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diretto da Romano Luperini

Scrittrici del Medioevo

Benedetto tu Signore re del mondo che mi hai fatta donna e non uomo
(Anonima ebrea)

L’antologia

Uscita per Carocci nel 2023  e curata da Elisabetta Bartoli, Donatella Manzoli e Natascia Tonelli (fondatrici del Centro di ricerca interuniversitario Medioeva), l’antologia  Scrittrici del Medioevo è il frutto della ricerca di una nutrita squadra di studiose, che lavorano con acume e serietà filologica per riportare alla luce un patrimonio sommerso di scritture femminili. Conservato (e dunque conosciuto e tramandato) nei secoli, oscurato dal prevalere della funzione maschile, accantonato quando, nel corso dell’Ottocento, la priorità diventa la costruzione delle letterature nazionali, questo ricchissimo patrimonio testimonia non genericamente la voce delle donne, ma la loro presenza attiva nel discorso culturale, la loro chiarissima volontà d’esserci letterariamente, la loro padronanza intelligente degli strumenti e delle strutture dello scrivere che le rende scrittrici anche quando si cimentano in generi convenzionalmente ritenuti estranei alla letteratura. Questo esercito silenziato, ma nient’affatto silenzioso, impone come non più procrastinabile non tanto la definizione di un canone femminile, quanto la integrazione del canone tradizionale con queste autrici che evidentemente, a volte dichiaratamente, sono in dialogo con gli autori consegnati alla tradizione. Sia benedetto Colui che mi ha fatto donna/ perché sono terra e uomo/ e costola morbida, recitano i versi di Ester Ra’ab (1894-1981) ispirati a una benedizione tardomedievale e posti in esergo alla Introduzione; e davvero i testi antologizzati in questo volume costituiscono costola morbida e non intransigente cesura. Se George Duby e Jaques Le Goff, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, hanno aperto la strada agli studi storico-sociologici sulla questione femminile, in pochi (Peter Dronke, Ferruccio Bertini) si sono dedicati alle scrittrici, prima di tutto leggendone le opere. Questa antologia costituisce dunque un’operazione nuova:

Per la prima volta si propone al lettore la plurivocità del Medioevo, proprio attraverso le parole delle donne: sono offerti brani di quarantacinque scrittrici in medio latino, in greco medievale e nei volgari italiano, francese e provenzale, medio-tedesco e medio-olandese, lingue ibero-romanze, arabo, ebraico. Le curatrici hanno scelto di presentare testi non solo di autrici ben note, ma anche di donne immeritatamente poco o per niente studiate, le cui opere, mai tradotte in una lingua moderna, giacciono in edizioni antiche e di difficile reperibilità . (Introduzione a Scrittrici del Medioevo, p.17)

Affidati a studiose specialiste delle singole letterature, preceduti da schede esegetiche e corredati di note di commento, profili bio-bibliografici delle autrici e minuziosa bibliografia, i testi antologizzati, organizzati per temi, rappresentano diversi generi letterari e offrono dunque, nel loro complesso, una chiave d’accesso al Medioevo che contribuisce in misura non indifferente a liberarlo dalle etichette – usurate eppure resistenti – che ancora lo confinano nel buio di un’epoca segnata da involuzione e immobilismo.

I temi

I testi antologizzati abbracciano una datazione ampia (VI -XV secolo) e uno spazio geografico altrettanto esteso. Pertanto la scelta di proporne una lettura per temi risponde all’esigenza di evidenziare, in una realtà letteraria diacronica e plurilinguistica, alcune costanti che restituiscono la continuità e lo spessore di questioni evidentemente percepite come più urgenti di altre. Sei gli ambiti tematici individuati dalle studiose; nell’ordine: L’educazione, Il sé e il mondo, La maternità, L’amore, Il corpo e il sesso, La mistica e il sacro.  Si direbbe che il tema di apertura sia quello che orienta gli altri: «Resiste, infatti, nell’opinione vulgata l’idea che le donne, nel millennio medievale, siano state escluse da qualsiasi accesso alla cultura e all’alfabetizzazione. Questo preconcetto, troppe volte assunto in modo acritico, è ampiamente smentito dalle autrici antologizzate in questo volume» (Introduzione, p.18) che, in una lingua colta e con strumenti raffinati, affrontano sottili questioni pedagogiche come pratiche questioni di economia domestica, discettano di sessualità come di medicina, discutono d’amore e di maternità da soggetti e non da oggetti del discorso amoroso. Queste donne educate sono spesso, a loro volta, e con molta maggiore frequenza di quanto si pensi, educatrici e, da studiose, non si negano il dialogo con gli intellettuali del loro tempo. Se notissimo (ma qui illuminato da un fuoco diverso) ed emblematico è il caso drammatico di Eloisa e del carteggio con il suo maestro-amante Abelardo (principio del XII secolo), non meno significativo è l’esempio di Gisla e Rotrude (rispettivamente sorella e figlia di Carlo Magno) che, monache entrambe, scrivono ad Alcuino, il padre della riforma scolastica voluta dall’Imperatore. Ciò che chiedono è il suo commento al Vangelo di Giovanni; i toni sono solo apparentemente modesti e, al di là dell’interesse teologico, rivelano la  consapevolezza intellettuale delle due donne e il loro investimento non solo nella Scrittura, ma nella scrittura tout court. Eccone uno stralcio:

La Scrittura è manna che sazia senza nauseare, che nutre senza esaurirsi. Questo è il grano della messe divina, macinato dalle mani degli apostoli e da loro imbandito sulle mense delle anime devote. Ma due gravi contrarietà angustiano la mente sconfortando ogni giorno la nostra piccolezza. Innanzitutto ci siamo applicate troppo tardi a questo nobile studio; in secondo luogo, pur nutrendo noi grande devozione, la vostra lontananza è un forte ostacolo al nostro desiderio. Maestro carissimo, supplichiamo la vostra compassione: non privarci del conforto delle tue lettere. A noi che lo chiediamo tu potrai mostrare te stesso per mezzo delle lettere, affinché la tua voce sia compresa nell’arcano desiderio del nostro cuore. Infatti, come la lingua di chi parla penetra nell’orecchio di chi ascolta, allo stesso modo la penna di chi scrive penetra nell’occhio di chi legge e le riflessioni di chi invia arrivano dentro al cuore come le parole di chi insegna. (p.44, trad. dal latino)

Con sicurezza anche maggiore, Trotula, donna-medico nella vivacissima Salerno del XII secolo, nel suo Libro sulle malattie delle donne scrive senza infingimenti del desiderio sessuale femminile e senza alcuna ironia suggerisce un impacco per porvi rimedio, ove non si possa ovviare per le vie naturali:

Ci sono donne a cui non è permesso congiungersi con un uomo o per un voto o perché monacate o perché vedove, dal momento che ad alcune di loro non è concesso convolare a seconde nozze: queste donne, avendo desiderio di unirsi a un uomo ma non potendolo fare, si ammalano gravemente. Per loro è utile tale rimedio: prendi del cotone imbevuto con olio di muschio e puleggio e mettilo nella vagina […]. Questo <impacco> placa efficacemente il desiderio e calma il dolore. (p.218, trad. dal latino)

Sono testi che disegnano un universo femminile attraversato da precise istanze di autoaffermazione anche in quegli ambiti solitamente destinati agli uomini. Con chiarezza lo scrive Teodora Sinadema (XIII-XIV sec.), autrice di uno dei pochi typika (regole monastiche) scritti da donne e per donne. Pur non rifiutando, ove necessaria, la protezione di un eforo per il monastero di sua fondazione (ove si ritira una volta vedova), Teodora ordina che questi sia uno dei suoi figli, precisando tuttavia che «questo eforo e guardiano dovrà fare per il convento solo le cose che faccio io, in mia sostituzione»; e, con vigore che toglie ogni dubbio circa il suo programma di vita, aggiunge:

Svegliati, svegliati, rivestiti di forza come insegnano le Sacre Scritture. E, dimentica della nostra debolezza femminile, coraggio! Cingiti i fianchi se non come un uomo almeno virilmente. E una volta assunto un comportamento vigorosamente maschile, mantieniti forte più che puoi. Dunque cerca soprattutto di essere nelle prime file, di proteggere e fare scudo [alle tue sottoposte], e fa’ che questi propositi siano il tuo compito principale mentre combatti questi nemici invisibili e pericolosi come frecce scagliate dalla mano di un uomo potente. (p.98, trad. dal greco)

I generi

Un aspetto estremamente interessante di questa antologia è la varietà dei generi che contempla. Sicuramente per via di un pregiudizio, di una donna-scrittrice del Medioevo (di per sé, come s’è detto, entità tutta da esplorare) più facilmente si comprende che sia stata poetessa o epistolografa, giacché si associano ingenuamente le liriche o le lettere alla meditazione negli spazi chiusi nei quali si immagina che vivesse; ma che sia stata saggista, drammaturga o autrice di spregiudicati epigrammi o addirittura fondatrice di un genere letterario nuovo, questo davvero ci mette di fronte a una femminilità complessa, perché con evidenza dimostra una destinazione della scrittura non esclusivamente limitata alla dimensione privata, ma vivacemente proiettata verso altre letture, conoscenze, relazioni. Se è vero che tutti i temi possono essere affrontati da tutti i generi, non è altrettanto vero che un tema resti identico declinato in forme liriche o saggistiche, narrative o drammatiche. Ogni genere imprime a quel tema una fisionomia diversa, ognuno è in grado di mostrarne aspetti e peculiarità che nell’altro restano secondari o in ombra. Scorrendo questo repertorio antologico, si ha l’impressione che queste scrittrici del Medioevo manipolino i generi, come i temi, con una franchezza del tutto inedita. Un esempio su tutti può essere rappresentato dal tema amoroso: caro ai poeti latini, rinverdito dai trovatori, stella polare, al suo esordio, della letteratura in volgare italiano, si invera nelle lettere, nelle liriche, nelle riflessioni di queste donne con accenti mai uditi prima. Così nei versi di Nazῡn bint al-Qualay ᾿ῑ, poetessa andalusa (XII secolo), che sublimano senza negarlo o reindirizzarlo l’amplesso con l’amato:

Mio Dio, che belle sono le notti!
Ma la più bella è la notte della domenica.
Se qualcuno si fosse presentato,
quando gli occhi della guardia, disattenti, non osservavano,
avrebbe visto il sole del mattino tra le braccia della luna,
o una gazzella di deserto tra le braccia di un leone.
 (trad. dall’arabo) (NB: in arabo sole è sostantivo femminile, luna è sostantivo maschile)

Fa pensare invece all’embrione di un romanzo epistolare la lunga serie di lettere che Ceccarella Minutolo indirizza a Teofilo, il suo amante fittizio, e nelle quali la giovane napoletana (XV secolo) racconta il mutare della percezione amorosa mescolando a reminiscenze ovidiane più recenti suggestioni del Boccaccio di Elegia di Madonna Fiammetta:

(…) Amore in me sola, per sua memorabile victoria, ha voluto monstrare quanto ad illo sia licito, conducendome da’ primi anni veneree, quando incominciai asaporare de la infamata Venus li suoi doni, ad tale impresa digna de mei forze per la tua singolare virtute, per la tua formosa bellezza et per la corporale et animosa gagliardia. De le quale cose, magnanimo dilecto, lo mio feminino core, apto ad amore, ad te et non più ad huomo altro vivente è stato mollo ad amare, atto ad ardere, prompto ad obedire, disposto ad perseverare et desideroso ad morire (….) (p.199)ù

I toni appassionati di Ceccarella risuonano nelle lettere di Alessandra Macinghi Strozzi, ma di un amore diverso, materno, apprensivo. Alessandra è la moglie dell’umanista Matteo, esiliato da Firenze nel 1434. I figli maggiori, sopravvissuti alla peste, vengono spediti a Napoli per ricostruire le fortune e il prestigio della famiglia; e lì il minore, Matteo, nato dopo la morte del padre e cresciuto a Firenze con la madre, deve raggiungerli. Alessandra temporeggia. La lettera antologizzata ne mostra il dissidio semplice e angoscioso: tenerlo con sé, unico figlio amatissimo rimastole vicino, o assecondare, per il lustro della famiglia, la volontà del figlio maggiore:

[…] ragionammo insieme del mandare Matteo, come ero contenta di farne la volontà di Niccolò e tua, veduto il gran desidèro avete di tirarlo innanzi e farlo da qualche cosa; non guardando a la consolazione mia, ma all’utile vostro, come sempre ho fatto, e così farò in sino al fine. E pensa se m’è dura cosa, quando penso come io rimasi giovane allevare cinque figliuoli, e di poca età come savate. E questo Matteo mi rimase in corpo, e òmello allevato credendo che altro che la morte no ‘l partissi da me; e massimamente, di tre, avendone due di fuori, mi pareva fussi a bastanza. Ora veggo quanto me n’avete scritto, e mostromi le ragioni che questo è l’utile e l’onore vostro… (pp.139-140)

Nel passaggio da un tema a un altro e da un genere a un altro si precisa un affresco che è come un ritratto collettivo di impressionante vitalità. La anonima benedizione ebraica, cui si è già fatto cenno, il testo probabilmente più tardo dell’antologia, assume in questa prospettiva una valenza speciale: tramandata in più versioni, sembra sancire «il passaggio – linguistico e concettuale – da un’accettazione rassegnata della propria condizione femminile al ringraziamento a Dio perché si è state create donna e non uomo» (p.22); e si posa sulle donne delle generazioni successive che, qualunque sia la loro religione, continuano a una voce quella preghiera:

Benedetto tu Signore re del mondo che non mi hai fatto serva.

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