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Jean Starobinski

(Ri)leggere un classico della critica letteraria /2: Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco (2)

 Questo lunedì è morto, a 98 anni, Jean Starobinski. Riproponiamo una lettura del suo Ritratto dell’artista da saltimbanco della nostra redattrice Luisa Mirone

Totus mundus agit histrionem

Quando lessi per la prima volta Ritratto dell’artista da saltimbanco (1970; trad.1984), avevo diciotto anni: l’età dei miei studenti di oggi. Dubito di averlo realmente compreso: mi mancavano gli strumenti, gli antecedenti, i contesti di riferimento e parecchi degli autori in esame. Eppure ne rimasi come folgorata. Quel libro era destabilizzante – ma seducente a cominciare dalla sua copertina, anticipazione elegante e sobria di un irresistibile repertorio di immagini. L’ho poi letto e riletto tante volte, negli anni; per intero, a brani. Ed è a questo libro che penso, oggi, se parliamo di critica come didattica (Zinato); e per questo libro penso al triplice approccio di Jakobson che – ancora qualche settimana fa – Luperini ci ricordava dalle pagine di questo blog.

1.Intentio auctoris

A partire dagli anni Cinquanta, Jean Starobinski, psichiatra e studioso di letteratura, si muove fra artisti, scrittori e poeti con passo tutto nuovo. Lo sguardo della critica più attenta (si pensi per esempio a Calvino nelle Lezioni americane[1]) intercetta le movenze originali con cui lo studioso costruisce e attraversa l’architettura solida e complessa dei piani intersecati che fanno l’opera d’arte.

Leggiamo la dichiarazione di intenti con cui Starobinski esordisce nel Ritratto:

«Quel che vorremmo cercare di definire in maniera un poco più chiara di quanto si sia fatto finora è la peculiare qualità dell’interesse che ha spinto scrittori e pittori dell’Ottocento a moltiplicare le immagini del clown, del saltimbanco e della vita delle fiere, fino a farne un luogo comune. Un simile interesse, senza dubbio, si spiega anzitutto ricorrendo a ragioni estrinseche: il mondo del circo e della fiera rappresentava, nell’atmosfera plumbea e inquinata di una società in via di industrializzazione, una piccola isola colma di meraviglie dai colori cangianti, un pezzetto ancora intatto della terra d’infanzia, uno spazio entro il quale la spontaneità vitale, l’illusione, i prodigi semplici dell’abilità o della goffaggine fondevano insieme tutte le loro seduzioni offrendole allo spettatore stanco della monotonia dei doveri che la vita seria impone. Sembrava che quegli aspetti della realtà, certo più di molti altri, aspettassero solo di venir fuori fissati in una trascrizione pittorica o poetica. Ma questi motivi (le cui implicazioni storico-sociali appaiono evidenti) non sono i soli. (…) Al piacere dell’occhio si aggiunge un’inclinazione di altro genere, un legame psicologico che fa provare all’artista moderno un certo qual senso di nostalgica connivenza col microcosmo della parata (…) Nella maggior parte dei casi si deve arrivare a parlare d’una singolare forma di identificazione[2]

L’autore chiarisce le sue intenzioni relativamente all’oggetto di quella indagine specifica; e tuttavia si fa largo tra le righe una sorta di dichiarazione programmatica, metodologica, con la quale il critico consegna al lettore un sorprendente tool chest, una batteria di strumenti di accesso all’opera d’arte non sprezzanti dell’ortodossia, e tuttavia antidogmatici. Agili e sicuri, gli strumenti di Starobinski – desunti dalla filologia, dallo storicismo, dallo strutturalismo, ma anche dalla psicanalisi, dalla antropologia, dalla sociologia, dalla filosofia –  sottraggono la letteratura al rapporto esclusivo e morboso di narcisistica intimità col lettore, ma allo stesso tempo ne impediscono la riduzione alle dimensioni del “documento”, della testimonianza indiretta di fatti storici ritenuti importanti.

«La letteratura esercita (…) una funzione di risveglio, crea un clima di sensibilità, insegna a guardare con occhi nuovi certi spettacoli ai quali nessuno prima aveva prestato sufficiente attenzione. (…) In tal modo l’influsso esercitato dalla letteratura diviene anche una conversione al reale»[3].

L’approccio tematico, esibita bandiera di combattimento di tanta didattica militante impegnata nella interdisciplinarità, trova qui una formulazione complessa. La ricorrenza del tema è una traccia, una linea-guida, un binario, ma il tema è solo apparentemente astorico, senza tempo: esso si rivela piuttosto profondamente compromesso con l’epoca che lo genera o lo predilige, indicatore e contenitore delle sue inquietudini, dei suoi significati, delle sue istanze, dei suoi fallimenti. Eppure non è il tema a fare l’opera d’arte bella e interessante, ma, perfettamente al contrario, è l’opera letteraria che svela le direttrici del tema, trasformandolo in passepartout per luoghi del reale e della storia altrimenti inaccessibili. Per questa strada la letteratura – mondo-altro di finzioni e fantasmagorie – diventa straordinario e inatteso strumento di conversione al reale. Con buona pace dei detrattori della formazione umanistica.

2.Intentio operis

Nella intentio auctoris è in qualche modo già contenuta la intentio operis. Nel momento stesso in cui l’autore dichiara che la letteratura, universo finzionale, è in verità ironicamente rivelatrice delle leggi immanenti del reale, di quell’ironia intenzionalmente dichiara il valore ermeneutico: «Il gioco ironico possiede di per sé il valore di un’interpretazione»[4]: l’artista che ritrae o si ritrae nelle movenze deformi del saltimbanco o del pagliaccio rivela il suo rapporto doloroso con lo spettatore borghese, avvezzo a comprare arte come qualsiasi altra merce; ma rivela anche (forse soprattutto) il suo rapporto contraddittorio con la propria stessa vocazione artistica. L’amato alloro di Dante, che lo faceva vate, s’è trasformato nell’aureola ipocrita di cui il pubblico borghese cinge cinicamente l’artista per legarlo a sé, tributo solo esteriormente splendido a chi di fatto è costretto a vendersi (al botteghino, all’editoria, alla borsa che quota le azioni come i quadri) per continuare a esistere. Ridotto quindi a una maschera grottesca, l’artista deve scegliere se continuare a esistere come suo doppio che fa le smorfie[5], o se, novello Yorik, vestire gli abiti del fool in nome di una genialità ritrovata[6].

E qui, in bilico tra la lezione simbolista e le istanze dell’avanguardia, si dispiega apertamente l’intentio operis: tracciare il ritratto dell’artista da saltimbanco e usarlo come specchio nel quale l’artista possa ironicamente guardarsi ed essere guardato negli abiti cangianti della ballerina o della vamp, del clown o dell’acrobata, artisti salariati di uno spettacolo che li vede pertanto protagonisti a metà. La contemplazione ammirata o inorridita di corpi desiderabili e corpi umiliati[7] produce l’effetto di un transfert: l’immagine dei corpi «che cercano gloriosamente, vanamente, la propria redenzione attraverso il movimento»[8] rivela il trauma storico e sociale dello «smarrimento semantico del corpo»[9]. E’ un disagio verso la condizione corporea che si configura come malattia tipicamente borghese: tanto l’imprenditore immerso nei suoi registri contabili, quanto l’operaio in tuta da lavoro alla catena di montaggio, sono comunque imprigionati in corpi asserviti a un ruolo univoco e senza scampo, corpi abbandonati da quell’anima un tempo hospes comesque corporis. Starobinski parla di vera e propria alienazione[10]; e il saltimbanco scivola nel vuoto di senso provocato da questa scissione, per riemergerne di volta in volta carico dei significati più disparati, mortiferi o vitali. L’opera definisce quindi il valore profondo della funzione del saltimbanco:

«Il non-senso, che il clown porta con sé, avrà allora, in un secondo tempo, valore di “messa in dubbio”, di sfida alla serietà delle nostre certezze. Questa boccata di gratuità c’impone di riconsiderare tutto ciò che si riteneva tranquillamente necessario. Così, proprio perché è anzitutto assenza di significato, il clown attinge significato supremo di contraddittore: nega tutti i sistemi d’affermazione preesistenti e introduce nella massiccia coerenza dell’ordine costituito il vuoto grazie a cui lo spettatore, staccato finalmente da se stesso, può ridere della propria pesantezza»[11].

3.Intentio lectoris

Anche il lettore dunque, come lo spettatore, segue le evoluzioni del saltimbanco con un intento quasi catartico e s’aspetta che il clown, contraddittore dell’ordine costituito, lo liberi dalla pesantezza delle coercizioni sociali e morali e lo sollevi sopra di esse, finalmente lieve come un funambolo. Invece il clown, salvatore derisore[12], proprio in chiusura gioca al lettore l’ultima beffa.

«La funzione del clown (…) presuppone l’esistenza di una società organicamente strutturata, alla quale sia possibile opporre una contraddizione sotto le specie di una forma o di una maschera istituzionali. Allorché l’ordine sociale si dissolve, la presenza del clown si attenua così sulla scena come sulla tela; ma è proprio allora che il clown scende per le strade: ed è ciascuno di noi».[13]

Totus mundus agit histrionem: il lettore si scopre saltimbanco, ma di una pantomima di strada, nella quale gli tocca recitare in un ruolo mortificante, sprovvisto tanto della leggerezza dell’acrobata, quanto della carica eversiva del clown. Venuta meno infatti una società organicamente strutturata, anche il potenziale destrutturante del saltimbanco si sfalda, rintuzzato nella recita dimessa del quotidiano, a cui non giovano lustrini e piume per mascherare un vuoto che è – appunto – strutturale: assenza di valori, di punti di riferimento, di ideologie forti. Questo mi spiazzava sicuramente a diciotto anni. Questo – oggi – mi fa rileggere il libro con intenzioni nuove e didattiche. Non sono – queste – intenzioni catechizzanti: non m’interessa tanto istruire i miei studenti al riconoscimento del vasto repertorio simbolico del circo e del vaudeville, per quanto ne veda bene le significazioni forti di ordine morale e sociale. Mi interessa di più che riconoscano il clown che è in loro, in noi, che ne riscoprano la carica eversiva, che ritrovino il coraggio di essere fool e di farsi ritrarre da saltimbanchi, che è sempre meglio di farsi fare la caricatura in piazza; o di fare l’ennesimo selfie.

[1] I. Calvino, Visibilità in Lezioni americane, Mondadori, Milano 1993, pp.98-99.

[2] J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, Boringhieri, Torino 1984, pp.37-38; la traduzione e l’introduzione del saggio sono di C. Bologna.

[3] Ivi, pp.39-42.

[4] Ivi, p.39.

[5] E’ il titolo del capitolo primo, pp. 37-45.

[6]  E’ il titolo del capitolo secondo, pp.47-52.

[7] E’ il titolo del capitolo quinto del libro, cfr. Ivi, pp, 81-101.

[8] Ivi, p.87

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p. 90

[11] Ivi, pp.152-153

[12] Salvatori derisori è il titolo del settimo capitolo del saggio, cfr. Ivi, pp. 117-131.

[13] Ivi, pp.151-154

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