
“L’estate breve” di Enrico Macioci
Pubblichiamo un estratto da “L’estate breve” di Enrico Macioci uscito in questi giorni per TerraRossa Edizioni. Ringraziamo l’autore e l’editore per la gentile concessione.
Ora, poiché durante questi anni sono divenuto uno scrittore, un romanziere, uno che ha la fortuna e la sfortuna di lavorare con le parole, ora voglio usare le parole per metterci dentro i ricordi e conservarli il più a lungo possibile; voglio ricordarmi l’odore dell’erba appena tagliata, specie nel tardo pomeriggio quando veniva raccolta in mucchi, ciascun mucchio a un angolo dell’aiuola con le nuvole dei moscerini a danzarci sopra; voglio ricordarmi il cimitero dei cuccioli che noi bambini creammo sotto due cipressi della recinzione, composto di tante piccole tombe, tante coroncine di sassi chiari e qualche rametto e qualche fiore che presto seccava, svaniva nel caldo; voglio ricordarmi il succo bianco negli steli che crescevano accanto alle tuie e che pareva latte e somigliava al peccato; voglio ricordarmi i gatti randagi, specie uno guercio e intrepido, marrone pezzato di grigio, grosso quasi come un cane di taglia modesta, furbo, aggressivo; le serpi che talvolta sconfinavano dalla campagna intorno; gli insetti presso i lampioni accesi, la notte, come pazzi; le stelle nel cielo già alle sette di sera, un fioco prato d’ostie; la rete sul ballatoio soprastante i garage, dove si arrampicavano le lumache; l’odore polveroso dei garage e quello umido delle cantine; le scolopendre nelle crepe e nei buchi; il pioppo dall’altra parte della strada, subito prima del campetto, coi chiodi nel tronco in modo da facilitare l’arrampicata agli audaci; la luce sulle pareti del palazzo, dapprima pienissima, poi piena, poi più timida, laterale, succhiata via piano; le ombre pallide degli alberi sull’erba, prima di cena; il fumo degli sterpi arsi dai contadini, un aroma nostalgico, indelebile; le gambe delle ragazze, quei lampi di carne, e la mia eccitazione quando Emilia, Ada, Rebecca, Valeria o Miriam mi tiravano giù i pantaloni durante la conta, se toccava a me cercare gli altri a nascondino, e poi ridevano; l’ansia di trovare un luogo che avrebbe richiesto un lento e avventuroso avvicinamento alla tana; la gioia improvvisa che rischiava di travolgermi; le volte in cui da piccolo me la facevo sotto per l’eccitazione e mi saliva al naso un odore acidulo, e affiorava sul cavallo dei pantaloni una macchia scura ma non salivo in casa a cambiarmi, non rinunciavo nemmeno a un minuto d’estate, preferivo rischiare che mi vedessero bagnato, correvo chino in avanti, la schiena rigida, il volto idiota, e mi stendevo a pancia in giù sopra il bordo di un muro, meglio se caldo, aspettando che la macchia si asciugasse (se restava un poco di alone, pazienza); voglio ricordarmi la gratitudine di esserci, la sazietà del corpo e dell’anima, un’interezza mai più provata, come se tutto fosse perfettamente integro e giusto; i ragazzi e i loro dorsi magri, simili a giunchi; le ragazze e il loro corpo in espansione; i capelli al vento; il vento tra le foglie; le foglie gremite di coccinelle, di vene; la scia bianca di un aereo nel grande blu (dove andrà?, mi chiedevo, e dopo due secondi me ne dimenticavo); voglio ricordarmi la voglia, il desiderio, l’amore e l’odio, la lontananza e la fratellanza, il rispetto e il dispetto; le liti; le riappacificazioni; la valle, i dirupi, le vigne, gli orti; la casupola di uno sbandato in fondo al bosco, composta di lamiere; la conca del campetto da cui salivano urla e ogni tanto qualche palla, a campanile; voglio ricordarmi mia madre giovane, mio padre giovane, i miei amici ancora bambini, mia moglie ancora da conoscere, i miei figli ancora da concepire; voglio ricordarmi questo brano che sto scrivendo, in attesa dentro il futuro che è adesso, che è qui; voglio ricordarmi quello che c’era e che non c’è più.
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