo: come se la vocazione lirica di Isabella Morra fosse solo una postilla aneddotica, e non il tratto identitario essenziale che realmente era per l’autrice, la quale al progetto della gloria poetica, al sogno di «essere in pregio», aveva affidato tutte le sue speranze di riscatto esistenziale.

Alla miopia della tradizione Palumbo si oppone ricostruendo, con dedizione e passione rare, l’intero itinerario biografico e poetico della scrittrice, fino a delinearne il ritratto con una intensità tale da rendere la narrazione quasi più simile a un küntelsrroman che a un saggio. A tal proposito vale forse la pena ricordare che, oltre che italianista e filologo, Palumbo è autore di romanzi e poesie: e questa padronanza della scrittura anche come medium creativo risuona tutta nella vivacità espressiva dei suoi studi, capaci di coinvolgere anche il lettore profano.

Alla biografia dell’autrice segue poi una puntuale – ma, anche qui, appassionata e calorosa – disamina della poetica morriana.

Petrarca e le altre

Quello che Gianni Palumbo ricuce con amore è un corpus di versi incompleto (che si basa prevalentemente, sul piano filologico, sull’edizione di Lodovico Dolce), un progetto di Canzoniere purtroppo rimasto incompiuto, modellato sul Rerum Vulgarium Fragmenta di Francesco Petrarca, la cui eco si avverte tanto a livello di struttura quanto a livello tematico.

Isabella Morra era dunque una petrarchista. E questo, l’essere una petrarchista, comporta una serie di implicazioni letterarie anche molto distanti dall’essere un petrarchista. Ad esempio: come riconvertire il percorso amoroso petrarchesco in un codice accettabile per una poetessa? A chi attribuire la «funzione laurana»? Isabella aveva nobili origini, e le era pertanto socialmente preclusa la libertà espressiva di una Veronica Franco; non era vedova, quindi non poteva usufruire della possibilità di idealizzare un legittimo sposo come Vittoria Colonna. La poetessa risolve l’annosa quaestio sdoppiando l’immaginario laurano su due versanti che Palumbo identifica in «muse» e «contromuse»: gli elementi positivi vengono attribuiti alla figura divina o a quella paterna (le muse), gli elementi negativi alla Fortuna (la contromusa, la cui empietà si incarna nella terra natale che ha assegnato a Isabella, il borgo di Favale, rappresentato con i connotati della feritas). L’amore petrarchesco viene dunque incanalato in direzioni distanti dal modello originale, che permettono all’autrice di mantenere il suo contegno: come scrive Palumbo, «Qualsiasi elemento di sensualità, anche sottocutaneo, è infatti trascritto nel secondo amore, canonico anch’esso: il legame con Cristo».

Mi pare che da questa operazione già si intuisca il principale punto di forza della penna di Isabella Morra: la sua originalità, un’originalità che le deriva non dalla negazione della tradizione, ma dall’intelligente e consapevole attraversamento della stessa. Non a caso, uno dei testi morriani di maggiore spessore si configura come una riscrittura di Chiare, fresche et dolci acque, in cui l’autrice stessa diviene un fiume, attraverso un processo sineddotico che parte dai suoi occhi, sorgenti di lacrime (e forse anche in virtù di una certa tendenza allo smarginamento propria del temperamento lirico di Isabella).

Quel che questa indagine ci dimostra, in sintesi, è che un nuovo percorso esegetico e analitico, condotto con le consapevolezze metodologiche di una critica più moderna e più lucida, può reinserire in una prospettiva corretta e riconoscere il giusto spessore a una figura rimasta nascosta per troppo tempo nell’ombra della Storia.

Qualche considerazione provvisoriamente conclusiva

Il cuore del volume è il corpus delle Rime, corredate di note esegetiche che rendono la dimensione testuale accessibile anche ai lettori meno esperti. Penso in particolare agli studenti, che troverebbero in questa raccolta un prezioso strumento per fare esperienza, anche letteraria, dell’alterità, immergendosi in un universo poetico accantonato dal canone tradizionale. In questa prospettiva, oltre all’accuratezza filologica dell’edizione, va sottolineato il continuo confronto guidato da Palumbo con i modelli letterari, che non si limita al rimando a Petrarca o alle altre petrarchiste, ma spazia dal sostrato dantesco agli echi della lirica siciliana, tenendo conto anche della ricezione della poetessa, fino a inseguirne le tracce in Leopardi.

Ci sono saggi luminosi, che risplendono nel mucchio della produzione critica perché capaci di contagiare il lettore con la passione che l’autore nutre per il suo oggetto di studio. Credo sia questo il caso, e mi pare anche che questo volume segni un importante punto di arrivo – e magari anche, lo si spera, di partenza – nella critica su Isabella Morra. L’attenzione dell’immaginario culturale nei confronti della poetessa non si è mai spenta, e in ambito esegetico l’interesse si era sporadicamente già riacceso (almeno da Benedetto Croce in poi), ma è soprattutto sul piano testuale che si sentiva l’esigenza di un’edizione che coniugasse la cura filologica alla funzionalità didattica, e, più in generale, a una larga spendibilità anche presso un pubblico di non addetti ai lavori.

L’unico mezzo per restituire a un o una poeta l’identità di soggetto lirico, e non solo di oggetto della altrui narrazione, è ascoltarne la voce. Il volume curato da Palumbo risponde a questo intento e lo supera, rivelandosi utile non solo a contestualizzare le Rime morriane all’interno del panorama letterario italiano, ma anche a illuminare un profilo che finora ha faticato a stagliarsi, permettendo al canto malinconico di una poetessa di risuonare attraverso i secoli, fino a raggiungere una sensibilità finalmente in grado di accoglierla.

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