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diretto da Romano Luperini

 Perché leggere “Gli anni perduti” di Vitaliano Brancati

Un giorno di settembre, Leonardo Barini lasciò Roma, ove dirigeva la rivista letteraria Campoformio, e fece ritorno a Natàca, città del Mediterraneo e sua città natale.
A Roma aveva sofferto di vertigini e capogiri, la salute s’era guastata. Ma sarebbero bastati venti giorni di riposo e di dieta in seno alla famiglia, per guarirsi completamente. Senza dubbio, si trattava di una cosa da nulla. Fra venti giorni, sarebbe ripartito per Roma.
Così almeno egli diceva, mentre si tirava le coperte fin sopra gli occhi, e la madre chiudeva gli scuri.

(V. Brancati, Gli anni perduti, vol. I Opere complete, Bompiani, 1959, pag. 7).

Oggi sappiamo che le prime due righe sono la trasposizione, nella trasparente finzione del romanzo, dell’evento biografico: nel 1934, anno di inizio della scrittura de Gli anni perduti come meticolosamente annota in calce all’ultima pagina –, Vitaliano Brancati lascia l’incarico di caporedattore di Quadrivio, “Grande Settimanale Letterario Illustrato di Roma”, diretto da quel tristemente noto Telesio Interlandi, poi direttore della Difesa della razza, per tornare a Catania, città in cui non era nato, ma in cui la famiglia si era trasferita nel 1920, quando lui era tredicenne. Natàca, del resto, più che nascondere il nome della città reale, lo vuole evocare come rovescio: letto al contrario, il nome rimanda alla probabile origine greca (Katàne) del definitivo Catània. La città capovolta diventa il cronotopo reale, Natàca è la chiave dell’allegoria della città, in cui si trascina stancamente l’uomo (e non solo nell’anno XII dell’era fascista). Brancati, piuttosto che nascondere, esibisce la finzione, infatti rivela anche ai più distratti, e pare ce ne siano ancora tanti, che «Vincenzo Bellini, come tutti sanno, nacque a Natàca» e «adesso […] ricorreva il centenario della sua nascita» (pag. 141). Siamo dunque nel 1901, e poiché «eran passati tredici anni da quando Leonardo, Giovanni e Rodolfo giunsero a Natàca» (p.133), la vicenda si è aperta nel 1888. Secondo una predilizione che attraversa la sua produzione, Brancati sposta nel passato quello che ha da dire sul presente: il suo, certo, di scrittore che nel 1934 entra in crisi nella sua identità politica ed elabora gli anticorpi antifascisti, ma, senza poterlo prevedere con esattezza, racconta anche il nostro presente, costruito su tanti anni perduti. Noi, come lui, non ci sentiamo tanto bene, e Leonardo soffre di «capogiri» e «vomiti».

Ma la salute non era poi così guasta, e i capogiri non erano stati tali da spiegare un ritorno così precipitoso. La verità era un’altra; le verità era questa: che d’un tratto, senza gravi ragioni, la gioia era finita nel cuore di Leonardo. La bella luce, che illuminava tutte le cose, e dava un senso anche alle sedie e al calamaio, s’era spenta. […] Se non fosse tornata la luce, se non fosse tornata la gioia che stava nel cuore senza ragione, così come adesso era passata senza ragione, egli non si sarebbe mosso da quel letto, da quella casa! Gli altri potevano vivere tranquillamente tutta la vita, in un buio simile; egli, invece, non era capace di fare un passo, e si sentiva morire. (pagg.7-8)

Perché lo scirocco soffia a Natàca come a Venezia

L’ambientazione siciliana ha nuociuto alla comprensione della dimensione letteraria del testo, in cui troppo spesso si è creduto di riconoscere, magari per iperbole, la genuina sicilianità catanese. La statura di Brancati è stata misurata sulle sue capacità di registrare la stanca e provinciale dimensione isolana, tutt’al più colorita da una sensibilità comica, non autoctona, poiché mutuata da Gogol’.

E quello scirocco che attraversa Natàca, e fa sbattere le persiane, e trascina le foglie, e opprime una folla di uomini neri, che cammina lentamente con le mani in tasca su e giù per il corso, è stato, per tanti lettori, soltanto il vento soffocante che arriva infuocato dall’Africa. «Sì, era il Sud», scrive Brancati.

Ma anche Gustav von Aschenbach, in La morte a Venezia (prima edizione italiana nel 1930), percepisce all’improvviso la mancanza di «quell’impronta di gioia, che è fonte di gioia» e decide di partire, di lasciare Monaco, per dirigersi verso l’«accogliente Sud…». E quando sarà a Venezia, lo scirocco diventerà una presenza centrale nel racconto. Anche il personaggio di Mann non riesce a staccarsi dalla città, come Leonardo, come Giovanni e Rodolfo, che pensano di fuggire e non possono.

Venezia e Natàca hanno quelle caratteristiche meridionali che identificano il luogo come mediterraneo, abitato da strani ed inquietanti personaggi. C’è nel Sud qualcosa di strano, che non potrebbe essere altrove: Mann racconta una storia tragica, di un erotismo intriso di morte, Brancati racconta il fallimento dell’attivismo, dell’azione che dovrebbe spazzare via la noia dell’esistenza. Entrambi non avrebbero potuto raccontare la storia che volevano raccontare se non l’avessero ambientata in una città del Mediterraneo: è nel Sud che accade qualcosa di misterioso, di improbabile, soltanto quaggiù è possibile che si elabori un sogno e che si materializzi un’illusione, una presenza vaga, o un’epifania. O forse è solo l’effetto del vento del Sud: lo scirocco scioglie le membra ed impedisce di pensare. Per questo si entra in un’altra dimensione, nell’altro mondo che è la letteratura. Il Sud è la chiave dell’allegoria della città capovolta. Non bisogna credere, però, che quella di cui parlano gli scrittori sia la città vera, con i suoi veri abitanti, se non vogliamo cadere nell’inganno della fata Morgana.

Perché bisogna ammazzare il tempo

Una volta imparato a far passare un anno, si diventava sempre più bravi nell’arte di ammazzare il tempo. Sì, non ci si diverte, sì, ci si annoia. Ma c’è uno strano, amaro e indefinibile divertimento in quel non divertirsi e annoiarsi sempre allo stesso modo. […] Tutto aiutava a rimanere a Natàca, anche quei discorsi sui viaggi, che a poco a poco diventavano cari, e quel desiderio di andar via da Natàca che, partendo veramente, non avrebbe trovato più nulla capace di riempire il vuoto lasciato da lui. E poi, quando si è acquistata quella perizia nel far passare il tempo, non si può facilmente rinunciare a lei, che è l’espressione più perfetta delle proprie qualità morali e del proprio ingegno, e andare in un luogo in cui quella perizia sarebbe destinata a morire, dato che il tempo, in quell’altro luogo, ci pensa lui a passare. (pag. 53)

Leonardo e i suoi amici Giovanni e Rodolfo erano tornati a Natàca, annunciando che presto, prestissimo, sarebbero ripartiti. E, giorno dopo giorno, passano i mesi, un anno intero, e trascorre il tempo ciclico sempre uguale a se stesso, nell’attesa che accada qualcosa che dovrebbe accadere. Ma intanto, come sbraita Giovanni, «Non si riesce a partire da Natàca! Siamo rimasti qui! Moriremo qui! Questa città è una trappola. Ci ha presi, non ci lascia più!» (pag. 60) Invece, accade qualcosa di inaspettato, arriva in città il professor Buscaino, che dal finestrino del treno inorridisce di fronte a tante «case piatte come scatoloni… Nulla di verticale…» (pag. 64) e subito immagina di costruire una torre che consenta di guardare tutto dall’alto. Con spirito pratico, come accade in America, da cui sembra provenire Buscaino ed a cui pare dovrebbe tornare, l’idea si trasforma in business: pensa a quanti siano i natachesi e quanto si possa ricavare dalla torre panoramica con scala esterna:

“Siete trecentomila, trecentomila ottime pecore. Pagherete due lire cadauno per salire sulla torre… Senza tener conto di chi vorrà salirvi più di una volta, e dei forestieri… Ci metterete nelle mani seicentomila lire. Grazie, vi ringrazio!… Noi avremo speso, nella costruzione dell’edificio, sì e no centomila lire. Il guadagno è veramente enorme… Fermerebbe non un uomo che si reca in America, ma cento anime che vanno in paradiso…” (pagg. 65-6)

Buscaino progetta di fermarsi due mesi, il tempo di trovare i finanziatori privati per la sua impresa, e di incassare le 600.000 lire, ma le difficoltà si accavallano dal momento che chi ha più denari appartiene alla popolazione natachese più stramba e meno affidabile. I tre amici vengono coinvolti nell’impresa e sembra che la loro vita abbia finalmente uno scopo e un senso. Insieme ad altri giovanotti c’è Nello Tommasini, il «capitano della brigata» di quei «bricconi», che «accorrevano ove fosse odore d’ingegno poco poco marcio», specialista nell’ «impadronirsi di qualunque cittadino mostrasse una piccola mania o un desiderio vago di impazzire», per «sottoporlo a tali e tante prove, scherzi ed emozioni, finché un bel giorno il poveruomo non gridasse di saper volare e cercasse di lanciarsi dal balcone, per andare, diceva lui, in su» (pag. 32). È Tommasini che mette a repentaglio, oltre alla salute mentale dei malcapitati, anche il buon esito del reperimento di fondi. Eppure, dopo mille imprevedibili impedimenti, i soldi si raccolgono: i lavori di edificazione della torre possono iniziare. Ma intanto passano gli anni: «dieci da quando vi giunse Buscaino, sette da quando furono gettate le fondamenta della torre» (pag.133) ed ormai manca un solo mese al completamento dei lavori. Leonardo, Giovanni e Rodolfo pensano a cosa faranno con i soldi che guadagneranno e progettano i loro viaggi per terra e per mare. Infine la torre svetta nel panorama di Natàca, e Buscaino e i suoi amici preparano l’inaugurazione, con tanto di dolci e salami e agnellini e fiori e frutta. Manca soltanto «il permesso delle autorità, perché la torre potesse venire aperta al pubblico» (pag.162). Arriva invece dal Municipio una ingiunzione a Buscaino, passibile di multa e di arresto, se avesse consentito l’accesso al pubblico. Nell’estremo tentativo di superare l’ultimo ostacolo, Buscaino si reca al Municipio, riesce a parlare con l’impiegato che gli ha inviato il divieto, prova a perorare la sua causa, finché l’uomo non gli consegna «un rettangolino giallo»

Questi [Buscaino], al solo vedere la forma e il colore del foglietto, il modo in cui tremava fra le dita del piccolo uomo, gli stemmi di cui era fregiato, i bolli di cui era bollato, la polvere di cui era coperto, sentì che la sua sventura era irreparabile e che l’ordine emanato contro di lui aveva un’origine quasi divina. È proibito, diceva, in sostanza, il foglio, è proibito assolutamente aprire al pubblico luoghi elevati, come torri panoramiche, grattacieli, ecc. perché la esperienza insegna che presto essi diventano mezzo e fomite di suicidio. (pagg. 167-8).

Buscaino, che si scopre non essere mai stato in America, riesce a lasciare Natàca. Lui soltanto, gli altri rimarranno, invece, trascinandosi dal letto alla poltrona, tirando a far tardi nei caffè, o nel vento del giardino pubblico, nel tempo sempre uguale che ancora oggi avvolge Natàca.

Perché un ponte val bene una torre 

Catania ha avuto una torre (in realtà era una cisterna), collocata in una tenuta agricola: la torre Alessi, che è stata evidentemente il modello della torre panoramica di Natàca: Brancati ne riproduce in dettaglio le caratteristiche nell’apertura del cap. IV della Terza parte.  Tuttavia, risulta evidente che la torre ideata da Buscaino non ha niente a che vedere con la torre Alessi.

Come sembra naturale e bene intonata al panorama di Natàca, questa torre che gli cala sopra come il manico sul piattello, ora che di essa si conosce con esattezza che non serve a nulla! Davvero, senza questa torre, Natàca avrebbe in meno alcunché d’indispensabile come lo è il naso per un volto!… (pag.188)

Un’opera assolutamente inutile che si erge come un monito su Natàca, ne diventa l’emblema. Soldi, lavoro, fatica, anni perduti. E se i personaggi perdono con gli anni la giovinezza e la voglia di partire, l’unica che alla fine sembra recuperare la gioia perduta di Leonardo è Lisa Careni, che di Leonardo aspettava di diventare fidanzata e moglie.

La letteratura, si sa, si nutre di ciò che non esiste e gli scrittori evocano i loro personaggi nelle stanze che frequentano, sotto i cieli che conoscono, per accoglierli nella loro mente come si farebbe con appartenenti alla propria famiglia o con amici che si recuperano nei ricordi. Gli scrittori, si sa, ricordano i loro personaggi prima di scrivere. Brancati scrive la sua storia di una città in cui non può succedere nient’altro che invecchiare, in cui non cambia mai niente, se non la morte accidentale di qualcuno rimpiazzato presto da qualcun altro sulla panchina del giardino pubblico, al caffè, o sul corso. In questa trappola da cui non si può fuggire, sembrano incastrati ancora oggi i siciliani senza strade, senza acqua, senza scuola, senza asili, senza giustizia, in cui tutto perennemente sembra impossibile da modificare e nei decenni rimangono eterni i cantieri sull’autostrada Catania – Palermo, immutati quelli sulla Messina – Palermo, perennemente in attesa quelli della Catania – Ragusa… Ed Agrigento ha l’acqua razionata da quando l’isola è stata abbandonata dagli Arabi… Dati storici e cronaca della realtà. A Natàca, almeno, la torre panoramica è stata costruita… Allora, quando un siciliano legge Gli anni perduti di Brancati, non può che ridere con quel sorriso di consapevolezza, di amara furbizia, dell’Ignoto marinario di Antonello da Messina. E se guarda sullo Stretto, attraversato dai traghetti, pensa che Buscaino avrebbe subito immaginato un ponte e ne avrebbe calcolato i vantaggi economici… Oggi Brancati avrebbe forse scritto dell’edificazione di un ponte sullo stretto. Un ponte inutile. E sarebbero stati comunque Anni perduti.

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