Dalla parte sbagliata della storia. Gaza e noi
1. «Un caso da manuale di genocidio»
Che a Gaza sia in corso un genocidio è ormai negato solo dai politici e dai mass media occidentali. Il resto del mondo, che vi assiste in diretta, ha pochi dubbi in proposito, soprattutto dopo il procedimento avviato dal Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja contro Israele per violazione degli obblighi derivanti dalla Convenzione sulla Prevenzione e Repressione del Delitto di Genocidio. C’è persino una voce di Wikipedia dedicata al tema, ben documentata. A usare tra i primi l’impegnativo termine di “genocidio” sono stati gli storici della Shoah, molti dei quali israeliani, come Raz Segal (sua è l’espressione «a textbook case of genocide»), Omer Bartov e, in Italia, Enzo Traverso. Di un «genocidio progressivo», in atto ormai da decenni, parla da anni Ilan Pappé, il maggiore storico della Palestina moderna, anch’egli israeliano. Le politiche di segregazione e oppressione, persino di disumanizzazione, che hanno preceduto i bombardamenti di oggi sono ampiamente documentate, per esempio dal recente volume J’accuse della Relatrice speciale delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati Francesca Albanese. Save the Children denuncia che in questi tre mesi a Gaza è stato ucciso «l’1% della popolazione infantile totale». E l’ONU avverte che quasi due milioni di persone imprigionate nella striscia si rischiano la morte per fame.
Sarà forse per aver letto troppo Brecht, ma talvolta mi accade di rivolgermi mentalmente a quelli che chiamava «i nati dopo di noi», i Nachgeborenen. Immagino che mi – e ci – chiedano conto dei «tempi bui» in cui viviamo, e che ci pongano la stessa domanda che Walter Kempowski ha fatto ai suoi connazionali tedeschi a proposito del genocidio degli ebrei d’Europa: «Lo sapevate?». Domanda nella quale ne echeggia inevitabilmente un’altra: «E cosa avete fatto?»
Tutti sappiamo – se vogliamo sapere – che cosa sta succedendo in Palestina, e non da oggi. Abbiamo ascoltato i racconti di amici che sono andati per turismo o in pellegrinaggio in Terrasanta, o che hanno lavorato in ONG sul posto; abbiamo visto Private di Saverio Costanzo, o letto la Storia della Palestina modernadi Ilan Pappé; e sui fatti più recenti abbiamo notizie abbastanza accurate almeno da qualche giornale italiano, come «il manifesto» e «il fatto quotidiano», e da una miriade di testate giornalistiche di tutto il mondo, da «Haaretz» al «Guardian», da Al Jazeera a Novaramedia, per non parlare dei social.Ma a scendere in strada a manifestare è solo una coraggiosa minoranza, mentre la politica e i mass media raccontano tutta un’altra storia. Perché?
2. Complicità e silenzio
Non intendo qui criticare Israele. Lo fanno già, come è giusto che sia, i suoi cittadini (come Avraham Burg o Eyal Weizman), gli ebrei della diaspora (come Masha Gessen o le associazioni ebraiche di tutto il mondo, da Jewish Voice for Peace e If Not Now negli Stati Uniti a Jüdische Stimme in Germania, dal Jewish Network for Palestine in Gran Bretagna al Laboratorio ebraico antirazzista in Italia), politici e intellettuali che conoscono una questione così complessa molto meglio di me. Il mio auspicio, quando mi capita di esprimerne uno personale, è che si arrivi a uno stato unico, binazionale, con cittadinanza e diritti uguali per tutti e forti tutele per tutte le minoranze. È la one-state solution per cui si battono da tempo gruppi congiunti di israeliani e palestinesi e che ha il supporto di molti intellettuali da Noam Chomsky a Edward Said, da Rashid Khalidi a Yanis Varoufakis. Il mio timore, invece, è che il genocidio di Gaza, oltre a causare sofferenze indicibili alla popolazione palestinese, segni il passaggio di scala dall’antisemitismo occidentale, di origine cristiana, a un antisemitismo globale. Sono profondamente preoccupato per le ripercussioni che quello che sta accadendo potrà avere sui cittadini di Israele, sugli ebrei della diaspora, sui miei amici.
Scrivo queste righe per riflettere non su Israele, ma su di noi, sul nostro ruolo in questo disastro. Con “noi” intendo qui l’Europa, e il cosiddetto “occidente”, che da tempo ormai coincide quasi senza residui con un’alleanza militare, la Nato. Vediamo tutti che, al di là di qualche dichiarazione formale per salvare le apparenze, i nostri governi – quello italiano, l’UE, gli USA – hanno ingaggiato un braccio di ferro con il resto del mondo per garantire a Israele di proseguire indisturbato la sua mattanza. Affermando di sostenerne il “diritto alla difesa” appoggiano di fatto il governo più a destra che Israele abbia mai avuto, guidato da un premier sotto processo per corruzione e ampiamente contestato nel paese, e formato da partiti che predicano apertamente il razzismo, la pulizia etnica, la deportazione e lo sterminio (si vedano le scioccanti Expressions of Genocidal Intent against the Palestinian People by Israeli State Officials and Others raccolte dal Sudafrica: p. 59 e sgg.). Invece di chiedere un cessate il fuoco, impediscono anche all’ONU di farlo, ponendo il veto su una misura di elementare umanità. Invece di chiamare il governo israeliano ad assumersi la responsabilità dei propri crimini, inviano i loro rappresentanti a esprimere solidarietà “incondizionata” e respingono pregiudizialmente le accuse formulate dal Sudafrica alla Corte dell’Aja. Invece di intervenire a sostegno della popolazione di Gaza, stremata e affamata, tagliano i fondi all’UNRWA, l’agenzia ONU da cui in larga misura dipende la sua sopravvivenza. Invece di invocare una moratoria sulle armi, continuano a inviarne, per miliardi di dollari (e a speculare sulla guerra arricchendo il complesso militare-industriale). Invece di far valere il diritto internazionale, forse il solo strumento in grado di fornire una via d’uscita dal conflitto, si adoperano attivamente per boicottarlo, come ha recentemente osservato Agnes Callamard, di Amnesty International. Del genocidio in corso non sono solo impotenti spettatori, sono pienamente complici.
Di fronte a tutto questo l’opinione pubblica italiana, come quella dell’intero occidente, appare paralizzata, come soggiogata da un assurdo sortilegio. Molti sono disposti ad ammettere, nella conversazione privata, di essere scandalizzati da quello che sta accadendo, ma pochi reagiscono, fanno qualcosa. Che cos’è che ci rende così inermi? Lo sconforto per lo scollamento sempre più evidente della politica e dei mass media da ciò che realmente pensano e vogliono i cittadini? O l’accusa strumentale di antisemitismo mossa da Israele e dai suoi sostenitori – empio insulto alla memoria delle vittime del genocidio nazista – a chiunque osi formulare una critica al governo Netanyahu?
Queste due cose pesano certo molto. Dopo la strage del 7 ottobre i media occidentali hanno messo in atto la stessa strategia già collaudata in altre circostanze: costruire rapidamente una narrazione ufficiale e colpire in modo estremamente aggressivo ogni forma di dissenso. È stato probabilmente Moni Ovadia, che già all’indomani della strage ha espresso posizioni molto critiche nei confronti di Israele, il primo a essere aggredito dalla «canea» (la parola, molto appropriata, è dello stesso Ovadia) sui giornali e nei talk show. Conosciamo bene il copione: attacchi politici, richieste di dimissioni, insinuazioni mafiose sulla propria vita privata, e, dulcis in fundo, il marchio d’infamia coniato per l’occasione: «antisemita» (per ovvi motivi era problematico dare dell’antisemita a Ovadia, e di conseguenza il marchio d’infamia è stato coerentemente riformulato in quello di «traditore»). Negli ultimi anni questo trattamento è stato ripetuto in modo sempre più sistematico, prendendo a bersaglio ora un Alessandro Orsini a proposito dell’Ucraina, ora una Elena Basile, un Tomaso Montanari o uno Zerocalcare a proposito della Palestina. Persino il Papa e il Segretario generale dell’ONU, ormai, vengono regolarmente attaccati o silenziati.
Stessa sorte per le prese di posizione collettive. All’inizio di novembre ha cominciato a circolare in rete un Appello da parte di accademici e accademiche italiane per chiedere un’urgente azione per un cessate il fuoco immediato e il rispetto del diritto umanitario internazionale. Le firme, inclusa la mia, sono salite rapidamente fino a 4.500, ma la cosa non ha trovato eco sui mass media finché non sono cominciati gli attacchi volti a delegittimarla. Le critiche si sono appuntate soprattutto sul fatto che l’appello invitava, tra molte altre cose, a boicottare le università israeliane per fare pressione sul governo Netanyahu. È vero che il boicottaggio, se applicato alla cultura, è una misura problematica: ma sappiamo anche che l’università non è solo Dante o Goethe, è anche, e oggi soprattutto, ingegneria, nuove tecnologie, spesso applicate agli armamenti (è proprio questo il caso di Italia-Israele), e del resto una petizione non è una legge, ma un semplice invito, che si può tranquillamente disattendere.
Ma ormai la «canea» si è scatenata: «il Foglio» comincia gli attacchi ad personam con un articolo dal significativo titolo Nei CV dei prof. che hanno siglato l’appello per il cessate il fuoco c’è tanto odio antiisraeliano, lo «Huffington Post» titola Il folle boicottaggio dei 4.000 accademici contro Israele, «Panorama» L’antisemitismo peggiore è quello dei docenti universitari italiani, il sito della Comunità ebraica di Milano Antisemitismo sui banchi di scuola italiani, e su La7 Maurizio Gasparri cita l’appello solo per insinuare: «C’è antisemitismo negli atenei italiani?». Così, con quattro articoletti, un paio di passaggi televisivi e tanto silenzio, un pugno di giornalisti e politicanti riesce in quattro e quattr’otto a screditare e ammutolire la voce di migliaia di docenti universitari: nessuno entra nel merito della richiesta di cessate il fuoco, e a metà novembre non se ne parla già più.
Per contro, nessuno sui mass media – e nemmeno gli accademici stessi, che com’è naturale sull’appello sono a loro volta di opinioni diverse – fa osservare che Israele ha raso al suolo tutte le università di Gaza, almeno sei, tra cui un paio di medie dimensioni, con quasi 20.000 studenti, e ben connesse con la comunità scientifica internazionale, come l’Università Islamica, fondata nel 1978, e l’Università Al-Azhar, fondata nel 1991; che ha ucciso almeno 94 docenti universitari (tra cui il fisico di rinomanza internazionale Sufyan Tayeh e l’anglista e poeta Refaat Alareer) e centinaia e centinaia di studenti; che 281 scuole statali e 65 gestite dall’UNWRA sono state parzialmente o completamente distrutte; che anche infrastrutture culturali fondamentali come la Biblioteca Comunale di Gaza, il Centro Culturale Rashad al-Shawa, e quasi sicuramente anche la Biblioteca intitolata a Edward Said, contenente parte del suo lascito librario, sono in macerie. Dal momento che Israele impedisce l’accesso di giornalisti alla striscia è difficile perfino trovare informazioni in proposito. E naturalmente nulla di tutto questo arriva sui media italiani, e a stento su quelli occidentali.
3. La nostra guerra
Ma al di là della parzialità dei media e delle accuse di antisemitismo c’è qualcos’altro, di più profondo. Quella che si sta combattendo è a tutti gli effetti una nostra guerra. Non solo perché è una delle molte guerre scatenate dall’occidente, direttamente o per procura, e perché i governi occidentali sono schierati unanimemente e acriticamente con Israele. Ma soprattutto perché Israele è parte integrante dell’occidente.
L’esistenza stessa di Israele si deve all’antisemitismo degli europei. L’antisemitismo non ha origine nell’islam ma nel cristianesimo: senza l’atavico pregiudizio dei cristiani contro il «popolo deicida», senza la secolare escalation criminale culminata nello sterminio degli ebrei d’Europa – che ha forgiato per sempre il nostro patrimonio culturale, e persino linguistico: ghetto, pogrom, soluzione finale, genocidio – il progetto di uno stato ebraico che mettesse un intero popolo al riparo dalle persecuzioni non avrebbe avuto motivo d’essere.
La sua esistenza si deve inoltre, come del resto quella degli Stati Uniti, al colonialismo europeo (vi ha accennato, su questo stesso blog, Felice Rappazzo), che pretendeva di civilizzare il mondo, con il suo portato di orientalismo (non a caso a coniare il concetto è stato un intellettuale di origine palestinese come Eduard Said) che né la decolonizzazione né l’ormai vasto sviluppo di una cultura postcoloniale hanno ancora davvero scalfito. Dell’ideologia coloniale e orientalista Israele condivide l’arroganza dei civilizzatori, così come il razzismo e la violenza nei confronti delle popolazioni native. Israele non solo ci assomiglia: Israele siamo noi.
Israele è solo più vicino alla linea di contatto tra colonizzatori e colonizzati, e per questo il conflitto vi si manifesta in forma più estrema e concentrata. Il militarismo sempre più pervasivo, l’isteria del dibattito politico interno, il fanatismo di molte frange religiose, il razzismo orientalista, la mania di persecuzione che ci porta a percepirci come vittime, quando di fatto siamo piuttosto i carnefici, sono ormai caratteristiche di tutte le società occidentali. E la guerra di Israele non è che la sinistra prefigurazione di una più vasta guerra già in corso da tempo e ormai sul punto di deflagrare in un esteso conflitto mondiale.
Visto da fuori, l’occidente, “noi”, siamo sempre apparsi come oppressori. Mentre ci illudevamo di portare sulle nostre spalle il kiplinghiano “fardello” della civiltà, le nostre vittime ci subivano per quello che probabilmente davvero siamo stati: un flagello. Che ha devastato il mondo, portando morte (i genocidi dei nativi nelle Americhe e in Australia), sottomissione (la spartizione dell’Africa e dell’Asia, la schiavitù) e distruzione (l’inferno delle guerre coloniali, due guerre mondiali, Hiroshima e Nagasaki, fino al Vietnam e al Medio oriente). Una civiltà di invasori, di massacratori, e in ultima istanza di predatori.
“Noi”, all’interno, ci siamo invece sempre raccontati di essere invece la civiltà della democrazia, dei diritti universali, dello sviluppo tecnologico e del progresso sociale, anche se chi non ha mai smesso di coltivare la coscienza infelice – frazioni più o meno minoritarie – non si è mai fatto illusioni sulla barbarie in cui trascinavamo mezzo mondo strombazzando le nostre «magnifiche sorti e progressive». Goethe era ancora più esplicito di Leopardi nel dire a che cosa il nostro mondo moderno, il mondo di Faust, deve la sua origine e prosperità. Lo fa dire, senza mezzi termini, a Mefistofele, mandante e istruttore dei “tre violenti” che vanno per mare e portano a Faust immensi bottini dai quattro punti cardinali: «Chi ha la forza ha anche il diritto. / Nessuno discute cosa fai o come lo fai. / Guerra, commercio e pirateria / sono un’inscindibile trinità».
Civiltà o flagello: che cosa siamo stati – e siamo – davvero? Probabilmente entrambe le cose: lo dirà la storia. Ma continua a girarmi per la testa una frase che Ilan Pappé ha citato lo scorso novembre in una conferenza a Marburgo. Un amico palestinese gli aveva chiesto di portare un messaggio ai tedeschi, che credo valga anche per noi: «Già una volta siete stati dalla parte sbagliata della storia; questa volta, vi prego, siate dalla parte giusta».
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G.B. Palumbo Editore
Grazie
Premetto che sto dalla parte del cessate il fuoco e della pace, cioè di un futuro migliore sia per Israele che per la Palestina.
Vedo quindi come fumo negli occhi sia Hamas ed affini che la politica di guerra, massacro e discriminazione dell’attuale (soprattutto) ma anche dei precedenti governi israeliani.
Ritengo come minimo inutile tifare per l’una o per l’altra parte almeno se con esse intendiamo i due popoli.
Detto questo, concordo con buona parte delle considerazioni svolte e dei giudizi espressi ma sono convinto che sarebbe opportuno per vari motivi mettere da parte la parola genocidio:
– il suo utilizzo è spesso malevolo e comunque controproducente ai fini della denuncia e del confronto perché tale termine è indissolubilmente legato alla Shoah (paragonabile in effetti a pochi altri eventi di altrettanto enorme portata);
– almeno fino al 7 ottobre non torna la definizione di genocidio se consideriamo che la popolazione palestinese di Israele, Cisgiordania e Gaza risulta in progressivo e netto aumento nel corso dell’ultimo mezzo secolo;
– per quanto riguarda la campagna di guerra a Gaza sarà la Corte dell’Aia a verificare le accuse rivolte ad Israele dal Sudafrica (ma non solo).
Perché non utilizzare termini alternativi in grado forse di schivare inutili polemiche, arrivare comunque al punto stanando per di più coloro che sono in malafede?
Eviterei di minimizzare i fatti del 7 ottobre riducendoli alla stregua di un pretesto che il governo israeliano utilizza per perseguire i suoi inaccettabili obiettivi.
Privilegerei inoltre iniziative e campagne in grado di discriminare tra chi, dall’una e dall’altra parte, è a favore di una soluzione politica e chi invece vi si oppone.
Shalom, salaam.
Grazie. Il suo articolo è molto interessante e riporta il sentire di tante persone. Sono d’accordo con l’uso della parola genocidio: Israele ha avuto, fin dalla sua nascita, il progetto di colonizzare completamente la terra di Palestina e, per farlo, ha avuto necessità di eliminare completamente la cultura (università rase al suolo, intellettuali assassinati), le radici (musei distrutti e razziati), la storia (anagrafe distrutta), la religione (moschee distrutte), i testimoni (130 giornalisti assassinati), le case (70% delle abitazioni rase al suolo) e, ultimo ma non ultimo, il futuro della Palestina (si parla di almeno 13.000 bambini uccisi dalle bombe, dai cecchini, dalla fame). Se genocidio significa “sistematica distruzione di una popolazione” (Treccani) allora è il caso di usarlo per quanto accade da decenni in Palestina.
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Marx coglie perfettamente nella “Questione ebraica” il legame, per dirla con il titolo di questo articolo, “tra Gaza e noi”. E però, se si vuole comprendere come mai, con la creazione dello Stato d’Israele, la “questione ebraica” sia diventata insolubile, occorre ancora una volta richiamare quanto egli scrive, per l’appunto, nella “Questione ebraica”: «La capacità ad emanciparsi dell’ebreo d’oggi è il rapporto del giudaismo verso l’emancipazione del mondo di oggi… Qual è il fondamento mondano del giudaismo? Il bisogno pratico, l’egoismo. Qual è il culto mondano dell’ebreo? Il traffico. Qual è il suo Dio mondano? Il denaro. Perciò l’emancipazione dal traffico e dal denaro, dunque dal giudaismo pratico, reale, sarebbe l’autoemancipazione del nostro tempo», la quale, va da sé, è certamente anche emancipazione umana dello stesso ebreo dal suo giudaismo. La conclusione di Marx è tratta con rigore geometrico, e valendo nei confronti di qualsiasi altro Stato borghese, capitalistico e imperialista, vale ‘a fortiori’ anche nei confronti dello Stato d’Israele: «Se l’ebreo riconosce come non valida questa sua essenza pratica e lavora per la sua eliminazione, egli si svincola dal suo passato verso l’emancipazione umana senz’altro, e si volge contro la più alta espressione pratica dell’autoestraneazione umana».
Grazie per la sua splendida e approfondita analisi che condivido pienamente.
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