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diretto da Romano Luperini

Contro la sindrome legalitaria. Ancora sui fatti di Pisa

I fatti di Pisa dello scorso 23 febbraio, quando un drappello di studenti medi è stato manganellato dalla Polizia in una delle vie di accesso a Piazza dei Cavalieri, nell’ambito di una serie di iniziative a sostegno della Palestina, ha aperto nel paese un dibattito che probabilmente per la prima volta dopo molto tempo — forse dai tempi della pandemia — ha toccato da vicino anche i docenti e li ha spinti a una presa di posizione pubblica e collettiva. In moltissime scuole italiane, non solo a Pisa, gli insegnanti hanno sentito il bisogno di esprimere, anche come educatori, il loro punto di vista su quanto accaduto, diffondendo note di solidarietà nei confronti degli studenti pisani. Su questo tema in molti si sono confrontati, dai docenti più sensibili alle questioni politico-sociali, a quelli magari solitamente più defilati. Di là dalle differenze formali, i comunicati hanno concordato tutti su un punto: la condanna della reazione spropositata e inadeguata della Polizia.

Eppure questa è solo una faccia della medaglia. Ce ne è anche un’altra. Tra i docenti, come nel paese, c’è chi non si è sentito toccato da quanto accaduto, al punto di non condannare l’azione della Polizia e di non esprimere solidarietà e sostegno agli studenti. Infatti ci sono state scuole dove, nonostante l’impegno di alcuni, non si è riusciti a produrre e sottoscrivere alcun documento. Perché? Gli argomenti addotti a supporto di queste prese di posizione fanno riferimento sostanzialmente al profilo di illegalità che avrebbe caratterizzato il corteo degli studenti medi. Per cui si è detto: condanna della violenza, ma condanna anche del comportamento non conforme alle regole tenuto dai manifestanti, ponendo così sullo stesso piano, tra l’altro, soggetti che sullo stesso piano non possono essere posti. E contestando in questo modo a un minore ciò che non si ha la forza di esigere, in quanto suo precipuo dovere, da un rappresentante della legge. Ma andiamo con ordine.

Intanto andrebbe incidentalmente osservato che se non fosse stato per azioni contrarie alle norme vigenti (cioè illegali) in epoche passate della nostra storia, certamente oggi non staremmo tanto a vantarci della nostra democrazia, la quale non è così tanto evoluta da potersi ritenere un punto di arrivo. La legalità non dovrebbe essere considerata un valore assoluto, nemmeno nelle democrazie compiute, come pretendono di essere quelle occidentali, poiché esistono anche leggi ingiuste e poiché la democrazia è sempre perfettibile. Senza che queste osservazioni vengano scambiate per un’apologia dell’illegalità, banalmente ciò che oggi è illegale magari domani non lo sarà. E viceversa. Oggi, a quanto pare, è perfettamente legale che lo stato italiano partecipi a guerre per procura, invii armi, sostenga stati che compiono stragi (se non li vogliamo chiamare genocidi) senza che la popolazione sia direttamente interpellata. Magari in una democrazia più matura questo diventerà illegale. E il 23 febbraio le presunte azioni illegali e di disobbedienza dei manifestanti andavano guarda caso proprio a mettere il dito in questa putrida piaga della nostra democrazia. Ma torniamo appunto a Piazza dei Cavalieri.

Il primo profilo di illegalità contestato agli studenti è stato il mancato preavviso della manifestazione. Tuttavia, si tratta di un punto alquanto controverso. La manifestazione, infatti, era stata annunciata e ampiamente pubblicizzata dagli organizzatori, tanto è vero che, se così non fosse stato, la Questura non avrebbe potuto predisporre il servizio d’ordine che ha predisposto. Se vogliamo quindi guardare alla sostanza dei fatti, la Questura sapeva e quanto bene della manifestazione. Inoltre, bisognerebbe verificare in termini legali che cosa preveda il nostro ordinamento come sanzione in caso di mancato preavviso di una manifestazione e a chi vadano comminate queste sanzioni, se agli organizzatori o ai partecipanti, e come si possa distinguere tra organizzatori e manifestanti, e così via.

Il secondo profilo di illegalità rilevato è che gli studenti hanno tentato di forzare il blocco della Polizia all’accesso a Piazza dei Cavalieri. Si tratta anche in questo caso di un argomento molto debole. Il tentativo di forzare un blocco è un gesto politico alquanto frequente nelle manifestazioni di piazza e la Polizia ha a disposizione un ventaglio di opzioni per reagire. Anzi, si può anche affermare che è il modo in cui la Polizia reagisce al tentativo di forzare un blocco che qualifica la Polizia stessa e, con lei, il regime democratico che rappresenta. In primo luogo, in questo caso, sono rimaste incomprensibili ai più le ragioni di sicurezza che avrebbero sconsigliato di far passare gli studenti, anche se questo hanno ritenuto opportuno i rappresentanti delle forze dell’ordine presenti sul campo. Volendo comunque postulare che, per imperscrutabili motivi, il blocco fosse necessario, la Polizia avrebbe potuto aprire una trattativa con i manifestanti e concordare una soluzione di compromesso. Se anche ciò fosse stato sconsigliabile per ragioni di sicurezza, o impossibile, la Polizia avrebbe certamente potuto respingere i manifestanti, anche usando gli strumenti in sua dotazione. Ma non è esattamente questo ciò che è accaduto a Pisa. È constatazione di comune buon senso che un poliziotto sappia come usare un manganello, senza causare ferite gravi. Visto da fuori — ma questo certamente saranno le indagini a chiarirlo — quello che è accaduto a Pisa sembra somigliare più a un pestaggio che a una carica condotta in modo corretto. Alla faccia della tanto sbandierata legalità.

A chi non ha voluto prendere posizione a sostegno degli studenti, quindi, sfugge che il punto essenziale non è il mancato preavviso, la forzatura del blocco, e neppure la legittimità della reazione della Polizia, ma l’assoluta inadeguatezza di questa reazione, specie nella gestione degli strumenti che i poliziotti hanno in dotazione. Con questa plateale e documentata inadeguatezza, nulla c’entrano i comportamenti precedentemente assunti dai manifestanti. A meno che i manifestanti non siano armati e non attentino all’incolumità fisica degli agenti, sotto nessuna condizione un minorenne — ma anche un adulto — può ritrovarsi con la testa spaccata da un tutore della legge. Se non si riafferma questo principio basilare, che dovrebbe essere ovvio ma che evidentemente ovvio non è, si scivola su una china pericolosissima. È quanto accaduto, ad esempio, a Civitavecchia, importante città portuale in provincia di Roma, la scorsa domenica. A seguito di un comunicato nel quale i docenti del liceo classico “Guglielmotti” hanno espresso solidarietà agli studenti di Pisa, un gruppo di genitori, che si è firmato “Coordinamento Genitori per la Democrazia”, ha diramato una nota stampa nella quale esprime solidarietà agli agenti di polizia e in cui si legge testualmente: «Da questi insegnanti ci saremmo aspettati un ben diverso atteggiamento. Infatti, come stanno accertando le indagini, che speriamo siano rapide, le forze di polizia sono state oggetto di sputi, ingiurie e altro». Come se queste circostanze potessero giustificare quanto accaduto dopo. Si tratta di aberrazioni del pensiero che destano preoccupazione, che vanno stigmatizzate e combattute, perché attraversano il paese, e purtroppo, cosa ancora più grave, anche una parte del corpo docente. E questo fa particolarmente male. Per gli sputi ai poliziotti esiste nel nostro ordinamento il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, che non prevede come pena teste spaccate da un manganello.

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