In esilio: storia e autobiografia, destino e identità nelle scritture degli esuli
L’esilio è presente da sempre nella letteratura, all’origine di paradigmi persistenti che sono alla base di molte scritture dall’antichità a oggi. Utilizzato, già nelle civiltà del passato, come strumento punitivo, per lo più in alternativa alla condanna a morte, l’esilio è tema ricorrente fin dalle sacre scritture e dalla scrittura greca. Il termine rinvia all’esclusione da un territorio e ha implicito in sé il motivo dell’espulsione e della partenza. (…)
Tra esilio e scrittura esiste un nesso fortissimo: gli esuli scrivono nel tentativo di archiviare il trauma e denunciare la propria condizione la propria condizione contro il rischio del silenzio e della cancellazione; essi raccontano la loro storia o scrivono testi letterari, poetici, saggistici per elaborare in qualche modo un’esperienza tragica come quella della perdita di ogni riferimento: famiglia, averi, lingua, identità, appartenenza. (S. Tatti, Esuli, Carocci 2021, p.11).
La scrittura necessaria
Uscito per Carocci nel marzo del 2021, Esuli di Silvia Tatti affronta il tema bruciante e sempre attuale dell’esilio nel suo intreccio fatale con la scrittura: una scrittura che diventa necessità (La scrittura necessaria è il titolo della introduzione al volume) per uomini e donne che a volte non sono neppure scrittori o scrittrici, prima di partire, ma lo diventano dietro la sollecitazione di un’urgenza: testimoniare, raccontare, scavare nel proprio dolore e magari trovare un risarcimento al lutto.
L’indagine di Silvia Tatti muove dai testi che sono stati – ciascuno a suo modo – modellizzanti nella costruzione dell’immaginario e del linguaggio dell’esilio: l’Antico testamento (Esodo, Salmi, il Libro di Ezechiele e il Libro di Isaia), l’Edipo a Colono di Sofocle, le scritture pubbliche e private di Cicerone, l’Eneide di Virgilio, i Tristia e le Epistulae ex Ponto di Ovidio, la Consolatio ad Helviam matrem di Seneca, il De exilio di Plutarco. Procede dunque facendo perno sulla complessa esperienza di Dante, che dell’esilio non fa soltanto materiale autobiografico da impiegare e sublimare narrativamente, ma oggetto di una riflessione di grande spessore (avviata nel De vulgari eloquentia) sul rapporto indissolubile tra «lingua e appartenenza, lingua e identità, un problema fondamentale di ogni esilio» (p.47) e, passando per la militanza politica degli esuli rinascimentali, approda alla dimensione eroica e sofferta degli esuli pre e post risorgimentali, misurandosi infine nell’attraversamento difficile delle «nuove frontiere tra Otto e Novecento» (p.145), dell’Europa del XX secolo, del mondo globalizzato, dove l’esule diviene «eroe mancato», «votato a un’innocenza di principio che nessuno riconosce» (p.155).
Per una ricognizione puntuale dei contenuti del volume si rimanda senz’altro alla lettura attenta che ne ha fatto Lucia Olini per La ricerca Loescher. Qui proveremo a individuare alcune direttrici d’indagine che, tracciate con cura dal lavoro rigoroso della filologa e indirizzate all’approfondimento scientifico, valgono tuttavia come indicazioni importanti, se non percorribili tout court, anche sul piano didattico – per quanto, come ognuno vede bene semplicemente scorrendo la rassegna dei testi e degli autori affrontati, basterebbe anche solo questa scelta così sapientemente orientata a costituire una guida sicura anche nei percorsi scolastici.
L’esilio a scuola
Nella premessa al volume, Tatti si dice esplicitamente debitrice (anche) ai suoi studenti del corso magistrale in Filologia moderna:
I loro interventi e le loro proposte di lettura per lo più di testi contemporanei sono stati a volte illuminanti, in grado di far emergere l’attualità del linguaggio degli esuli, la forza delle sperimentazioni narrative ed espressive, il peso delle implicazioni esistenziali (p.9).
Questo riconoscimento contiene di per sé innanzi tutto un modello didattico, che richiama ogni docente ai suoi nuovi doveri all’interno e non al di sopra di quella comunità ermeneutica che costituisce insieme alle allieve e agli allievi e rispetto alla quale si pone come guida esperta non solo nella ricognizione dei contenuti disciplinari, ma anche nell’uso e nella destinazione degli strumenti dell’indagine testuale.
Per quanto attiene ai cosiddetti contenuti, le implicazioni esistenziali del tema dell’esilio costituiscono gli ausiliari di una ricerca identitaria che si coniuga in forme varie e diverse, lontane comunque dall’autobiografismo narcisistico e più vicine semmai alle movenze dello scavo psicologico, della confessione, della narrazione problematica di sé. Sono tutti alleati preziosi nella fase delicata in cui l’adolescente definisce la sua persona, appena uscito dalla comunità che l’ha nutrito e timoroso, o diffidente, o addirittura ostile alla comunità che dovrebbe riceverlo – e a volte lo respinge.
Da questo si desume ancora un altro aspetto didatticamente fecondo: la qualità e l’investimento della scelta tematica. Nella migliore tradizione della critica tematica (dal saltimbanco di Starobinski all’incontro di Luperini), questo saggio di Silvia Tatti, ricorda a noi, prigionieri – a scuola come in accademia – di rassegne di testi tessuti in rete per il tramite di un tema – quale che sia, purché ce ne sia uno -, che la scelta di un tema, invece, non è asettica, ma impone allo studioso di assumere una posizione forte, decisa nei confronti della comunità di appartenenza storica, sociale, culturale, portandone in luce, o perfino denunciandone, attraverso quel tema, alcuni nodi ritenuti più urgenti o più dolorosi di altri. L’attenzione da un lato all’emergere di una urgenza tematica, dall’altro alle trasformazioni del tema in relazione ai contesti, ci sollecita a tenere costantemente dentro gli argini le variegate spinte attualizzanti che attraversano troppo spesso i percorsi didattici. Nella fattispecie il tema dell’esilio, osservato in prospettiva, ci mostra significativamente gli elementi di continuità di un’esperienza, comunque drammatica, di esclusione sociale e faticoso, a volte impossibile, reinserimento, esplicitamente richiamando lettrici e lettori a una riflessione condivisa sulle loro responsabilità civili; tuttavia evidenzia anche con fermezza le macroscopiche differenze «tra due condizioni molto diverse di dispatrio, come l’emigrazione economica e l’esilio politico» (p.91), e ancora l’esilio coatto e l’esilio volontario, imponendo severamente prognosi e diagnosi dei contesti malati da cui si allontanano gli esclusi, esuli o profughi che siano.
Senza cedere alla retorica dell’esilio, se non facendola diventare, a sua volta, oggetto di studio (cfr. Lingua e retorica dell’esilio, pp.106-109), la ricerca di Tatti affronta quindi con grande nitore e lucidità anche questioni “attuali” complesse e rischiose, come la scrittura femminile o l’esodo forzato di deportati, rifugiati, migranti, giungendo a conclusioni che, lungi dal circoscrivere la ricerca, ne mostrano ulteriori aperture:
La scrittura, di fronte alla vastità e dimensione nei tempi recenti, può anche svelarsi insufficiente e aprirsi alla dimensione teatrale, a eventi performativi e spettacoli di poesia, musica e recitazione, dove i linguaggi universali del corpo e della musica suppliscono ai limiti espressivi della parola e ai condizionamenti e vincoli delle lingue. (p.155)
Il linguaggio dell’esilio
Fra gli aspetti più interessanti di Esuli, e in particolare fra quelli che mi sentirei di rilanciare sul piano didattico, metterei senz’altro l’attenzione esplicita, mirata, costante al linguaggio, ai linguaggi dell’esilio.
La perdita della lingua madre comporta la necessità di riconsiderare il proprio rapporto con la scrittura o di inventarne uno completamente nuovo; la scelta che a volte si impone di scrivere in un’altra lingua non è solo una forma di rassegnazione, ma può avere un risvolto di arricchimento personale e di potenziamento delle opzioni espressive e delle risorse della scrittura. Il rapporto con le lingue altre è infatti ambivalente; (…) può essere assunto in modo passivo, come una necessità, ma può configurarsi anche come una scelta, in funzione di un’apertura nei confronti delle ricchezze culturali ed espressive di tradizioni estranee ma vissute non necessariamente come imposizione, ma come risorsa che si aggiunge agli strumenti comunicativi già in possesso dello scrittore o della scrittrice. (p.153)
E se provassimo a riportare queste importanti considerazioni alla nostra esperienza di docenti? Se immaginassimo che gli strumenti comunicativi da ridefinire, da riorientare non fossero quelli di scrittrici e scrittori, ma di allieve e allievi? Non mi riferisco soltanto a quella parte, ormai sempre più ampia, della popolazione studentesca che appartiene a famiglie originarie di altre nazioni; mi riferisco a tutti gli studenti e a tutte le studentesse che, nel passaggio non solo tra i diversi gradi di scuola, ma tra i diversi contesti comunicativi, incontrano oggi uno spaesamento che a volte davvero li espone al rischio della incomunicabilità, quasi fossero degli esiliati. Fra le istanze normativizzanti di INVALSI e le derive linguistiche dei social, da questa esperienza di scritture in esilio ci viene davvero una lezione importante per riqualificare l’insegnamento linguistico e riproporre il patrimonio grammaticale come arricchimento, potenziamento, risorsa, ma soprattutto scelta e non imposizione, strumento di liberazione e non di omologazione.
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