Sei sguardi critici sul destino digitale (5) Roger Silverstone: “Perché studiare i media?”
La politica deve essere sia pensiero sia prassi, e la politica dei media non fa eccezione. La politica e i media dipendono entrambi dalla fiducia. Studiamo i media perché abbiamo bisogno di capire come contribuiscono all’esercizio del potere nella società tardomoderna, all’interno e fuori dal processo politico riconosciuto. I media hanno la responsabilità di rendere il mondo intelligibile, né più né meno, poiché soltanto nella sua intelligibilità il mondo e chi vive nel mondo diventano umani. Chi di noi studia i media deve quindi renderli intelligibili: non è un progetto facile, né comodo, ma lo perseguiamo nella speranza che mettendo un granello di sabbia in un’ostrica, l’irritazione provocata dalla nostra presunzione si trasformerà, un giorno, in una perla.
Un approccio eclettico all’esperienza mediale
Pubblicato nel 1999, “Perché studiare i media?” è il testamento intellettuale di un grande studioso; un invito appassionato a occuparsi dei media in una prospettiva filosofica, antropologica e psicanalitica. L’intento di sfuggire al potere di seduzione delle spiegazioni perfette e concludenti, cardine del progetto, si riflette nella struttura dell’argomentazione.
Da una parte, nelle sezioni di cui è composto il libro, l’autore indirizza il nostro sguardo su alcuni aspetti fondamentali dell’esperienza mediale nella contemporaneità.
Dall’altra, delude le aspettative di una teoria unificante, attraverso continue digressioni interdisciplinari, accostando psicanalisi, teorie economiche e sociologiche, ipotesi filosofiche e storiografiche.
La bibliografia del volume e le citazioni presenti nei diversi capitoli evidenziano uno scarso interesse per gli studi specialistici (in particolare di media education). Rilevante, invece, è la presenza di classici del pensiero: Adorno, Appadurai, Bachelard, Barthes, Berlin, Caillois, Giddens, Habermas, Levinas, Popper, Steiner.
Con le parole di Isaiah Berlin, Silverstone definisce i media parti del “tessuto generale dell’esperienza”, indispensabili alla vita associata e alla comunicazione. Come gli storici, gli studiosi dei media non possono esimersi da questa dimensione della vita sociale, in quanto il loro lavoro, come per tutti coloro che si collocano nelle scienze umane, “dipende dalla capacità di riflettere sull’altro e di comprenderlo”. Lo studio dei media è un’impresa umanistica e non ha uno stampo positivistico: non è quindi indirizzata alla ricerca di leggi, generalizzazioni o teorie definitive, ma è piuttosto “basata sul riconoscimento della differenza e della specificità, consapevole del fatto che le vicende degli uomini richiedono un tipo di comprensione e di spiegazione che si allontana dalle imposizioni kantiane e cartesiane di pura razionalità e ragione”. Una comprensione, secondo l’autore, che ha natura morale ed estetica, ed è fondata sull’idea degli uomini come “esseri attivi, che perseguono dei fini, danno forma alla propria vita e quella altrui, sentono, riflettono, immaginano, creano in una costante interazione e comunicazione con altri esseri umani”. Nel quadro di questa visione, la comunicazione nel corso del tempo si è fatta sempre più fitta, ed emerge ormai da istituzioni di ordine globale, poco condizionate dal peso storico di due secoli di capitalismo avanzato, incuranti del potere tradizionale degli stati nazionali.
Di fronte a un quadro così complesso, è importante, secondo l’autore, evitare un atteggiamento di “determinismo tecnologico”, in base al quale si fa coincidere la velocità dei mutamenti tecnologici con quella dei cambiamenti socio-culturali: questi ultimi sono invece di ordine geologico, frutto di una costante tensione fra tecnologia, industria e società, in cui è difficile riconoscere rapporti diretti di causalità.
L’automatismo deterministico si afferma soprattutto in relazione allo studio di spettacolari eventi mediali mondiali, considerati soglie di mutamenti irreversibili. Livingstone ne analizza alcuni: l’atterraggio sulla Luna, la guerra del Golfo, il funerale di lady Diana. A suo avviso, però, non è a quest’altezza che i media dispiegano i loro effetti più profondi, ma nella quotidianità della vita di ciascuno, offrendo “pietre di paragone e punti di riferimento per la conduzione della vita di tutti i giorni, per la produzione e il mantenimento del senso comune”. Ѐ questa dimensione di normalità a occupare il centro del suo sguardo di studioso.
Inconscio, mediazione, tecnologia
Una simile impostazione intende allontanare la ricerca dalla “facile razionalità di gran parte della teoria contemporanea sui media, che è di orientamento cognitivo e ha intenti comportamentisti”. La avvicina invece ad una complessa prospettiva psicanalitica. Rifiutando l’idea di trovarci di fronte a una collettiva incapacità di distinguere fra realtà e finzione e all’impoverimento forzato delle nostre capacità di immaginare e pensare, in un universo mentale in cui i media divengono tutto, lo studio dei media deve farsi carico del ruolo dell’inconscio nel costituire e sottoporre al dubbio la nostra esperienza: una delle ragioni per studiarli è proprio “perché offrono una via, se non una via maestra, nei territori nascosti della mente e del significato”. I testi mediali, nella loro particolare complessità, costituiscono infatti la manifestazione tecnologica del continuo lavoro di “mediazione” che si svolge nel profondo degli esseri umani, in cui ciascuno crea significati e valori instabili ma potenti. Silverstone individua nell’indagine di Steiner sulla traduzione (pur con ovvie differenze) un modello efficace per studiare la continua attività sui significati e sui valori in cui consiste la nostra vita intima, anche nella sua dimensione mediale. Come un traduttore di fronte al testo originale, così i media nei confronti della realtà rappresentata mettono in campo azioni determinate da fiducia, aggressione, incorporazione, restituzione. E le stesse azioni determinano il nostro agire nei confronti dei testi mediali che costituiscono una parte rilevante della nostra esperienza.
Nell’epoca recente, a definire il ruolo che i media occupano nell’esperienza è soprattutto la tecnologia, di cui l’autore analizza le letture più popolari (McLuhan, Adorno). Ad esse, riconosce la capacità di evidenziare la permeabilità del mondo ai media, e la capacità del capitale di tradire la cultura, sottraendole originalità e autenticità, mentre afferma di difenderla e diffonderla. Queste visioni richiamano ad un’idea della tecnologia come incantamento, e recuperano il nesso storico tradizionale fra tecnica, magia e cultura. Tuttavia, a suo avviso non esauriscono l’analisi del rapporto fra tecnologie e potere, né soprattutto della resistenza ad esso.
Ѐ vero che nel campo economico e politico, in cui i new media esercitano un ruolo molto significativo, le prospettive di chiusura e asservimento, con la cancellazione di quello che l’autore definisce “centro mediatore” (ad esempio, lo stato nazionale rispetto alle singole comunità o al mondo globale), sono reali. Ma non meno reali sono le prospettive di creare nuove forme di partecipazione e cambiamento, che si servano del supporto delle tecnologie. Paradossalmente, proprio queste prospettive di novità dipendono da istituzioni e modalità politiche tradizionali, cui spetta il compito di produrre politiche di accesso, definire garanzie dei servizi, proteggere la privacy e la libertà di parola, gestire la concentrazione di proprietà. In questo senso, le tecnologie sono la più recente forma di “selvaggio” che la cultura si trova di fronte, con il compito di addomesticarlo.
Strumenti concettuali per l’analisi dei testi
L’analisi dei meccanismi della mediazione, le tecniche che portano i media nelle nostre vite, è focalizzata su tre meccanismi, considerati sia in quanto strategie di costruzione dei testi, sia in quanto strumenti per analizzarli: retorica, poetica, erotismo.
La costruzione retorica caratterizza gli spazi che i media costruiscono per noi sia in pubblico che in privato, e per comprenderla dobbiamo rivolgerci ai principi che sostenevano l’esercizio e l’analisi delle prime espressioni della cultura orale. La retorica è quindi considerata come persuasione, dibattito, classificazione, a partire dalla tradizionale distinzione fra la retorica come mano aperta e la logica come pugno chiuso: nella nostra cultura, “i media ci offrono costantemente e insistentemente una mano aperta”, nei più diversi campi. Studiare quest’aspetto dei media significa quindi occuparsi di come la politica gestisce la propria comunicazione, i media affermano la propria realtà e verità, gli inserzionisti compiono il loro lavoro: riscoprire Cicerone (ampiamente citato) nel presente, studiando i testi dei new media con le categorie e i concetti da lui elaborati. La retorica pubblica moderna occupa infatti i loghi dominanti dal tardo capitalismo e del capitalismo globale soprattutto attraverso la pubblicità (“industrializzazione della retorica”), i notiziari e i documentari (“sostanza del mondo reale, che ci persuadono della loro veridicità e onestà”), ed acquista efficacia saldandosi alla dimensione privata degli spettatori.
In questa dimensione, si esprime la poetica, che nasce dal naturale amore per le storie che caratterizza l’essere umano. Al contrario di Benjamin, che in “Angelus Novus” ipotizza “la sostituzione della narrazione con l’informazione e dell’informazione con il sensazionalismo”, Silverstone ritiene che “nella cultura mediale contemporanea siamo di fronte non all’assenza di storie, ma alla loro proliferazione, nei testi dei media e in quelli che li circondano”. Come nell’antichità, le storie offrono piacere e ordine. E la poetica – il tragico, l’epico, il comico dei media – è segnata dalle istanze definite da Aristotele: mimesi, realismo, verosimiglianza. L’intreccio e la scansione temporale degli avvenimenti continuano a costituire il cuore della narrazione, anche se ovviamente gli strumenti a disposizione dei narratori sono più duttili e variegati delle parole, e da un certo momento in poi delle immagini, attraverso le quali si raccontavano le storie del passato.
Proponendo questo modello di analisi testuale tradizionale, l’autore mette in guardia dai rischi di un vuoto formalismo, che esaurisce il significato nella costruzione interna del testo, particolarmente affascinante e complessa nel caso dei media elettronici. Al contrario, attribuisce un ruolo centrale, nell’interpretazione degli effetti dei testi mediali e dei significati che si producono durante la loro trasmissione e ricezione, al processo di comprensione soggettiva: la capacità di sospendere l’incredulità, di entrare nel territorio sconfinato dei mondi possibili, alla ricerca di conoscenza e riconoscimento, è secondo lui tanto importante oggi quanto lo era in passato. Ritiene anzi che l’indagine su quest’aspetto della ricezione e della lettura dei testi mediali sia stata appena accennata, e invita a tenersi quindi lontani dagli automatismi che associano deterministicamente la diffusione di media e testi mediali a fenomeni come la crescita dell’immoralità o della criminalità: quest’apparente conseguenzialità è secondo lui frutto di una semplice giustapposizione, una storia che i media amano raccontare sui media.
Il terzo meccanismo di coinvolgimento è l’erotismo, inteso “non tanto come un prodotto del testo, ma come un prodotto della relazione che lega spettatori, lettori e pubblico con testi ed eventi mediali in grado di offrire piacere”. Sul tema, Silverstone afferma di limitarsi appena “ad aprire una finestra, che comunque non dovrebbe mai rimanere chiusa”. A suo parere agisce infatti, sugli studiosi dei media, una priorità assegnata all’essere umano come creatura razionale: “la vergogna e la ragione congiurano contro l’erotico”. Ma quest’ultimo è una molla potente che ci spinge a cercare nei media sogni, oggetti, immagini, che esprimono “crudo e fisico eccitamento della vita, esplosione di forza o di abilità o di bellezza”. Questo avviene in modo evidente quando le immagini e le riprese riguardano il corpo (l’autore fa l’esempio delle competizioni sportive o dei concerti). Ma il meccanismo agisce ogniqualvolta uno sguardo umano incontra un’immagine, alla ricerca di quello che Barthes, nel suo saggio sulla fotografia, definisce il punctum. Qualcosa che ci colpisca in un modo solo nostro, irripetibile, imprevisto. Barthes, nella lettura di Silverstone, suggerisce dunque che anche nella cultura di massa c’è godimento: siamo trascinati verso testi e immagini terreni e futili dalla speranza e dal desiderio trascendente che qualcosa ci colpisca. Ritorniamo sempre ai luoghi e ai programmi dove l’abbiamo trovato una volta, nella speranza di trovarlo ancora, e ancora. Le nostre ossessioni visive sono modi per aumentare le possibilità di successo in tale ricerca, ma per sua natura essa è spesso frustrata.
Indipendentemente dalla presenza di un medium, vecchio o nuovo che sia, “la vita quotidiana implica un movimento attraverso confini e soglie: fra pubblico e privato, fra sacro e profano, fra reale e fantastico, fra realtà interiore e quella esteriore, fra individuo e società”. Pur indeboliti nel nostro mondo tardo moderno o postmoderno, confini e soglie esistono e vengono ogni giorno ricreati, nelle culture popolari come in quelle colte.
Gioco, rappresentazione e consumo costituiscono i modi più diffusi di pensare e praticare l’attraversamento dei confini nella vita quotidiana, e sono al centro della nostra esperienza dei media. In queste dimensioni tradizionali dell’esistenza, si intrecciano l’aspirazione a un ordine logico e all’infrazione alle regole, l’oscillazione fra finzione e verità (soprattutto nella istintiva rappresentazione di se stessi di fronte agli altri), i rituali sociali e identitari. Nell’epoca delle tecnologie di comunicazione, il superamento del confine fra attore e spettatore assume una valenza precedentemente sconosciuta, ed è concreto il pericolo che le risorse di creatività, energia, senso di libertà offerte dalla tecnologia si risolvano in un fallimento:
Quanto più direttamente la nostra identità viene a dipendere dalla rappresentazione dei media elettronici, quanto più i media diventano profondamente radicati nell’esperienza, quanto più una società virtuale (se esiste qualcosa del genere) incoraggia e rende possibile la rappresentazione senza pubblico e senza conseguenze, tanto più allora, si potrebbe ipotizzare, ci ritroviamo soli.
Una posizione importante, in questa riflessione, è occupata dalla definizione di alcune coordinate spaziali, cui l’autore si riferisce con l’espressione “geografia dei media”. Casa, comunità, globalità: sono questi gli spazi dell’esperienza di interazione e mediazione che Livingstone analizza, sia nella loro realtà – il carattere oggettivo della vita sociale e mediale, la nozione di “vicinato”, “domesticità”, “mondo” – sia nel loro risvolto simbolico – luoghi dell’immaginario, parte della cultura nei racconti e nei sogni dei media stessi.
La casa e la realtà familiare, in questa prospettiva, appaiono soggette ad una particolare tensione, perché i media si presentano sia come distruttori che come costruttori di memorie, identità condivise, immagini istituzionali di ciò che è “domestico” e “familiare”.
Ma un’ambivalenza non molto diversa caratterizza anche l’idea di “comunità”: gli strumenti elettronici consentono e promuovono la costruzione di solidarietà, vicinanze, affinità reali di varia natura (si pensi alla possibilità di creare incontri fra gruppi solidali e minoranze), ma allo stesso tempo indeboliscono la dimensione reale della condivisione, esaltando la dimensione virtuale che è insita in ogni idea di comunità: in questo modo, danno vita a gruppi privi del requisito fondamentale che dovrebbe caratterizzare una comunità, la comune umanità e la vicinanza personale fra chi la costituisce. Alle potenzialità positive dei media, in termini di espressione di bisogni e di formulazione di critiche, in linea con il loro ruolo tradizionale, si accompagna un crescente gioco di rifrazioni e moltiplicazioni di immagini, che minano la riconoscibilità dei luoghi e delle relazioni. Un caso evidente di questa contraddittorietà di istanze e voci è quello della comunità nazionale, insieme rafforzata (presso gruppi e in ambiti particolari) e indebolita (nel senso comune di appartenenza) soprattutto ad opera dell’azione dei media.
La stessa ambivalenza si risconta nel passaggio alla dimensione globale dell’esperienza, in cui non è possibile generalizzare fra le manifestazioni di massificazione e di frammentazione. La contemporaneità è infatti dominata da un costante movimento fra gli spazi e attraversamento delle porte:
azzardo l’ipotesi che ci muoviamo continuamente dentro e fuori dalla cultura globale, a partire da quadri di riferimento locali, dalla normalità del quotidiano (…) verso tempi e spazi che hanno un riferimento e una definizione più ampi. Lo facciamo sia nel lavoro sia nel tempo libero, in spazi simbolici e reali, volontariamente e perché costretti; in questi movimenti (…) rivendichiamo continuamente il diritto di essere noi stessi, rivendichiamo un’identità, una parte di quel poco che rimane fuori dalla comunità globale.
Costruire significati, difendere valori
La parte conclusiva del libro si occupa “della costruzione e della sedimentazione del significato”, analizzando l’importanza dei media rispetto alla capacità di ogni persona di creare e mantenere un ordine nella vita quotidiana e di trovare una posizione all’interno di questo ordine. I media sono diventati ormai essenziali nella dialettica fra ordine e disordine che coinvolge individui, comunità, collettività globale: ne costituiscono, con i loro luoghi comuni e il loro senso comune, il materiale grezzo, In metafora, sono sabbia, paletta, bandierina e castello della nostra vita quotidiana, contribuendo tanto a dare forma alle certezze che ci indirizzano, quanto alle incertezze che ci confondono.
Silverstone sceglie di esaminare tre dimensioni della nostra esperienza sociale: fiducia, memoria, alterità. Tre ambiti in cui si combatte l’attuale “lotta per la vita morale”, nella quale i media giocano un ruolo fondamentale nel definire le relazioni fra le persone, la loro identità e la considerazione dei valori e degli interessi di chi gli sta accanto.
In questo quadro, assumono un ruolo centrale la capacità di fidarsi e affidarsi, di concepire in modo chiaro e condivisibile la propria storia personale e la storia collettiva, di rispettare e conoscere l’Altro e l’Alterità. Le questioni etiche legate allo sviluppo e all’indirizzo di queste capacità implicano scelte, responsabilità, consapevolezza, e creano seri problemi ai cittadini e alle collettività. Nessuno di essi nasce con i media elettronici, né con i media in senso moderno. Ma è chiaro che l’avvento e la progressiva diffusione della comunicazione elettronica e digitale conferiscono al “mercato della fiducia” (in ambito personale, sociale e politico), alla “lotta per la memoria”, alla percezione e alla valorizzazione dell’alterità, connotati nuovi e prospettive incerte.
In un’analisi ricchissima di suggestioni e aperture intellettuali, Silverstone sottolinea alcuni elementi cruciali nello studio dei media, e nella successiva discussione pubblica che dovrebbe seguirne.
Parte dall’idea che, nella contemporaneità, i media assolvano ad una funzione genitoriale, nel trasmettere una sorta di “sicurezza ontologica”: come i genitori infondono nei figli una fiducia che ne definisce carattere e personalità (secondo la visione di Winnicot), così i media contribuiscono in misura determinante a costruire intorno e dentro giovani e adulti riferimenti, valori, atteggiamenti legati alla “fiducia”, la disponibilità ad affidarsi a qualcuno senza avere garanzie che non ci ferirà.
Nella riflessione sulla memoria, condotta in continuità con la critica storica e la psicanalisi, l’autore non vede tanto il rischio di una carenza di storia, di una sorta di “eterno presente”; al contrario, gli sembra che sia un eccesso di storia nei media a comportare il pericolo di svuotare di senso e di valore etico l’atto, privato e pubblico, del ricordare a sé e agli altri ciò che è stato.
Circa il riconoscimento e la valorizzazione dell’alterità e della differenza, considera palpabile il rischio che questi atteggiamenti non si traducano, nella realtà mediale, in vero “pluralismo”, bensì in una sorta di “relativismo” assoluto, la cui base sarebbe costituita dall’indifferenza, non dal presupposto dell’esistenza di una comune umanità a partire dalla quale riconoscersi e differenziarsi. Attribuisce quindi un grande valore alle due letture prevalenti di questo fenomeno, che sintetizza nell’immagine della monade e del nomade: da una parte, la dissoluzione dell’alterità in una sorta di autoreferenzialità del soggetto, esaurito in se stesso e nel proprio narcisismo; dall’altra, l’esplosione della soggettività in mille identità, moltiplicate a dismisura dagli schermi e dalle reti sociali.
Proprio l’integrità umana e il rispetto per l’altro sono invece i fondamenti della “lotta per la vita morale” cui si riferisce con insistenza.
Le politiche dell’identità e dell’individualismo corrono velocissime, in rete e nei cuori delle persone, e costituiscono una sfida alla libertà quanto le politiche totalitarie. In questa sfida, i media hanno un ruolo importante, ma la responsabilità è tutta delle donne e degli uomini. I media, sottolinea infatti l’autore, sono “in senso strutturale amorali”, ma non immorali. La loro capacità di mascherare la lontananza come vicinanza, di travestire di connessione una separazione, di essere vulnerabili alla dissimulazione, ne fanno però veicolo ideale per promuovere l’idea che cose e persone siano effimere e sempre sostituibili. Si può creare quindi una sorta di distanza tecnologica dalla verità: “il mondo digitale è destinato a mentire: porta l’amoralità dei media a nuove vette”.
Studiare i media produce consapevolezza nel nostro “mondo al congiuntivo”, in cui è “come se vedere e ascoltare significasse capire; come se informazione equivalesse a conoscenza; come se accesso coincidesse con partecipazione e partecipazione con efficacia; (…) come se la chiacchiera globale, sincrona e asincrona, fosse vera comunicazione”.
Dalla constatazione dell’urgenza di questa missione etica dello studio dei media nascono le parole accorate che concludono il libro, con cui si è aperto questo pezzo.
Non la rassegnazione, ma la lotta. Non il rifugio in facili teorie onnicomprensive ma la scelta della complessità. Non il luddismo, ma la conoscenza e la competenza mediale. Non l’amoralità e l’indifferenza dei media, ma la loro etica e la loro responsabilità.
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