Per ripensare gli studi di genere
Una sollecitazione a ripensare in modo radicale gli studi di genere, che come è noto soffrono in Italia di una cronica carenza di visibilità e rappresentanza anche istituzionale, è offerta dal ricco dibattito che nell’accademia anglo-americana ha caratterizzato la riflessione sull’identità maschile. Con particolare riferimento all’area statunitense, nei paragrafi che seguono ripercorrerò alcuni dei passaggi centrali di tale sforzo – ormai quarantennale – di ridefinizione dei confini del maschile in rapporto al femminile, cercando di metterne in luce punti di forza, peculiarità e contraddizioni che possano essere di stimolo per la discussione in ambito italiano, in cui preoccupazioni simili si sono affacciate in modo piuttosto timido solo di recente.
Anni ’60 e ’70: contro la dominazione maschile
L’interrogazione contemporanea sulla maschilità ha origine nella sovversione del principio implicito nelle rivendicazioni del femminismo second-wave, anticipato da un’osservazione di Simone de Beauvoir nel Secondo sesso (1949): un uomo non avrebbe ragione di scrivere un libro sulla posizione peculiare che occupa nell’umanità in quanto uomo. La dominazione maschile si era dispiegata indisturbata per millenni precisamente perché la maschilità veniva percepita e interiorizzata come condizione universale e “non marcata”. Il principale compito del femminismo consisteva dunque nel denunciare i danni del patriarcato dando voce all’Altro messo a tacere e “marcato” dalla differenza, sia nella prassi politica sia nel campo delle rappresentazioni culturali. Nei tardi anni Sessanta e Settanta, ad esempio, le studiose portano al centro della scena i testi letterari come cruciali siti di costruzione dell’identità di genere, mettendo sotto accusa i disvalori di passività e sottomissione che i personaggi femminili (e di conseguenza le lettrici) finiscono per incarnare come effetto della violenza misogina. Negli anni Ottanta, quando la stagione delle lotte politiche si è più o meno chiusa, il femminismo statunitense ha raggiunto una istituzionalizzazione accademica tanto imponente quanto capillare, passando dai 110 corsi di Women’s Studies nel 1970, ai trentamila alla fine dei due decenni successivi.
Il soggetto femminile e i men’s mouvements
Il nuovo soggetto femminile forte e visibile e la radicale messa in discussione dei rapporti di potere stimola l’emergere, negli anni Settanta, del fenomeno parallelo dei movimenti maschili. Fondamentalmente polarizzati, solidali o difensivi rispetto alle rivendicazioni e alle mutate aspettative delle donne, i men’s mouvements prevedono in genere la modalità del “gruppo di sostegno”, ovvero uomini che discutono e tentano di ripensare la propria identità maschile gli uni di fronte agli altri. Mi sembra importante sottolineare che l’ispirazione e le forme di tali aggregazioni di liberazione omosociale, così come le riflessioni che generano, risentono della matrice religiosa protestante – e in particolare puritana – che permea la cultura statunitense. Non solo per quanto riguarda la formazione di gruppi autonomi “dissenzienti”, ma anche per l’influenza della classica modalità della “professione di fede”, vale a dire la testimonianza, da parte dell’individuo, della salute della propria anima davanti alla congregazione dei credenti. E’ senz’altro questo un fattore che contribuisce a spiegare la presenza al confronto irrisoria di movimenti maschili nei paesi di tradizione cattolica, del resto pervicacemente fedele alla predicazione di Paolo intorno alla subordinazione della donna. Per altri aspetti i “liberazionisti” si appropriano di modalità di esperienza tradizionalmente codificate come proprie del mondo femminile (e cruciali nel definire la cosiddetta “crisi” della maschilità post-anni Sessanta): l’attenzione al proprio punto di vista come prospettiva situata, l’ammissione di sentirsi “feriti” o “bisognosi” rivendicando uno status di vittima (vuoi della camicia di forza patriarcale vuoi della sovversione femminista), la disposizione all’ascolto di sé e dell’altro, il riconoscimento dell’importanza della sfera emotiva nella costruzione del sé.
I Masculinity Studies
La controparte accademica della auto-riflessione maschile pro-femminista si può considerare quell’area di studio interdisciplinare che investiga la costruzione della maschilità in una certa epoca o società, solitamente denominata masculinity studies. Rappresentativi di questo campo sono studi generalisti come quelli di Victor Siedler, Michael Connell, Michael Kimmel, Michael Messner, David D. Gilmore e altri. In Rediscovering Masculinity (1989, tradotto in italiano nel 1992), Seidler traccia l’interdipendenza dei concetti di razionalismo, progresso e maschilità nell’Europa moderna, sottolineando la pesante eredità dell’equazione di moralità, ragione e l’essere uomo, di fatto ottenuta per mezzo della soppressione del sé emotivo e relazionale e dunque in opposizione all’essere donna. Anche Michael Connell, nel noto Masculinities (1995, tradotto in italiano lo stesso anno), indaga il radicamento della definizione di maschilità occidentale moderna nel razionalismo filosofico e nei valori acquisitivi dell’imperialismo capitalista; inoltre, Connell propone di spezzare il monolite di una generica identità maschile per pensare piuttosto in termini di maschilità “multiple”, secondo una varietà di esperienze identitarie situate – gerarchizzate le une rispetto alle altre tanto quanto rispetto alla maschilità “egemone” che ogni società produce – in termini di classe, razza, orientamento sessuale, nazionalità, età, ecc. Studi di carattere antropologico come Manhood in the Making (1990) di David D. Gilmore sottolineano invece un’enfasi culturale “universalmente sancita” sulla maschilità come forza, aggressività e stoicismo.
La prospettiva costruttivista
In generale, simili lavori animati da una prospettiva “costruttivista” (ovvero centrata sul modo in cui il genere è costruito), condividono alcuni tratti distintivi. Più o meno esplicitamente, mettono in luce come l’identità maschile non sia tanto un’esperienza di potere e privilegio in sé, quanto un test della capacità di assumerli. Nella sua qualità di prova, di sforzo, la maschilità risulta non solo una condizione perpetuamente fragile ed elusiva, ma anche una fabbricazione perseguitata dallo spettro del fallimento, dall’incapacità di essere pari a un ideale che richiede una costante verifica personale e sociale, soprattutto da parte degli altri uomini. Metodologicamente, questi studi adottano una prospettiva storica, sociologica, antropologica o “culturologica” tendenzialmente descrittiva, disinteressata a inquadramenti o spunti di tipo teorico-filosofico che si sforzano di prescindere dalla biologia come fondamento inalterabile dell’identità, o di reintegrare il ruolo dell’inconscio e delle identificazioni escluse nella costituzione di quest’ultima (come invece più spesso è avvenuto, e ne accennerò a breve, nei masculinity o gender studies praticati da donne).
Il mondo accademico anglofono e “l’invidia” per il femminismo
Gli studi sin qui menzionati sono solo la punta dell’iceberg di una vasta produzione che soltanto agli inizi degli anni Novanta contava centinaia di volumi, riviste e siti specializzati, per non menzionare l’esistenza di decine di programmi dedicati nelle università statunitensi (ma il fermento è comune a tutta la cosiddetta “anglosfera”). Una controversia è infatti sorta intorno al sospetto di un investimento strategico sugli argomenti di gender da parte degli accademici maschi, spiegabile a partire dal grande spazio e potere simbolico conquistato dal femminismo nell’accademia anglofona. Secondo le critiche più antagonistiche, con il pretesto di studiare il gender in un’ottica progressista, gli uomini si sono annessi un territorio in espansione che tende a confermare e persino esaltare, piuttosto che a mettere in discussione, le immagini e i discorsi dominanti della maschilità. Inoltre, il femminismo aveva fondato le sue istanze sulla esperienza vissuta della negazione della voce e di una soggettività autonoma, un’esperienza che gli uomini possono solo apprendere teoricamente o peggio scimmiottare. Una delle domande di fondo, infatti, riguarda la credibilità di una “politica identitaria dei dominanti”. Robert Connell non a caso ci ricorda che in quanto soggetti egemonici, gli uomini non hanno interesse a sovvertire radicalmente l’ordine di privilegi che condividono.
Di certo, come ha osservato Rosi Braidotti, negli Stati Uniti i maschi hanno sviluppato un rapporto di invidia e imitazione nei confronti del femminismo, una reazione inimmaginabile in Italia e persino in Francia, paesi nei quali il femminismo è ridotto a una posizione marginale o difensiva. Anche la storica e filosofa Elizabeth Badinter ha ragionato sulla potenza e radicalità del femminismo americano in termini comparativi che appaiono applicabili, con qualche distinguo, anche al caso italiano (e il recente caso giudiziario che ha visto implicato Dominique Strauss-Kahn sembrerebbe comprovare questo divario culturale):
La francese non ha mai interrotto del tutto il dialogo con il suo complice. La solidarietà tra i sessi è sopravvissuta a tutto, compresi i periodi di rimessa in discussione più aspri. La virilità è meno contestata su questa sponda dell’Atlantico, la violenza maschile meno grande, e gli uomini hanno meno paura delle donne, e reciprocamente.
Il ripensamento della maschilità è dunque apparso meno necessario e urgente nel nostro contesto a causa della debolezza strutturale del femminismo italiano, ma anche di altri fattori – che qui posso solo sfiorare – legati all’estraneità storica e culturale del discorso sulle identità. In generale, il conflitto tra attori maschili e femminili, donne femministe e uomini femministi (così come le frizioni tra femministe bianche e nere, eterosessuali e gay, ecc.), rispecchia dinamiche di identity politics specificamente radicate nella cultura statunitense, e in ultima analisi riconducibili all’esperienza del congregazionalismo religioso (in base a cui un gruppo si distacca dalla formazione maggioritaria e rivendica il proprio diritto a esistere autonomamente godendo dei medesimi diritti). Inoltre, l’Italia non ha avuto l’esperienza del conflitto razziale né un movimento omosessuale forte, mentre d’altro canto le agende culturali dominanti dell’idealismo umanistico e del pensiero marxista hanno coltivato una concezione universalistica dell'”Uomo”. A ciò si aggiunge l’influenza del modello di mercato nelle politiche accademiche statunitensi, che contribuiscono a premiare i prodotti più recenti – in questo caso i masculinity studies – quando questi abbiano raggiunto un rilevante indice di gradimento, inserendoli in specifiche “nicchie”.
Decostruzione e maschilità femminista
L’interrogazione più radicale dell’identità maschile ha avuto luogo proprio all’interno del movimento femminista, attraverso il riposizionamento conflittuale delle donne nere che già alla fine degli anni Settanta mettono in discussione la presunta compattezza di un'”identità femminile”, in realtà espressione del privilegio bianco, borghese ed eterosessuale. In seguito, l’esigenza di ridefinire il femminismo in base alla intersezione di assi molteplici di differenza si è sposata con l’incorporazione di approcci marxisti, freudiani e decostruttivi al problema del gender. Un ruolo centrale nello scardinare il binarismo del maschile-femminile è stato giocato dall’attenzione al desiderio omosessuale e alla creazione tardo-ottocentesca di una “identità omosessuale”, così come dall’esplorazione delle dinamiche omoerotiche nel patto patriarcale tra maschi (come bene illustrano gli studi di Eve Kosofsky Sedgwick, da Between Men: English Literature and Male Homosocial Desiredel 1985 ed Epistemology of the Closet del 1990, non tradotti in Italia).
I queer studies
Lo sforzo di destabilizzare le identità sessuali e di genere, de-naturalizzando i concetti di norma e deviazione, segna anche la cruciale riconfigurazione di una componente importante dei gender studies in queer studies, dove queer è la risemantizzazione di un insulto rivolto agli omosessuali allo scopo di conferire potere simbolico sovversivo ai marginali. La voce più autorevole degli studi queer è quella di Judith Butler, che ha lavorato sulla natura linguistica e in particolare performativa delle identità di “donna” e di “uomo”, non intendendole come realtà ontologiche piene e originarie ma come costruzioni artificiali che risultano da atti ripetuti di “interpellazione”; lo stesso sesso biologico non sfuggirebbe al sistema regolatorio del discorso che produce il gender con le sue esclusioni e inclusioni, dunque nemmeno il corpo si può intendere come sostanza pre-simbolica. Le tesi di Butler hanno influenzato in modo decisivo il lavoro di Judith Halberstam. In Female Masculinity (1998, tradotto in italiano nel 2010), Halberstam sostiene come specialmente nelle società moderne e postmoderne, nelle quali il potere sociale non opera più attraverso la repressione e non dipende più esclusivamente dal corpo maschile, i corpi non maschili possono accedere a tale potere appropriandosi della sua qualità fallica anche in assenza della controparte anatomica. Invece di essere mere “imitazioni” dell’identità maschile, soggetti devianti o liminali (come la lesbica mascolina, il maschiaccio, la donna brutta, l’atleta, ecc.), si incaricano di rivelare il funzionamento della cosiddetta maschilità “autentica”.
L’Italia
Lo sviluppo teorico decostruzionista dei gender studies è rimasto fuori dalla portata e dagli interessi degli studi sul maschile che in Italia hanno cominciato a fare qualche timida apparizione verso la fine degli anni Novanta, perlopiù in area storica e sociologica, mostrandosi fondamentalmente ancorati a un’ottica descrittivo-costruttivista. Sono tante e spesso condivisibili, del resto, le critiche mosse al femminismo post-strutturalista: astrusità di linguaggio, peso eccessivo attribuito al modello linguistico nella concezione dell’identità, attenzione sproporzionata ai soggetti marginali, perdita di un orizzonte pubblico e condiviso nella ricerca di emancipazione, esagerata disinvoltura nel transitare da un ambito disciplinare all’altro (letteratura, storia, cinema, filosofia, ecc.). Per contro, altrettanto rilevanti appaiono alcune conquiste degli studi di gender e post-gender, la cui segregazione nel microcosmo accademico non ha impedito loro di esercitare un’influenza indiretta sul discorso culturale a livello nazionale, facendo aumentare il peso simbolico di soggetti dominati come le donne e i gay. Sfidando da un lato la traduzione automatica di maschilità in uomini, dall’altro l’esclusione tanto degli uomini quanto della maschilità dal femminismo “della differenza”, proprio il femminismo di impronta decostruzionista ha opposto una salutare resistenza alla sempre latente riproduzione, a livello dell’analisi, del binarismo di genere che struttura tutti gli ordini sociali conservatori. ____________________________
NOTE
Questo articolo è stato pubblicato su menodizero.eu Anno III, numero 8-9, gennaio-giugno 2012.
La citazione di Simone de Beauvoir è da Il secondo sesso. I. I fatti e i miti, Il Saggiatore, Milano 1961, p. 15.
I dati sui corsi di Women’s Studies sono della Modern Language Association. Cfr. Valeria Gennero, L’impero dei testi. Femminismo e teoria letteraria anglo-americana, Bergamo University Press-Edizioni Sestante, Bergamo 2002, p. 75. Per una trattazione più approfondita di varie questioni qui trattate rimando al mio “Studiare il maschile”, Allegoria, gennaio-giugno 2010, pp. 9-36.
Sui movimenti degli uomini cfr. Judith Newton, “Masculinity Studies: The Longed for Profeminist Movement for Academic Men?”, in Masculinity Studies and Feminist Theory, a cura di Judith K. Gardiner, Columbia University Press, New York 2002, p. 177.
Rosi Braidotti, Soggetto normale. Femminismo e crisi della modernità, Donzelli, Roma 1995, p. 99
La citazione di Banditer è tratta da Elizabeth Badinter, XY. De l’identité masculine, Odile Jacob, Paris 1992, p. 18
Cfr. Judith Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity (1990), trad. it. Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Firenze 2004; ead. Bodies that Matter: On the Discursive Limits of Sex (1993), trad. it. Corpi che contano. I limiti discorsivi del “Sesso”, Feltrinelli, Milano 1996.
Non è possibile fare qui una panoramica nemmeno parziale di tali studi. Si vedano, tra gli altri, Genere e mascolinità. Uno sguardo storico, a cura di Sandro Bellassai e Maria Malatesta, Bulzoni, Roma 2000, Stefano Ciccone, Essere maschi. Tra potere e libertà, Rosenberg&Sellier, 2009; Elisabetta Ruspini (a cura di), Uomini e corpi. Una riflessione sui rivestimenti della mascolinità, Franco Angeli, Milano 2009.
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